È la stagione degli investimenti. Dove? Quanto? E in che modo? È da anni che di investimenti si parla stanziando cifre che non si traducono in sviluppo. Come si può valorizzare il risparmio degli italiani in progetti per l’economia reale?
Investire significa pensare al futuro del nostro Paese. Significa pensare ai piú giovani. Investire è essenziale per aumentare i livelli di crescita e, quindi, per mantenere il nostro welfare, l’assistenza sanitaria e previdenziale che garantiamo a tutti i cittadini. Dobbiamo preservare gli standard di vita conquistati dalle generazioni passate, ora purtroppo messi a rischio. Per questo è necessaria una maggiore capacità di visione sull’Italia che vogliamo costruire nei prossimi anni.
Le risorse a disposizione devono essere spese in modo da garantire una crescita inclusiva, sostenibile, equa. Penso si debba partire dagli investimenti in capitale umano, dal nostro sistema educativo e dai giovani. Negli ultimi anni le imprese nostre clienti hanno lamentato la carenza di tecnici e ingegneri; durante la pandemia è mancato il personale medico e paramedico. Dobbiamo realizzare una migliore programmazione rispetto alle esigenze del futuro.
E poi c’è il tema delle infrastrutture di trasporto e logistiche. Diciamolo chiaramente: per anni si è investito troppo poco e, a livello pubblico, spesso male. La crisi del 2008 ha avuto un effetto negativo sugli investimenti pubblici che ha colpito tutta l’Europa, tanto da spingere la precedente Commissione a varare il Piano Juncker. Nessun Paese è rimasto escluso ma, a differenza dell’Italia, in molti Stati le reazioni sono risultate piú rapide. Non è tanto una questione di risorse disponibili. Dobbiamo migliorare capacità tecniche, progettuali e realizzative delle amministrazioni a livello centrale e locale. I processi decisionali e autorizzativi sono troppo articolati e complessi, spesso finiscono per rappresentare un freno al coinvolgimento in partnership del capitale privato.
Vedo principalmente due grandi sfide: la prima è rinnovare e adeguare le infrastrutture all’attuale domanda di cittadini, imprese, comunità ; la seconda è mettere in sicurezza il nostro territorio, con una attenzione costante alla sostenibilità ambientale.
Per realizzare un ambizioso piano di rilancio degli investimenti pubblici, che rappresenterebbe anche un importante volano per l’economia, è doveroso dotarsi di una maggiore capacità di progettazione e di spesa da parte della pubblica amministrazione.
Già prima dell’emergenza sanitaria c’erano circa 150 miliardi di euro di fondi pubblici, per interventi sulle infrastrutture, bloccati dalla burocrazia, da una governance complicata e da inerzie. Il rilancio degli investimenti non può che partire da una profonda revisione dei meccanismi decisionali, da una semplificazione delle procedure, dallo sviluppo delle competenze della pubblica amministrazione nella progettazione e nella programmazione delle opere.
Il Decreto semplificazione va nella direzione giusta?
Il Decreto rappresenta un importante contributo per accelerare la spesa d’investimento. In molti richiamano il caso positivo del ponte Morandi per la rapidità di esecuzione. È stata però un’esperienza che ha potuto contare su elementi eccezionalmente positivi: una firma di prestigio come quella di Renzo Piano, un ampio consenso popolare, una ricostruzione e non un’opera nuova che si scontra con espropri, indennizzi alle comunità , eccetera.
Ci occorrono soluzioni stabili per ripetere questa esperienza positiva senza ricorrere a misure di emergenza. Dobbiamo migliorare le capacità tecniche, progettuali e realizzative delle amministrazioni centrali e locali. Alle risorse pubbliche possono e devono aggiungersi capitali privati. In questa fase non si pone infatti un tema di liquidità e disponibilità di risorse private, tutt’altro. Le banche abbinano a un approfondito know-how delle iniziative, capacità di valutazione e flessibilità gestionale. Gli investitori possono fornire una liquidità piú a lungo termine. Il coinvolgimento di risorse private richiede certezze, stabilità e semplificazione delle norme.
Un tema a lei caro: la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico. Cosa deve fare il governo per raggiungere questo obiettivo?
La valorizzazione di tutta la ricchezza del Paese per me resta un tema centrale. L’Italia è un Paese ricco: abbiamo un patrimonio culturale e artistico senza uguali al mondo, le amministrazioni pubbliche detengono attivi immobiliari significativi, il risparmio privato è elevato. Le risorse disponibili devono essere valorizzate e utilizzate per generare crescita e sviluppo. Il patrimonio immobiliare pubblico è costituito da un gran numero di edifici che hanno alti costi di gestione, non eccellono in sicurezza e generano un considerevole impatto ambientale. È fondamentale migliorare la gestione e l’efficienza di parte di questo patrimonio, pensando parallelamente alla rimodulazione delle esigenze delle amministrazioni pubbliche per valorizzare gli immobili che possono essere utilizzati per altri scopi.
Per questo ho proposto di creare dei fondi immobiliari da destinare ai cittadini residenti nelle aree in cui gli immobili sono localizzati, in questo modo si unisce, da un lato, l’intendimento di preservare la ricchezza dei territori, dall’altro, la necessità di valorizzare le risorse disponibili allocandole nel migliore dei modi.
È vero che in giro ci sono piú capitali che opportunità ?
Il mondo è pieno di opportunità . Basta riflettere sui bisogni esistenti e quelli che si creeranno nei prossimi anni: digitalizzazione, transizione ambientale, effetti dell’invecchiamento della popolazione.
Nel digitale, come Paese, siamo agli ultimi posti in Europa. Dobbiamo migliorare le connessioni, diffondere la digitalizzazione tra i cittadini e le piccole e medie imprese. Molti settori economici trarrebbero beneficio da ampi processi di connessione: sarebbe utile avere una pubblica amministrazione 4.0, una giustizia 4.0 con atti giudiziari telematici e altre innovazioni.
Bisogna favorire la transizione verso un sistema produttivo basato sull’economia circolare, in grado di riciclare gli scarti e i residui di produzione (gli imballaggi per esempio) e di ridurre le emissioni e l’inquinamento. Se diventassimo leader in queste buone pratiche – in alcune delle quali ricopriamo già posizioni ragguardevoli – saremmo di esempio per tutti i Paesi del mondo, anche per Cina, India e Stati Uniti che sono i blocchi geografici che producono piú inquinamento.
Ne trarrebbero vantaggio la salute e la qualità dell’ambiente, ma potremmo anche aumentare le nostre esportazioni di prodotti e tecniche produttive green verso l’Asia e altri Paesi che certamente registreranno un aumento della domanda.
L’Europa è pronta a intervenire con finanziamenti e sovvenzioni, a patto che gli Stati membri pongano tra le loro priorità il digitale e l’economia verde. Dobbiamo cogliere questa opportunità , non perché «ce lo chiede l’Europa», ma nel nostro interesse.
A pandemia finita resterà una montagna di debito. È un problema: come sarà possibile gestirlo e ridurlo senza sconquassi per i cittadini o rischi sui mercati?
Non c’è dubbio che questa crisi stia aggravando una tendenza che aveva già subito un’accelerazione con la grande crisi finanziaria del 2008. A partire da allora si è verificato un travaso di debito dal settore privato a quello pubblico. Oggi il debito viene creato per evitare la crisi sociale legata alle politiche di contenimento della pandemia. L’inevitabile effetto è però un incremento del debito pubblico che interessa sia i Paesi avanzati, sia quelli emergenti. Secondo il Fondo monetario internazionale nel biennio 2020-21 il debito salirà di 16,7 punti percentuali nei Paesi avanzati e di oltre 11 punti percentuali negli emergenti. Il livello medio nei Paesi avanzati salirà quindi intorno al 122%.
Diversamente da 10 anni fa, il sistema è culturalmente piú preparato ad accettare le politiche necessarie a evitare che questi livelli di debito conducano a nuove crisi. Le banche centrali hanno prontamente riattivato e potenziato i programmi di acquisto di titoli e garantiscono tassi di interesse bassi, talora perfino negativi. Anche la Banca centrale europea, malgrado i maggiori vincoli che ne limitano l’azione, sta intervenendo energicamente nella stessa direzione. Oltre ad aumentare la dimensione del suo programma di acquisto, l’App (Asset Purchase Program), la Bce ha attivato un nuovo programma temporaneo, il Pepp (Pandemic Emergency Purchase Program), con un limite attuale di ben 1350 miliardi di euro. L’aspettativa è che tale strategia prosegua in maniera aggressiva, fino a quando l’inflazione resterà bassa. Nell’area dell’euro, la situazione è complicata dal fatto che Paesi caratterizzati da livelli di debito molto diversi condividono la stessa moneta. I Paesi con debito piú alto rischiano di perdere sempre piú terreno, in assenza di meccanismi compensativi. Per questo è importante che il piano europeo per la ripresa sia approvato.
A cosa devono servire i recovery bond?
Next Generation EU, cioè il piano europeo per la ripresa, serve proprio a evitare che la crisi accentui ancora di piú la divergenza fra i Paesi ad alto debito e quelli a basso debito. E faccia rivivere l’incubo dello spread.
Una prima divergenza è emersa durante la crisi. Diversi Paesi ad alto debito sono stati obbligati dalla crisi pandemica ad adottare misure di confinamento protratte e severe, con forte impatto economico. In generale, i Paesi piú ricchi hanno potuto gestire l’emergenza in modo piú flessibile, anche perché i loro sistemi sanitari erano piú attrezzati per le emergenze e con maggiori capienze.
La seconda divergenza è emersa anch’essa durante la crisi. I Paesi a basso debito hanno piú spazio fiscale, e quando tutto il piano di rilancio era delegato agli Stati, hanno saputo adottare misure di sostegno piú ampie rispetto ai Paesi ad alto debito. Paradossalmente, gli Stati economicamente piú colpiti sono quelli che hanno potuto adottare misure di stimolo meno forti.
Ora rischiamo di vedere una terza divergenza, legata alle politiche di rilancio. Senza misure di salvaguardia che garantiscano l’accesso al mercato a costi ragionevoli a tutti gli Stati membri, la ripresa dei Paesi ad alto debito rischia di essere sbilanciata. I Paesi finanziariamente piú solidi non soltanto emergeranno prima dalla crisi, ma accumuleranno ancora piú vantaggio competitivo, perché potranno permettersi di investire di piú e mantenere imposte piú basse. A lungo andare, tutto ciò rischia di rendere insostenibile la stessa Unione monetaria. E a volte temo che questo aspetto non sia sufficientemente chiaro nella discussione pubblica in Italia. Il piano europeo per la ripresa avrà successo se passerà il concetto che la quota di trasferimenti deve essere prevalente, e se le risorse saranno utilizzate per attuare investimenti e riforme che migliorino il potenziale di crescita dei Paesi ad alto debito.
L’Italia deve usare il Mes?
Il Pandemic Crisis Support del Mes garantisce risorse fino al 2% del Pil italiano a un costo largamente inferiore a quello richiesto dal mercato al Tesoro italiano per le stesse scadenze. L’unica condizione è che le risorse siano utilizzate per finanziare spesa sanitaria, anche indiretta. Se viene utilizzato per finanziare spesa già programmata (un aspetto che si tende a considerare poco), può consentire risparmi di alcuni miliardi di euro nell’arco di un decennio. Ma potrebbe anche essere un’occasione per finanziare investimenti nella sanità trascurati negli ultimi anni, evitando di comprimere ancora di piú la spesa corrente.
Dunque, andrebbe usato?
Ripeto: potrebbe essere un’occasione.
Pil, quanto ci vorrà per tornare ai livelli (purtroppo non eccelsi) del pre-virus?
A giudicare dalle proiezioni che vengono pubblicate in questo periodo, è possibile che occorrano anni per tornare ai livelli del Pil pre-crisi. Il rimbalzo atteso nel secondo semestre 2020 e nel 2021 sarà probabilmente robusto, ma si confronta con una caduta dalle proporzioni del tutto eccezionali.
La ripresa non si manifesterà con la stessa velocità in tutti i settori. Per alcuni, il ritorno ai livelli pre-crisi potrebbe essere rapido. Per altri, il ritorno allo stato pre-crisi potrebbe richiedere molti anni.
Tuttavia, il copione non è scritto. Le prospettive dipendono dalla qualità delle scelte di politica economica che saranno compiute in Italia nei prossimi mesi, e dall’esito dei negoziati in corso sul piano europeo per la ripresa. Quest’ultimo potrebbe compensare gli effetti negativi sulla domanda dell’inevitabile risanamento fiscale che il governo dovrà avviare per frenare la crescita del debito.
Ma ripeto: molto dipenderà da noi, dalla nostra capacità di trasformare questa pandemia in una stagione di riforme economiche e di rilancio della nostra economia. L’Europa ci sarà vicina perché l’Europa si rafforza se l’Italia si rafforza.
Il vero rischio sembra sia lo scostamento tra la finanza e l’economia reale, le Borse segnano i record, la produzione cala e l’occupazione rischia. Qual è la percezione che ha lei?
Diversamente da quella del 2008, questa crisi non ha nulla a che fare con la finanza. In questa occasione, la finanza è un pezzo della soluzione. Come parte fondamentale del nostro sistema bancario stiamo facendo di tutto per garantire la continuità aziendale delle imprese, per attenuare gli effetti sui redditi delle famiglie.
A proposito di banche, il virus spingerà a nuove concentrazioni?
La pandemia, con i suoi effetti sull’economia e sui comportamenti dei clienti bancari, può essere il catalizzatore di un riavvio del processo di concentrazione considerato di per sé necessario e che già era sul tavolo delle strategie delle banche. In Italia la dimensione è in generale un punto di debolezza. Lo sappiamo: riguarda l’intera economia. Quindi, per certi aspetti, la frammentazione del settore bancario italiano può rispecchiare quella del tessuto delle imprese, soprattutto a livello territoriale. Tuttavia, la pandemia sta accrescendo la consapevolezza, anche presso le imprese, che piccolo non è sempre bello.
Dove si colloca l’Italia delle banche se confrontata con l’Europa?
Il confronto europeo è chiaro e ci consegna la fotografia di un sistema bancario italiano poco concentrato. Ai primi 5 gruppi bancari italiani si riconduce meno della metà del mercato dei prestiti e della raccolta da clientela, rispetto all’83% dei depositi in Francia e addirittura al 100% dei mutui, e al 70% circa sia dei prestiti sia dei depositi in Spagna.
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