Vivida mon amour
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Vivida mon amour

  1. 136 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Vivida mon amour

Informazioni su questo libro

Anni Ottanta, in una cittadina sulle rive di un lago del Nord Italia, al confine con la Svizzera: un aspirante medico condotto si invaghisce di una misteriosa ragazza incontrata a una festa

Una commedia lieve, acuta e divertente. Un romanzo che contiene tutto il «piccolo mondo antico» della provincia di cui Andrea Vitali è il cantore.

Per un dottorino neolaureato, con le tasche vuote, dedicarsi a un corteggiamento serrato può risultare oneroso e parecchio frustrante. Soprattutto se la donna dei propri sogni si rivela un tipo complesso, una «bisbetica indomabile» refrattaria alla poesia, benestante ma poco incline a spendere e che regge l'alcol come un carrettiere. Ad aggiungere imbarazzi e malintesi, il nome della giovane non è ben chiaro: Viviana, no Vivína, anzi Vívina... Vívida! Meglio evitare di pronunciarlo. Tra incontri carichi di aspettative - e che ogni volta sembrano trasformarsi in addii - costose peregrinazioni fra malinconici paesi lacustri, goffaggini e incomprensioni, per i due, tanto diversi, ci sarà un lieto fine?

«Traversare il lago, una sera di fine novembre, sotto un magnifico cielo stellato e una luna che di lí a poco si sarebbe palesata da dietro la montagna. Si poteva desiderare di meglio? Certo, c'era una leggera onda, il traghetto beccheggiava. Circa a metà traversata, mi accingevo a celebrare il paradiso terrestre che ci circondava. Mi voltai e... - Ho un po' di nausea, - disse lei».

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
Print ISBN
9788806249052

1.

Fin dal momento in cui la conobbi un pensiero prese a perseguitarmi e inutile fu ogni tentativo di liberarmene: che io fossi la femmina e lei il maschio. E mi serviva a poco controbattere a me stesso che il sembiante ci aveva destinato alle rispettive categorie di genere: io un uomo e lei una donna.
Cercai aiuto anche in Platone, nel suo Simposio. Non contemplava, o almeno mi pareva che non contemplasse, mezze misure di questo tipo, ibridi, equivoci siffatti nell’eterno rincorrersi del femminile e del maschile per ritrovare la primitiva completezza.
Tra l’altro beveva piú di me.
La incontrai una sera d’estate – correva il mese di luglio – durante una festa di laurea, ai tempi in cui il minaccioso «palloncino» era ancora di là da venire. Il cielo era blu cobalto, l’aria mite profumava di erba appena tagliata. Il privilegio di essere giovani dominava l’atmosfera. Il luogo, un paese sulla sponda opposta del lago. Io, quale medico fresco di laurea, non avevo ancora un lavoro fisso e per sbarcare il lunario facevo piccole sostituzioni qua e là.
Eravamo già belli brilli.
Per quanto riguardava me, avevo una sbronza che mi lasciava immaginare di poter ritornare a casa a nuoto, come se andare da riva a riva fosse un gioco da ragazzi. Mi vedevo entrare in quelle acque tiepide come brodo, nuotavo lentamente… Mi pareva di sentire un rumore morbido, piacevole come musica per ambienti. Grazie all’alcol avevo una visione chiara di quel nuotatore solitario, armonioso, dalle solide spalle. Dentro di me seguivo il ritmo delle bracciate. La traversata non finiva mai, forse perché non riuscivo a immaginarmi sull’altra riva in mutande. Allora continuavo a nuotare con la fantasia, e continuavo a bere.
Anche lei.
Un bicchiere via l’altro.
Anzi, un flûte.
Di vino rosso.
Noblesse.
Per bere vino rosso in bicchieri che di solito ospitano champagne oppure bollicine bisognava avere un alto concetto di sé e discendere da nobili lombi. Fu la conclusione del mio ragionamento quando, dopo un bel venti minuti che la guardavo, mi resi conto che appunto la stavo guardando. Giacché anche lei si era accorta del mio sguardo un po’ troppo fisso, cercai di dissimulare alzando il bicchiere e mormorando «salute». Cosí la vidi muovere i primi passi della sua vita verso di me.
Io stavo in piedi in quel momento. Animato da un movimento ondulatorio che sembrava volersi accodare alla musica che era nell’aria, ma in realtà dovuto a un principio di deragliamento del sistema vestibolare. In ogni caso sedetti per non dare l’impressione di aver abusato del buffet liquido. Peraltro non avrei dovuto preoccuparmene, poiché mentre lei si avvicinava la vidi sbandare un paio di volte; il suo bicchiere si piegò di lato perdendo almeno metà del contenuto. Per evitare ulteriori deviazioni dalla linea di marcia, dovette allargare il compasso, avanzando come se fosse reduce da una lunga cavalcata.
Il sorriso con il quale si presentò fu però regale. Ritta davanti a me chiese: – Sei da solo?
Una fiamma mi salí in viso.
Vergogna.
Davvero mi si leggeva in faccia che ero un solitario incapace di nascondere il proposito di guadagnarmi qualcosa oltre a una semplice sbronza, ormai un dato di fatto?
Cosa sarebbe stato meglio rispondere?
Optai per la verità.
– Sí.
Lei disse: – Meno male.
Gongolai, acceso da subitanee fantasie, ma fu questione di un attimo.
Subito sparò un’altra domanda.
– Che festa è questa?
Oh cazzo, pensai, un’imbucata! O portoghese, che dir si voglia. Non ricordo quale dei due termini le appiccicai.
– Lo sai o no? – insisté.
Certo che lo sapevo visto che non ero capitato lí per caso ma ero stato invitato.
– Festa di laurea, – comunicai.
– Bene, – fece lei, – sarà meglio che vada a fargli i complimenti.
E se fosse stata una donna? Questo mi chiesi mentre lei scompariva senza sapere chi fosse il neolaureato, che nome avesse, quale fosse il suo aspetto o se lo caratterizzasse un particolare qualsiasi utile a individuarlo.
Eppure, dopo una mezz’ora nel corso della quale proseguii a vuotare bicchieri con ammirevole regolarità, mi ricomparve davanti sottobraccio al festeggiato, entrambi a bagnomaria nel vino. Solo allora, grazie alla liberalità dell’ebbrezza, mi permisi di passare lo sguardo su tutto ciò che sosteneva il suo viso.
L’abito lungo, leggero, azzurro, cadeva sino alle caviglie coprendo un corpo piatto. Probabile che avessi piú tette io di lei. Un altro passo verso il pensiero accennato in avvio di racconto, e che di lí a poco avrebbe dominato le mie giornate grazie a una lunga serie di indizi che via via accumulai.
In ogni caso, sotto la stoffa si indovinavano leve slanciate e nervose che lasciavano presagire rincorse tanto estenuanti quanto inutili, e che finivano in due caviglie perfette, due malleoli rotondamente disegnati, i poli est e ovest della felicità.
Se uno può invaghirsi di una donna a partire dalle sue caviglie, be’, fu da lí che iniziai io. Forse avrei dovuto fermarmi a quei malleoli. Non era scritto, tuttavia.
Obbedendo all’imperscrutabilità del destino rimasi seduto, sempre piú in balia di fantasie alcoliche, a guardare la perticona che si allontanava al braccio del neolaureato, l’uno sostegno dell’altra e con l’aria di essere amici, se non qualcosa di piú, di vecchia data. Come avesse fatto a irretirlo a tal punto e in cosí breve tempo era un mistero. D’altronde, ragionai, a me era bastato uno sguardo alle sue caviglie per restarne turbato.
Non mi mossi da dov’ero, e solo a ridosso dell’ora in cui il primo merlo dei dintorni avrebbe cominciato il saluto dell’alba prossima mi decisi per il ritorno a casa.
Cosí la rividi.
Sfatta.
Il vino rosso le aveva dipinto due labbra di analogo colore e procurato due occhiaie pari a vescicole ripiene di mosto. I globi oculari erano ridotti a due biglie invasate d’inferno. Tra la magrezza e il vestito lungo – che appena qualche ora prima mi era sembrato piú che adatto per un’estiva festa di laurea – ebbi come l’impressione di trovarmi di fronte a una fuggitiva da qualche comunità protetta.
Pensò lei a fugare ogni imbarazzo.
– Sei di strada? – mi chiese.
Anche se fossi già stato coscientemente innamorato, avrei comunque opposto un rifiuto alla proposta di salire in auto con chiunque avesse perduto il conto dei bicchieri bevuti, come, era evidente, aveva fatto lei.
– Grazie, ho la macchina, – risposi.
– Appunto, mi accompagni.
Non usò toni interrogativi. Io piuttosto mi interrogai. Come diavolo c’era arrivata lí, e con chi?
– Dài, – riprese. Faticava a tenere dritta la testa. Di tanto in tanto le cadeva all’indietro e lei la riportava in asse con uno scatto, quasi per ricacciare un improvviso attacco di sonno.
Abbassai lo sguardo per ritrovare l’armonia del mondo nei suoi malleoli: per scusare lo stato in cui si trovava, oltre a ricordarmi della singolare propensione a bere vino rosso con aristocratica eleganza, le ascrissi lí per lí altre virtú che sarebbero emerse in condizioni di sobrietà. Mi sentii battere il cuore, uno sbuffo d’aria mi portò nei polmoni il suo profumo.
Bastò pochissimo per farmi rimpiangere a priori ciò che avrei perduto, se non avessi approfondito la conoscenza.
– Dove stai? – chiesi.
Me lo disse, direzione esattamente opposta a dove abitavo io.
A quel punto ritenni che fosse il momento di dirle come mi chiamavo e, seppur goffamente, le tesi la mano, gesto che avevo appreso durante il liceo e che praticavo anche con le donne. Per tutta risposta lei girò le spalle, bofonchiando il suo nome in contemporanea all’improvviso ritorno di fiamma del vino ingerito, non lasciandomelo intendere e dirigendosi verso una Volvo come se non esistesse altra auto al mondo.
Con imbarazzo ne corressi la traiettoria verso una piú banale Peugeot di seconda mano, scarburata, e partimmo in direzione delle rispettive magioni.
Prima, ovvio, la sua.
Aveva la residenza in un paese sul quale stagnava un olezzo di stallatico che evocava georgiche letture. Imbarazzandomi al pensiero che lei, dentro quell’impalpabile afrore, ci stava immersa da mane a sera, cercai di nobilitare il lavoro dei campi con il ricorso ad alate immagini di improbabili fatiche, di corrusche disgrazie sempre pronte a rigettare nella miseria l’homo agricolus. La terra che dona i suoi frutti, insomma, e la dura lotta che l’uomo ha dovuto sostenere per padroneggiarla.
Lei…
È d’uopo, prima di proseguire nella cronaca, che segnali come da sempre io abbia avuto difficoltà, una sorta di enigmatico timore, nell’abituarmi a usare il nome proprio di una persona: quasi potessi violarne la privatezza, o quasi fossi inconsciamente convinto che solo dopo una certa frequentazione fosse lecito farne uso. Da qui il «lei» che uso tuttora nella narrazione per rispettare la sequenza dei fatti accaduti. Tanto piú che al momento, il nome, non lo avevo che orecchiato, percependolo vagamente tra le bolle di un piú che probabile reflusso gastrico.
Lei, dicevo, rispose che quella di cui celebravo con aperta convinzione il profumo era merda, e per quanto mi sforzassi di nobilitarla sempre merda restava. Che sano realismo!
Risi, e la fine grana del mio volo pindarico svaní, senza lasciarmi altra possibilità di riscattare la vis poetica, perché nel frattempo eravamo arrivati davanti a casa sua.
Scese, sbandando malamente.
Poi, prima di chiudere la porta con l’energia degna di un camionista, disse: – Fatti vedere.
Sbalordito, restai muto e la guardai allontanarsi con passo da cerebellare, prendendo mentalmente nota dell’indirizzo e di qualche particolare che avrebbe potuto aiutarmi a ritrovare il luogo. Quindi partii ingranando la terza e imballando ancora di piú la Peugeot.
Adesso toccava a me tornare a casa. Mi sentivo euforico, e il merito non era solo di quello che avevo bevuto.

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Vivida mon amour
  4. 1.
  5. 2.
  6. 3.
  7. 4.
  8. 5.
  9. 6.
  10. 7.
  11. 8.
  12. 9.
  13. 10.
  14. 11.
  15. 12.
  16. 13.
  17. 14.
  18. 15.
  19. Nota al testo.
  20. Il libro
  21. L’autore
  22. Dello stesso autore
  23. Copyright