Tra i fumi della cena, in cucina, Teresa prese un respiro impercettibile, si guardò le mani, rugose, e senza alzare lo sguardo disse: – Dovresti lasciarlo stare.
Agnese si girò verso di lei. – Come scusa?
Lo chiese con delicatezza, senza sforzare la voce, il cucchiaio di legno alzato sopra ai fornelli.
– Dovresti lasciarlo stare, – ripeté Teresa. – Se non vuole andarci, alla tomba, che non ci vada. Va bene cosí.
Ci mancava solo che quell’impicciona venuta dalla città lo incontrasse e si mettesse a far domande. Quali domande? Non aveva importanza.
Questo però non lo disse, si limitò a pensarlo.
Avrebbe potuto andare avanti, dire che lei stessa ci era andata poco a questa tomba, che conosceva a memoria quella di suo marito, Domenico, mentre quest’altra c’era tempo per impararla. Teresa però se ne stette muta, cacciò giú la saliva, ringraziò, date le circostanze, che il marito fosse morto, e subito se ne pentí – non si poteva stare in pace un secondo. Era sempre stato cosí, d’altronde: lei l’aveva sempre vissuta, l’estraneità alla pace.
Agnese la guardò, una bolla del minestrone esplose in corpuscoli contro le pareti della pentola; decise di non rispondere. Sono mesi difficili per tutti, pensò.
Teresa, nella sua sedia di fòrmica addossata al muro, evitò di incrociare lo sguardo della nuora. Era cosí che funzionava; discussione finita. Si parlava quando voleva lei, come voleva lei, di cosa voleva lei: tutti, con il tempo, ci si erano abituati.
– Polenta, – chiamò, e la gatta, magra, le saltò sulle cosce. Aveva i peli divisi in ciocche aguzze, un orecchio tagliato. – Questa bestia passa troppo tempo a far a botte in campagna, – borbottò. E dopo averle elargito poche carezze sgarbate, la restituí al pavimento gelido, guardò fuori.
Il freddo, in generale, si addiceva a Teresa; le teneva in ordine i sentimenti. ’Arda lí, l’autunno, pensò: venuto a trasformare i grossi cumuli di umidità estiva nella nebbiolina lattiginosa che si ammassa agli angoli dei campi, l’asfalto che inizia a ricoprirsi di quella patina pronta a farsi ghiaccio, e allora addio passeggiate e occhio ai femori, che lei a gennaio avrebbe compiuto ottant’anni e si sa che a quell’età le ossa si rompono pure da sole, figurarsi con il ghiaccio. Ad ogni modo, sarà stato che si sentiva vecchia da sempre, quella faccenda dell’anzianità non le faceva alcuna impressione.
Domenico glielo diceva spesso – aveva iniziato da subito, quando lei alla balera se ne stava seduta a bordopista a farsi tirare per le braccia ogni volta che partiva un foxtrot, Sei nata vecchia, le ripeteva, Le sane scrusíe a duro pí che j’autre, rispondeva lei, i bicchieri screpolati durano piú degli altri. E cosí era stato. Si erano sposati giovani, inaspettatamente felici, e lei allora già sapeva, sapeva che sarebbe morto prima di lei. Cosí va il mondo, no? Ma con i figli, be’, con i figli è diverso.
Teresa lisciò la veste da casa che la gatta aveva scomposto. Lo fece con gesti lenti e regolari, come se le braccia non le appartenessero. Il tessuto, in certi punti, era piú logoro che in altri. Dal salotto la tv accesa mandava echi del notiziario della sera.
… la ricerca dei dispersi tra le macerie del terremoto di magnitudo 7.2 che due giorni fa ha sconvolto la Turchia…
Il punto era che negli ultimi mesi aveva voglia di litigare. Avrebbe litigato con chiunque per qualsiasi motivo, salvo poi fermarsi sul precipizio e chiudersi in un silenzio piccato, a salvaguardia della buona creanza.
… ma torniamo in Italia, dove continua la polemica riguardo la partecipazione di Silvio Berlusconi a «L’ultimo Valzer», la trasmissione condotta su Rai 2 da Fabio Fazio. Enzo Cheli, presidente dell’Authority per le Telecomunicazioni, ha ribadito…
– Non insistere con Fulvio, – ripeté Teresa. – Li porto io i fiori nuovi sulla tomba.
Agnese, questa volta senza girare le spalle ai fornelli, si propose di accompagnarla: inizia a fare freddo, il viale non è ben pulito, e poi il ghiaccio.
– Hai ragione, – tagliò corto lei. – Vedremo, – e tornò a scrutare gli infissi che incorniciavano il buio delle otto.
– Aila Trabotti!
– Presente.
– In piedi.
Nella fretta ansiosa di cui è preda, le gambe della sedia raspano rumorosamente contro il pavimento. Merda. Ora è dritta davanti al banco.
Perentoria la maestra sentenzia: – Di nuovo.
Aila deglutisce, si siede, si rialza, questa volta senza far rumore.
– Data di nascita? – continua la maestra.
Tre zero zero zero uno.
– Ho detto data di nascita.
Tre zero zero zero uno.
– Trabotti, data di nascita!
A questo punto le guance della maestra sono rosse di rabbia, ma Aila non può farci niente, le vengono in mente solo quei numeri, quelli che ha visto sul braccio di sua madre – faceva caldo, le maniche corte, il sole sui fili d’erba, A-30 001.
– Trabotti! – la maestra inizia a sporgere pericolosamente il busto nella sua direzione.
Data di nascita, data di nascita, data di…
– TRE ZERO ZERO ZERO UNO, – grida Aila. – TRE ZERO ZERO ZE…
Di solito è a questo punto che i contorni della classe si fanno sfocati, la sagoma della maestra, mastodontica, comincia ad appannarsi.
– Aila, svegliati.
Spalancò gli occhi nel buio.
La federa del cuscino era fradicia, come se riemergesse da una lunga apnea. I capelli appiccicati dietro la nuca. Ancora quel sogno, ancora quei numeri.
Giulia, al suo fianco, nel letto, la guardava preoccupata. – Posso fare qualcosa? Accendo la luce?
– No, grazie, – si tirò su a sedere.
Andò in bagno, si sciacquò la bocca, allungò le mani nel box doccia per sistemare l’erogatore in modo che non le bagnasse i capelli, impostò la temperatura e lasciò che il getto di acqua calda le scorresse sulla pelle, lavasse via il sudore. Poi per un po’ rimase davanti allo specchio con lo sguardo basso, reggendosi al lavandino. Tirò un respiro profondo e quando lo rialzò non si riconobbe: la pelle ai bordi delle guance e sotto gli zigomi era stanca, la fronte segnata, gli occhi smarriti. Cristo, bisbigliò. Aveva sperato – forse sí, si era illusa – di essere piú forte. Piú forte di cosí. Piú forte di quel sogno, piú forte di ciò che era stato e, a ben pensarci, di molte altre cose. D’altra parte tutti, fin da quando era piccola, non avevano fatto altro che ripeterle quanto larghe avesse le spalle, proprio come sua madre, ma il volto che la osservava dal riflesso non era forte, le spalle non erano larghe, non combattivo lo sguardo; tutto, nello specchio, aveva l’aria di essere logoro, stravolto. Spense la luce e tornò in camera. Girò il cuscino dall’altra parte.
– Stai meglio? – mugugnò Giulia, il piumone tirato fin sopra le guance.
– Credo di non aver digerito l’indiano.
Lei l’abbracciò e Aila attese che si addormentasse di nuovo. Lo capiva da quel sibilo che iniziava a emettere dalla gola, attraverso la bocca mezza aperta contro le lenzuola. Poi scivolò di nuovo fuori dal letto. Aprí il frigo e si versò un bicchiere d’acqua, ci aggiunse un goccio di sciroppo alla menta e si sedette al tavolo. Cristo, ripeté. Rischiarati dal bagliore gelido del cielo, i tetti di Torino, con le loro tegole disordinate e i camini storti, si ammucchiavano uno sull’altro fuori dalla finestra della cucina. Per un attimo provò a contare i coppi. A quarantaquattro si fermò. Mi manchi, lo sai?
In lontananza, il faticosissimo avanzare della prima corsa del pullman sull’asfalto ghiacciato di novembre. Gli sbuffi delle porte, gli sforzi del motore. La fatica, ecco cosa le ricordavano quei suoni, la sua fatica, ma non solo, anche quella degli altri, quella che era stata.
Rimise a fuoco la parete e tutto d’un tratto, nella penombra, i tre 9 che campeggiavano sul calendario e il tempo suddiviso in blocchetti identici, segnati dalla triade cromatica – in verde i suoi impegni, in blu quelli di Giulia, in rosso le faccende comuni – le apparvero tristi e ridicoli nella pretesa di rendere un giorno uguale all’altro, mettere ordine al susseguirsi degli eventi.
Chissà cosa sarebbe successo quattro anni prima se invece di lasciarci Xabier, nella casa di sua madre, avesse deciso di occuparsi subito del trasloco. Perché quando Elda era morta in quella maniera frettolosa e indisciplinata, in dipartimento era appena arrivato un borsista basco in cerca di casa, e lei e Giulia avevano pensato che, se lui fosse stato disposto a convivere con tutto il mobilio e l’eccentrico ciarpame che sua madre adorava accumulare, affittargli la casa per un prezzo stracciato poteva essere un’ottima soluzione per dilazionare le incombenze che la gente lascia dietro di sé a confondere il lutto.
Ritornava spesso a quel momento. Probabilmente non sarebbe cambiato nulla; quella storia sarebbe saltata fuori prima, tutto lí. O forse, nella fretta di liberare l’appartamento, quel libro sarebbe andato perduto, e allora sí, le cose sarebbero andate diversamente. Nel senso che avrebbero continuato ad andare come erano sempre andate.