Anche il fatto che ogni tanto mia madre cerca di uccidersi è diventato un’abitudine, come piú o meno tutto il resto.
Mi chiamano dalla clinica e corro a prendere il taxi, quando arrivo ci mette un po’ a capire chi sono e poi fa il suo sguardo perso nel niente. Le dico: – Sono qui, – pur sapendo che non gliene importa granché. Muove gli angoli della bocca in un sorriso che è la piú esatta negazione di ogni allegria, ed è tutto quello che per oggi mi darà di sé.
La prima volta è stata per il primo anniversario della disgrazia, l’11 di giugno dell’89. Faceva un caldo torrido e sedevo con mio padre sulla panca di legno in fondo alle scale, dove io e Stella avevamo inciso i nostri nomi con il trincetto causando liti furiose e due settimane senza televisione. L’idea era stata di Stella, ma fui incolpata io o forse viceversa, non ricordo: fa parte degli eventi marginali che la mia memoria ha deciso di dissipare. Mio padre posò le mani sul sedile e fissò l’orologio a cucú dell’ingresso.
«Alle undici comincia. Bisogna che andiamo», disse quasi a sé stesso.
C’era la messa per l’anniversario. Alzai gli occhi verso il piano di sopra, immaginai mia madre che si ritoccava i capelli con la coda del pettine o spolverava via invisibili pulviscoli dalla camicia di raso. Era la prima volta che usciva di casa dopo mesi e teneva alle apparenze, perché le apparenze erano tutto ciò che le restava.
«Sí», risposi.
I capelli mi si appiccicavano alla fronte, leccai le mani e me le passai sulla testa per sistemarli. Stirai le grinze della gonna di velluto a coste, pensai che era troppo pesante per quel caldo infuocato e che mia madre mi avrebbe spedita a cambiarmi. Preparai mentalmente una scusa da presentarle, tutte le altre gonne sono sporche, molte ormai mi stanno piccole, poi mi dissi che anche questo faceva parte dell’ampia serie di questioni di cui a lei non importava piú niente.
Mio padre disse: «I parenti ci aspettano», io ripetei: «Sí».
In un attimo vidi l’adunata di persone in chiesa, i loro aliti pesanti e le facce sudate da baciare. La pena o la finta allegria con cui mi avrebbero salutata, la pretesa vuota di un’altra messa, stavolta senza nemmeno una bara, quindi ancora piú inutile. Sperai che mia madre tardasse ancora, anzi, che non scendesse piú. Il cucú segnava le dieci e cinquantacinque.
Mio padre prese una rivista di motori dalla cesta dei giornali e cominciò a farsi vento. Osservai i nostri nomi incisi sulla panca, «Stella» scritto con la sua grafia ampia e decisa e, sotto, «Bianca», piú piccolo, incerto, quasi una postilla.
«D’accordo, Bianca, – sbuffò alla fine. – Vai a vedere che cosa diavolo sta facendo la mamma».
Corsi di sopra, passai di fronte alla stanza chiusa di Stella e mi affacciai su quella dei miei genitori. Mia madre non c’era. Sbirciai in camera mia, per scrupolo, poi arrivai fino al bagno e spinsi adagio la porta. Non notai subito il liquido opalescente che stillava da sotto l’uscio allargandosi sul pavimento, o non capii che cos’era. Lo calpestai, camminai in bagno con le scarpe imbrattate. «Mamma», chiamai piano. «Mamma», piú forte. E la vidi. Prima furono solo le punte dei piedi che sbucavano dalla vasca galleggiando nel rosso come piccole isole di sabbia in un mare in fiamme, poi tutto il resto. La mano che pendeva dal bordo della vasca con le unghie appena fatte e l’anello di ametista, i sandali chiari dal tacco quadrato e la borsetta e la giacca di raso, i suoi abiti scelti con cura, lavati, perfettamente stirati, tutti zuppi di sangue. Alla fine mi cadde lo sguardo sul viso, aveva le labbra socchiuse e un’espressione di dolce rilassatezza, quasi di invito. Scappai sul pianerottolo, mi aggrappai alla ringhiera e urlai: «Papà, la mamma è morta». Non si alzò subito dalla panca, restò per un momento incapace di muoversi, la rivista di motori in mano, sospesa a mezz’aria. Poi la scaraventò via e si precipitò di sopra urlando una bestemmia, e mi strattonò giú per le scale veloce, quasi con violenza, come se allontanarsi da quello che era appena avvenuto significasse in qualche modo modificarne l’assetto, o gli effetti. Il cucú suonò le undici.
– Dobbiamo somministrarle la terapia, – dice l’infermiera. Si avvicina al letto di mia madre con il carrello dei medicamenti. – Le dispiace uscire un istante?
– Com’è successo? – chiedo a bassa voce. C’è dentro uno «stavolta» che però non dico.
– Barbiturici. Non ce lo sappiamo spiegare, stiamo sempre molto attenti ma…
– Certo. Non preoccupatevi. Lo so.
Dalla porta intravedo che le iniettano qualcosa nel braccio e mi concentro sulla lista mentale dei rifiuti. Una siringa, un batuffolo di cotone, tracce di disinfettante, tre guanti monouso in vinile – uno si spacca mentre cerca di infilarlo, deve prenderne un altro. Va tutto nell’indifferenziata, anzi no: i rifiuti sanitari hanno la loro raccolta speciale, non devo dimenticarlo. Sul comodino di metallo c’è ancora la mela cotta che le hanno portato per colazione. Quella va nell’organico. Il cucchiaino monouso è propilene e va nella plastica, insieme al suo involucro di cellophane. La stanno pettinando. Capelli impigliati nella spazzola, cellule morte del cuoio capelluto: tutto nell’organico.
L’infermiera mi fa cenno che posso rientrare nella stanza. Mia madre tiene gli occhi chiusi e distinguo per un attimo l’espressione tranquilla e assente che aveva il giorno del suo primo suicidio. Mi chiedo, come ogni volta, se sapeva che sarei salita io: fare le scale per andare a chiamare qualcuno era il classico compito di noi bambine.
E l’unica bambina rimasta ero io.
Non sono una persona fantasiosa.
Faccio ogni giorno le stesse cose e faccio ogni notte lo stesso sogno: piove e uccido Stella. Stanotte l’avevo investita con il Ciao bianco sotto al diluvio e andavo a casa dei miei a Grambate per dirglielo, ma c’erano solo i sei televisori di mia madre sintonizzati sui suoi programmi idioti. Poi appariva Carlo e mi indicava un’altra tv in cima alle scale che trasmetteva l’immagine di Stella. Pensavo che fosse arrabbiata con me perché l’avevo uccisa, invece aveva la sua solita aria tranquilla e mi accorgevo che a un tratto era diventata una bambina piccola. Carlo la prendeva in braccio, in quel momento mia madre tornava a casa dalla lavanderia e lui le diceva festoso: «Ecco la tua bambina!» Mia madre la baciava, e fuori non pioveva piú.
Mi sveglio con un accenno di tachicardia, alzo la luce della lampada finché non tocca l’intensità in grado di scuotere Carlo dal sonno senza aggredirlo. Come ogni giorno gli porto la colazione a letto, beviamo il caffè sotto le coperte e ci prepariamo per andare al lavoro.
Di lavoro sbobino interviste. Passo sei ore al giorno in una società di ricerche di mercato, un’assurda macchina da soldi senza il cui beneplacito nessuno si sente piú di muovere un quattrino. Quando l’azienda della carne in scatola non vende piú come dovrebbe, si presenta alla mia agenzia. Uno stuolo di consulenti laureati in marketing, comunicazione, psicologia organizza riunioni di gruppo con il target, i clienti-tipo. «Target» vuol dire obiettivo, bersaglio, proprio nel significato bellico o meglio balistico del termine. Gente su cui puntare e fare fuoco.
I Consulenti iniziano a fare domande a queste persone tutte incorniciate nelle loro categorie: c’è la madre di famiglia-tipo, la donna in carriera-tipo, il single-tipo eccetera. Le mettono intorno a un tavolo e chiedono loro perché lo spot non le invoglia a comprare quintali e quintali di prodotto. Il fatto che la gente non compri la carne in scatola perché è una schifezza non viene considerato, infatti dalla riunione viene fuori che il problema vero è un altro, ossia che il Target non si sente abbastanza euforico quando acquista le scatolette perché ha un senso di colpa latente: non ha avuto la decenza di cucinare qualcosa di meglio. I Consulenti ascoltano attentamente e fanno altre domande. Il Target è la Verità e la Salvezza, prima di sparargli in fronte lo venerano come un dio. Queste riunioni, che si chiamano focus group, vengono registrate e trascritte, cosí i Consulenti possono studiare e alla fine proporre al Cliente di fare una pubblicità in cui mangiare la carne in scatola tutti insieme è la cosa piú moralmente giusta che possa capitare a una famiglia.
Io, per l’appunto, sono quella che trascrive. Carlo dice che sono sprecata in un lavoretto cosí, ma è uno dei rari casi in cui non riesco a dargli ragione: questo è di gran lunga il meno stupido dei mestieri che ho fatto in vita mia. Nel mio precedente impiego giravo le caselle di un cruciverba gigante con addosso un bikini di lurex, mentre adesso vesto Armani e scrivo al computer. Non conosco nessun altro che sul lavoro abbia avuto un avanzamento intellettuale come questo.
In pausa pranzo mi allungo fino a Termini per comprare il «New York Times». Sfoglio in fretta le pagine e lo trovo quasi subito, sorride rassicurante da una foto in cui è appena meno attraente di com’è davvero. Leggo le sue parole traboccanti di naturale fiducia nel progresso. Gli mando un messaggio, «L’intervista è una bomba. Stasera festeggiamo», con una di quelle faccine idiote che sorridono. Carlo risponde: «Prospettiva interessante», e una faccina che fa l’occhiolino.
Vado in piscina a piedi, costeggio il Colosseo soffocato dall’immensa palizzata dei lavori in corso, scanso la spazzatura e gli escrementi sul marciapiede. Dai pini scheletrici di Colle Oppio si alza uno stormo di quegli uccelli neri che invadono Roma, cerco di scorgere nel loro fragoroso caos la meccanica ferrea che gli permette di sopravvivere. Mi calo nell’acqua, come ogni giorno da quando avevo sette anni. Troppo caldo e subito dopo troppo freddo, la stessa sensazione insopportabile di sempre, e inizio a nuotare. Le prime vasche sono a rana, per scaldarmi, poi stile e solo alla fine delfino. Sempre cosí, da sempre. A Grambate la piscina era un vecchio prefabbricato dietro le scuole medie, con una vasca bassa per i bambini piccoli e una piú profonda per quelli che sapevano già nuotare. Ogni pomeriggio prendevo la bici olandese che era stata di Stella e andavo ad allenarmi con lo stomaco chiuso per la nausea. Le altre bambine avevano la mamma che le aiutava a fare la doccia e le pettinava sotto il getto del phon. Discutevano perché erano troppo lente a vestirsi o non volevano legarsi i capelli o per i motivi che di solito fanno discutere le mamme e le bambine, poi si sedevano nell’ingresso a fare merenda. Le madri tiravano fuori i panini e le focacce e io le contemplavo da sotto la frangia arruffata che mi copriva gli occhi. Respiravo rapita il profumo del prosciutto, ma non era invidia né nostalgia: quelle sono emozioni e già allora ne provavo pochissime, di emozioni. Era, se mai, la cognizione dell’assenza. Compravo due pacchetti di patatine alla macchinetta. Uno lo mangiavo seduta con le altre bambine, l’altro lo tenevo per dopo. A casa mia madre sonnecchiava sulla poltrona e mio padre pigliava dal frigo gli avanzi della rosticceria da scaldare per cena. Quando gli avanzi erano troppo vecchi dicevo che non avevo fame e salivo in camera mia. Prendevo dalla borsa della piscina le patatine e le mangiavo una a una, attenta a non lasciare sporcizia.
Metto in fresco un Dom Pérignon per festeggiare l’intervista e sistemo le portate di pesce sulla nostra terrazza riscaldata, elegante come se dovessi andare a un gala. Quando Carlo torna mi squadra con i suoi occhi acuminati, posa lo sguardo sulla scollatura ma avendo cura di metterci una vena di dolcezza, per non apparire rapace. Sorrido svelando il mio incisivo scheggiato: il particolare di me, dice, che piú lo eccita. È di umore eccezionale.
– Quindi è vero che festeggiamo.
Riempio le flûte e prendo il «New York Times» dal tavolo.
– A Success Story from Italy: Carlo Del Re could change health care forever.
Mi interrompe. – Ma sí. Ma sí, lo so.
– E adesso lo sanno anche tutti gli altri.
Secondo il «New York Times» Carlo è uno dei medici piú importanti del mondo. Il cancro al cuore è il meno conosciuto fra i tumori e uno dei piú complicati da gestire. Divora di solito l’atrio sinistro, senza nessun sintomo di rilievo, e quando viene diagnosticato ha già causato danni insanabili oppure è troppo difficile da operare oppure l’intervento è possibile ma devastante. Carlo si è specializzato in questo tipo di operazioni, e oggi fa gli interventi meno invasivi che la cardiochirurgia consenta. Penetra fra le viscere dei malati senza toccare ciò che non deve, lasciando cicatrici piccole come lacrime. I suoi pazienti lo venerano, è una specie di dio pagano che restituisce la vita dopo che hanno conosciuto il terrore, le incertezze e il buio. Io lo so, è cosí anche per me.
«Perché proprio il cuore?» gli ho chiesto una volta.
«Per caso».
Non è vero. Il cuore è quello da cui tutto comincia e finisce. È il battito a stabilire se un embrione è vivo o morto, il cuore è il centro vitale da cui non si può prescindere. Ed è lí che Carlo vuole stare.
– «Dr Del Re’s research focuses on the new frontier in robotic surgery», – continuo mentre lui spezza le chele dell’astice con la pinza ed estrae i piccoli bo...