Quando mi risvegliai, provai un senso di disorientamento. Il mondo era stato messo tutto sottosopra, e durante la notte il mio letto s’era rimpicciolito. Stavo per chiamare Ann ad alta voce quando capii dove mi trovavo. Sobborghi di Pasadena, Texas, nell’abitazione di Jim Bob, camera degli ospiti. Jim Bob era al piano di sopra, mentre Russel dormiva sul divano del salotto.
Seduto sul bordo del letto, mi grattai la testa meditando sui vantaggi di un buon caffè. La notte prima mi pareva un sogno, un brutto sogno. Avevamo lasciato LaBorde verso mezzanotte, e io mi ero addormentato sul sedile posteriore del Troione Rosso, per risvegliarmi come se mi avessero dato uno scrollone deciso.
Mi ricordavo di essermi rizzato sul sedile della macchina mentre superavamo il ponte sullo Ship Channel, e avevo visto l’acqua e le barche in basso, e poi le fonderie mentre entravamo a Pasadena. Quei luoghi avevano un’aria cupa e aliena con i loro fumaioli che eruttavano nel cielo scorie nere e puzzolenti. Ogni volta che vedevo quelle fonderie, soprattutto di notte, quando grandi lingue di fuoco eruttavano dagli alti camini affusolati mischiandosi con il fumo sudicio, mi veniva in mente l’Inferno di Dante. Pensavo a quanto doveva essere tremendo lavorare in quelle acciaierie, in mezzo a tutto quel caldo e quel fumo e quella puzza, con quegli agenti chimici e quelle caldaie innescate per il disastro.
Quel pensiero mi aveva indotto a sdraiarmi di nuovo sul sedile, appisolandomi al rumore di Jim Bob e Russel che discutevano dei bei tempi andati, e man mano le parole avevano perso significato, diventando un ronzio che aveva su di me un effetto non dissimile alla ninnananna di una madre. La prima parola che compresi in seguito proveniva da Jim Bob che mi chiamava tirandomi per una scarpa, cercando di svegliarmi.
Poi mi ricordavo di aver scaricato la mia sacca, e che la casa di Jim Bob era grande e solitaria e polverosa. La stanza in cui mi aveva alloggiato non era molto spaziosa, con un lettino e un minuscolo condizionatore che si sforzava freneticamente di rinfrescare l’aria viziata da giorni e giorni di ristagno.
Adesso era mattino ed ero sveglio e faceva quasi freddo e il mio stomaco reclamava la colazione, il corpo esigeva caffè, e il cervello stava cercando di decifrare esattamente come e perché m’ero ficcato in quel pasticcio.
Guardai l’orologio. Ann e Jordan, a casa, non si erano ancora alzati. Un’altra oretta, poi avrebbero iniziato il trantran mattutino, Jordan avrebbe rovesciato il suo primo bicchiere di latte della giornata. Accidenti, come mi sembrava confortante quella scena.
Molto probabilmente Ann si sarebbe alzata arrabbiata con me, e sarebbe rimasta di quell’umore tutto il giorno. La notte prima mi aveva dato il permesso di partire, regalandomi del sesso terapeutico, ma poi si sarebbe infuriata di nuovo pensando a Russel e a come mi comportavo da coglione, riscaldandosi come quei camini che sputano fuoco nelle fonderie.
James e Valerie sarebbero riusciti a mandare avanti il negozio alla perfezione, con James impegnato soprattutto a guardare biecamente il culo di Valerie. Era capace di fissarcisi sopra fino al punto di riuscire a sbagliarsi nel dare il resto.
Forse il postino Jack, con Russel fuori dai piedi, avrebbe ripreso a esibirsi nel lancio della posta.
Mi alzai stiracchiandomi, e mi sentii ancor peggio di prima. Infilati i vestiti, uscii in corridoio e sbucai nel salotto dove Russel giaceva sveglio sul divano, intento a fissare il soffitto mentre fumava una sigaretta.
– In piedi anche tu? – chiese.
– Mi sono appena alzato.
– Io non sono riuscito a chiudere occhio.
– Io invece ho dormito, ma non è servito a niente. Devo aver sonnecchiato troppo in macchina. Dopo mezzanotte non fa molto bene.
– Piú si invecchia, piú è peggio.
– Se deve andare peggio di cosÃ, tanto vale che ci rimanga secco subito.
Russel scostò le coperte per alzarsi. Indossava dei boxer grigio chiaro con un motivo triangolare in corrispondenza del cavallo. La pancia pendeva sull’elastico come se si stesse liquefacendo, braccia, schiena e spalle erano coperte di peluria grigia, il viso allungato appariva solcato da rughe, lo sterno pareva che fosse sprofondato nel torace come il tetto di una casa diroccata, e oltretutto Russel non stava nemmeno bello dritto. Solo le mani e le braccia suscitavano una sensazione di forza. Era come se la vecchiaia, implacabile, gli fosse calata addosso durante la notte, infiltrandosi sotto la pelle.
– Cerchiamo del caffè, – propose, accendendo una sigaretta.
S’infilò i vestiti, tossicchiò del fumo, dopodiché ci trasferimmo dove il salotto cedeva il passo alla cucina. Russel trovò una moca e, dopo avere rovistato negli armadietti, un barattolo di caffè.
– Forse c’è qualcosa da mangiare in frigo, – suggerÃ.
Andai a guardare nel frigo scoprendo dei tranci tagliati grossi di bacon avvolti nella carta, e delle uova. Posai le cibarie sul banco, tolsi delle fette dal portapane e iniziai a tostarle. Scovai una padella, presi il bacon e lo misi sul fuoco cominciando a rigirarlo con una spatola.
– Sarebbe consigliabile cuocerlo nudi, – avvertà Jim Bob. Quando mi girai lo vidi vestito solo di jeans e senza maglietta, con quel demenziale pollo sul petto, e i piedoni nudi che apparivano goffi senza gli stivali.
– Nudo, eh? – dissi io.
– Già . Perché appena un goccia d’olio bollente ti schizza sulle palle, impari subito a tenere bassa la fiamma –. Venne ad abbassare il fuoco e mi tolse di mano la spatola, continuando a rigirare il bacon. – Hai dormito bene?
– Mica tanto, – risposi. – Ma non per colpa della sistemazione. Sono i pensieri.
– Idem per me, – aggiunse Russel.
– Peccato. Io ho dormito come un ghiro.
Spazzolammo la colazione. Il bacon era magnifico, il migliore che avessi assaggiato da anni. Chiesi ragguagli a Jim Bob.
– Lo faccio coi miei porci. In effetti ne allevo qualcuno, di quei grugnenti merdosi. Dopo ti porto a fare un giro. Me li guarda un messicano. Le uova invece me le procuro da un tizio che sta piú avanti lungo la strada. Ai suoi polli non gli fa mica beccare della merda e non li mette nemmeno in quelle scatole a ingozzarsi.
– E Freddy? – chiese Russel all’improvviso.
– Andremo presto a fargli visita.
– Prima lo dobbiamo trovare, – obiettai.
– Nessun problema. Mi è appena arrivato l’elenco di quest’anno, e siccome è nuovo in città deve avere un telefono. Voglio dire, non è piú Freddy Russel. Ha una nuova vita e un nuovo nome e l’Fbi gli ha regalato un nuovo passato –. Prese l’elenco del telefono e lo sfogliò. – Qui c’è un sacco di Fred Miller, ma non è una gran rottura comunque. Controlliamo sul vecchio e vediamo quale Fred Miller s’è venuto ad aggiungere alla lista aggiornata.
Posò l’elenco spalancato sul tavolo, andò a prendere l’altro e glielo accostò per fare il raffronto. – Eccoci. C’è soltanto un nuovo Fred Miller nell’elenco, e cosà abbiamo scovato il suo indirizzo.
– Sei sicuro che sia lui? – chiese Russel.
– Abbastanza. Comunque controlleremo.
– Troppo facile. Non mi sarebbe mai venuto in mente, – commentai.
– È per questo che io sono uno stronzo d’investigatore e tu fai cornici, – rispose Jim Bob con un sorriso scaltro. Poi si rivolse a Russel. – Vuoi chiamarlo tu, Ben?
– Sarà al lavoro.
– Prima o poi dovrai farlo. Ora che siamo arrivati sin qui, devi arrivare sino in fondo.
– Mi piacerebbe vederlo senza che lui se ne accorgesse. Non posso tirar su il telefono dopo vent’anni che non mi sono nemmeno dato la pena di rispondere alle lettere di sua madre e che non gli ho mai mandato una riga.
– Se ti butti, risolvi tutto. Secondo me è la maniera piú facile.
– Per te, forse. Ma è mio figlio e mi sono comportato come se non m’importasse niente di lui. Forse non sa nemmeno che sono ancora vivo o non gliene frega un accidente. Non è cosà facile per me.
– Va bene. Lo sorveglieremo finché non ti sei fatto coraggio.
– Lo fai sembrare come una specie di duello.
– In un certo senso lo è, no?
Russel annuÃ. – Cosa dicevi prima sul fatto che ci portavi a vedere quei tuoi porci pelle e ossa, Jim Bob?
– Sempre che voi ragazzi promettiate di non disturbarli. Sono molto timidi.
Cosà andammo a far visita ai maiali di Jim Bob. Saranno stati una ventina, piú qualche porcellino. Erano enormi, bianchi e con grandi orecchie, e Jim Bob ci informò che erano di una razza che si chiamava Yorkshire.
I porci erano alloggiati in uno spazioso edificio climatizzato con una porta stile saloon, di modo che se ne avevano voglia potevano uscire a far due passi in un grande spiazzo cintato. Nell’aria stagnava un forte sentore di piscio e di sterco, niente affatto sgradevole. I maiali crescevano belli sani e Jim Bob ci rivelò che il suo latino, Raoul, veniva una volta al giorno a cambiare lo strame, a controllare le condutture dell’acqua e ad assicurarsi che le mangiatoie automatiche fossero ben fornite. Appena i maiali erano abbastanza grassi, Jim Bob li vendeva, tenendosene uno per il proprio congelatore, e qualche altro a scopo riproduttivo. Ogni tanto sostituiva i verri e le scrofe da figliata con individui piú giovani e piú affamati di sesso, che comprava per mantenere vigorosa la stirpe, a suo dire.
Dietro la porcilaia ci mostrò una grande gabbia di legno e rete metallica ingombra di strame di maiale. – È la mia riserva di letame. Io e Raoul spaliamo fuori la merda dal porcile e la ammucchiamo qui a fermentare. Per la primavera è pronta da spargere. Pago anche uno di colore, Henry, perché mi porti fin qui i suoi muli per smuovermi la terra. Poi io e Raoul, almeno quando lui non è stato rispedito temporaneamente in Messico dall’Immigrazione, la spargiamo e seminiamo il piú presto possibile. La merda di maiale, se è concimata bene, ti fa crescere di tutto. Raoul dice sempre che vuol provare a piantare un pelo di figa e vedere se vien su una donna, ma gli unici peli di figa che può recuperare sono quelli di sua moglie ed è strasicuro che non ne vuole un’altra uguale.
Passammo oltre il letamaio per addentrarci nell’orto di Jim Bob, passeggiando tra filari di piante di granturco dagli steli verdissimi, alte tre metri. C’erano le montagnole delle piante di zucca con sopra dei germogli bianchi, grandi come il cucuzzolo di un cappello da cowboy. Passammo accanto a folti filari di pomodori puntellati su pertiche di due metri, e il buon odore penetrante del pomodoro ci fece attorcigliare i peli del naso. I frutti erano sodi come bocce e rossi come piaghe. Jim Bob ce ne spiccò uno per ciascuno e cosà ci aggirammo per i filari assaporando i tiepidi frutti sugosi, osservando meravigliati le piante di cetriolo che invadevano l’orto e mettevano in mostra dei frutti che, parole di Jim Bob, erano grossi come un cazzo artificiale.
Giunti all’estremità dell’orto, girammo a sinistra seguendone il limitare, poi tornammo indietro lungo un viale di germogli di rapa, grandi e verdi, piú simili a carnivore pigliamosche che a germogli di rapa. Quando uscimmo dal giardino per rientrare in casa, mi sentii come se ci avessero cacciato dal giardino dell’Eden.