Parlare da soli
eBook - ePub

Parlare da soli

  1. 192 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Il mondo è un posto meraviglioso e orribile. Meraviglioso perché, malgrado tutto, siamo creature sempre capaci di stupirci, di desiderare e di amare. Orribile perché i legami si corrodono e certe vite a volte svaniscono prima del tempo. È quello che sta succedendo a Mario: i suoi ricordi e il suo corpo si stanno lentamente spegnendo. Cosí decide di mettersi in viaggio con il figlio Lito, a cui sente di dover lasciare qualcosa che non si può dire. A casa resta Elena, moglie e madre, che sulle spalle porta il peso del dolore e cerca riscatto nella carne di un altro uomo e nei libri che sono intrecciati a doppio filo con la sua esistenza. Parlare da soli racconta di come l'esperienza della perdita trasforma la nostra percezione della memoria, del desiderio e del corpo; e di come il sesso e la lettura possono rivelarsi straordinarie forme di resistenza.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
Print ISBN
9788806248611
eBook ISBN
9788858436158

Elena

Il giorno 15 alle ore 19.50.
Giorno 15, 7.50 p.m.
Il quindici alle otto meno dieci.
Hanno un qualche significato questi numeri?
Capisco cos’è successo se dico «il giorno 15» o «ore 19.50»? La realtà era diversa alle 19.49? Il mondo è cambiato in quel minuto? Perché leggo e rileggo questi dati, leggo «il giorno 15», leggo «19.50», e continuo a non capire cosa significano?
Stavo per mettermi a scrivere, ma no.
Nessuna voglia di leggere.
Oggi nemmeno.
È andata cosí.
Uscivo dalla doccia. Stavo vestendomi per passare la notte in ospedale, quando è squillato il telefono. Era Juanjo. Parlava veloce o io ero lenta a capire. E il monitor. E i sieri. E l’ossigeno. Ed erano appena entrate due infermiere. E non riusciva ad articolare parola. E faceva una gran fatica a respirare.
Ho riagganciato. La prima cosa che mi è passata per la testa non me la potrò mai perdonare.
Ho pensato di finire di asciugarmi i capelli.
I capelli. La mia testa.
Ho chiamato un taxi. Ci metteva molto. Non l’ho aspettato. Sono uscita in strada. Ho attraversato male. Mi sono intromessa tra un taxi libero e una signora. La signora me l’ha fatto notare. Mi sono offesa. Ho borbottato qualcosa sulla respirazione artificiale. Mi sono infilata in macchina. È partita. C’era un sacco di traffico. Avanzavamo lentamente. A volte andavamo a passo d’uomo. Vedevo scattare le cifre sul tassametro. Sono saltata giú. Sono scesa dall’auto e mi sono messa a correre. È squillato il telefono. Per poco non svengo. Ho aspettato terrorizzata. Non era Juanjo. Era la compagnia dei taxi. Volevano sapere dov’ero andata a finire. Il tassista aveva aspettato un bel po’ sulla porta. Ho urlato contro l’impiegata della compagnia. Le urlavo mentre correvo. L’ho coperta di insulti. La gente mi guardava. La donna ha riappeso. Ho continuato a correre. Grondavo di sudore. Mi friggevano le gambe. Il corpo mi pulsava. In gola mi saliva un grumo di bruciore e gelo. Mi sembrava di essere sul punto di sputare un pezzo di qualcosa. Qualcosa che rimbalzava. Mentre correvo cosí, ho pensato a Mario. Adesso sí. Completamente. Solo a lui. Alla sua bocca. Al suo naso. Al suo fiato. Al suo respiro. Ho cercato di aiutarlo. Ho cercato di respirare con lui. Asfissiavo. Asfissiavamo. Ho immaginato la mia bocca sulla sua. I miei polmoni e i suoi. Ho immaginato che sbuffasse. Che sbuffasse tanto forte da alzarsi dal letto, da sospingermi fino in ospedale.
Alla fine sono arrivata in tempo.
Non arriviamo mai in tempo.
Questo è stato il giorno 15 fino alle otto meno dieci. La notte è stata peggio.
Bisognava chiamare le pompe funebri per comprare la cassa. E i giornali per dettare il necrologio. Due compiti elementari, inconcepibili. Cosí intimi e cosí lontani. Comprare la cassa da morto e dettare il necrologio. Nessuno ti insegna queste cose. Ad ammalarti, ad assistere, a dire addio, a togliere le speranze, a vegliare, a seppellire, a cremare. Mi chiedo che cazzo ci insegnino.
Prima c’è stata l’agenzia di pompe funebri. O, per essere precisi, le agenzie di pompe funebri. Perché ce ne sono molte. Moltissime. Tutte con offerte diverse. Ti forniscono il modo di contattarle dall’ospedale. Come se facesse parte della terapia. Con la stessa efficienza con cui applicano i clisteri.
Alcune pompe funebri ti chiedono meno per la cassa, ma di piú per il trasporto al cimitero. Altre ti regalano il trasporto al cimitero, ma ti prendono di piú per l’affitto della camera ardente. Altre ti fanno uno sconto sulla camera ardente, ma non hanno bare a basso prezzo. Altre sembrano piú care, ma la tariffa include le tasse. Allora ti rendi conto che le tariffe di prima, che sembravano piú economiche, non includevano le tasse. E cosí, tutto daccapo. E le code di orfani e vedovi vanno e vengono. Se morire è una delle tante formalità, preferisco i riti d’una qualche tribú esotica.
Numero dopo numero, mentre consulti, annoti, ti perdi d’animo e riappendi, non c’è un solo istante in cui non ti senta la creatura piú misera della terra. Incapace di offrire un degno riposo alla persona che hai amato, la persona che del resto non hai salvato. Hai il sospetto che, contrattando cosí in un momento simile, tu stia commettendo un’atrocità. Che sarebbe piú dignitoso lasciarti imbrogliare in silenzio e crogiolarti nel dolore. Ma, allo stesso tempo, come se ti accoltellassero nell’altro fianco, ti indigna il rozzo opportunismo dell’affare, il lucro efferato nei confronti della tua perdita. Allora ti rimetti a cercare una cifra che ti sembri ragionevole (a quanto ammonta una morte ragionevole? a cosa corrisponde un morto costoso?), una cifra, diciamo, che non costringa il tuo morto a fingere una ricchezza che non aveva. E via daccapo con le telefonate, mentre le code di orfani e vedovi continuano ad andare e a venire.
Alla fine, nel bel mezzo di una telefonata a un’agenzia qualsiasi, mi sono pentita di tutti i miei calcoli, ho accettato la prima tariffa che mi hanno proposto, ho lasciato i miei dati, il numero della mia carta di credito, ho ringraziato, chiuso la chiamata e, immediatamente, mi sono pentita di aver accettato un prezzo che Mario non avrebbe accettato mai.
Dettare il necrologio non è stato piú facile. Dettarlo: pronunciare una morte vicina in terza persona. Fare come se lo leggessi mentre lo stai scrivendo. Fingere di non sapere che tuo marito è morto, e che te ne stai accorgendo mentre detti quelle righe. Lui, in terza persona, il tuo caro, in seconda persona, che non esisterà mai piú in prima persona. La grammatica non crede nella reincarnazione. La letteratura, sí.
Dovevo dettare il necrologio velocemente, mi hanno detto. O avrei dovuto aspettare un altro giorno, mi hanno spiegato. Se non avevo pronto il file con il testo, si sono lamentati, allora dovevo per forza improvvisarlo sul momento. Il giornale era in chiusura, mi hanno informata. Si faceva in tempo a infilare un necrologio normale, uno di contenuto religioso, si sono corretti, di quelli in cui si prega per l’anima di, eccetera, mi hanno sciorinato. Ma non c’è piú tempo, signora, si spazientivano, per cambiare l’impaginato.
Mentre improvvisavo il testo del primo necrologio, sono stata tentata di dire il mio nome anziché quello di Mario.
L’ultimo necrologio ho dovuto dettarlo a uno stagista con la voce nasale, perché in redazione non c’era piú nessuno. Ed era questione, mi ha detto, di miduti. Che se non lo mandavamo subito, il necrologio non entdava. Quando lo stagista ha detto entdava, io ho capito interrava. Che il necrologio non interrava. Alla fine si è offerto di leggermi il risultato, per assicudarsi che il testo fosse codetto. L’ho ascoltato dalla sua voce, letto da lui che, con il suo naso tappato, era forse la persona piú gentile tra quelle che mi avevano risposto quella sera, ho ascoltato il mio necrologio zeppo di refusi apparenti e sbagli impensabili. Allora mi è venuto un attacco di ridarella, una serie di contrazioni muscolari che non riuscivo a fermare, come se fossi rimasta aggrovigliata in un cavo elettrico, e lo stagista con la voce nasale mi chiedeva se stavo bene, e io gli rispondevo di sí, e mi fulminavo di risate, e uno dei miei cognati mi ha portato un bicchierino di plastica con un sedativo.
Sono uscita di casa per prendere una boccata d’aria fresca. Non ho notato nessuna differenza tra interno ed esterno. Ho chiamato a casa dei miei. Prima ho parlato con Lito. Gli ho detto che tra pochissimo ci saremmo rivisti. Che tra un paio di giorni la mamma sarebbe andata a prenderlo in macchina, e che a metà strada ci saremmo fermati a mangiarci un doppio hamburger. Non sono stata brava a fingere. Poi gli ho chiesto di passarmi la nonna. Quando mia madre ha risposto, sono scoppiata a piangere. Non ci siamo dette niente. Anche quando tace, la mamma sa cosa dire. Non sarò una vecchia cosí saggia. O non diventerò vecchia. Poi ho chiamato mia sorella. A causa del fuso orario, l’ho svegliata. Mi ha fatto le condoglianze con la bocca impastata e mi ha parlato di aerei, scali, date. Poi ho chiamato diverse amiche. Mi hanno consolato con le parole giuste. Due sono arrivate in taxi. Mi è venuto il repentino sospetto che se mi avevano consolato in modo tanto appropriato era perché da mesi stavano facendo le prove. Cosí mi sono sentita anche peggio. Poi ho pensato a Ezequiel. Gli ho mandato un messaggio e ho spento il telefono.
I miei cognati mi aspettavano all’ingresso dell’obitorio. Erano impegnati in una discussione. Quelli delle pompe funebri erano appena arrivati, ma c’era un problema: ci avevano portato una cassa con la croce cattolica. Un crocefisso enorme su tutto il coperchio. Io ho giurato che ne avevo ordinata una liscia. Veramente, non ne ero tanto sicura. Avevo la sensazione di essermi sognata tutte quelle conversazioni. A Juanjo, la cassa con la croce sembrava perfetta, come l’avrebbero voluta i loro genitori. Il fratello minore non era d’accordo. Quello di mezzo pensava che a decidere dovevo essere io. Allora, signora, cosa facciamo? mi ha chiesto l’impiegato delle pompe funebri. Io gli ho risposto senza pensarci, come se mi stessero dettando la risposta: Come Dio vuole. Juanjo l’ha presa come una battuta e si è fatto in là. L’ho sentito mormorare: E per di piú, blasfema.
Della camera ardente preferisco non dire nulla. Silenzio. Famiglia. Crematorio.
Cerco vegliare nel dizionario. La terza accezione è assurda: «Passare la notte ad assistere un defunto». Come se invece di curarci delle persone che vengono a vederlo, ci curassimo del morto.
Assurda ed esatta.
Non avevo letto assolutamente niente da quel giorno. A che scopo. Ho sempre pensato che i libri, tutti, parlassero della mia vita. Che senso avrebbe leggere di qualcosa che non mi interessa piú.
Ma ieri, in un cassetto del suo comodino, ho trovato un romanzo che Mario aveva lasciato a metà. E mi sono sentita in dovere di finirlo. Era un romanzo di Hemingway, scrittore che detesto. Ho cominciato esattamente da dove lo aveva interrotto lui. È stato strano dedurre l’altra metà.
*
Oggi ho ripreso le pastiglie.
Ho pianto una pietra.
Da quando Lito è a casa, anche se può sembrare una contraddizione, l’assenza di Mario è piú evidente. Il tempo che ho passato qui da sola è stato una specie di simulacro. La sua eccezionalità rimandava il ritorno alla quotidianità. La cosa piú dolorosa sono i dialoghi con mio figlio, quando parliamo della morte in cucina.
Lui mi chiede come ha fatto un camion tanto grande ad accartocciarsi. Io gli dico che a volte sono proprio le cose grandi quelle che si rompono di piú.
Lui mi chiede come mai Pedro è uguale a prima, se ha avuto un incidente tanto grave. Io gli dico che suo zio l’ha aggiustato molto bene in officina.
Lui mi chiede se potrà viaggiare ancora su Pedro. Io gli dico forse piú avanti.
Lui mi chiede se può andare con il pallone al parco. Io gli dico di andare pure. Ma mio figlio non si muove dalla cucina. Resta lí, seduto composto, a guardarmi.
Ho buttato i suoi vestiti. Tranne le camicie, non so neanch’io perché. Ho messo tutte le sue cose dentro dei sacchi per l’immondizia, quasi senza guardarle, e le ho infilate in un cassonetto. Sono salita in casa. Ho preparato la cena. Dopo aver messo a letto Lito, sono scesa giú di corsa. Avevano già svuotato i cassonetti.
*
Una collega mi aveva raccomandato I bambini tonti di Ana María Matute. Il titolo mi dava un po’ fastidio. Ora capisco perché abbia insistito tanto che lo leggessi. La morte e l’infanzia sono di rado argomenti che vengono accoppiati. Gli adulti, per non dire noi madri, preferiscono che l’infanzia sia ingenua, piacevole e tenera. Che sia, insomma, il contrario della vita. Mi domando se, per evitar loro di entrare in contatto con il dolore, non staremo moltiplicando le loro sofferenze future.
«Era un bambino diverso, – sottolineo mentre penso a cosa mi raccontano le maestre di Lito, – che non perdeva la cintura, non si rompeva le scarpe, non aveva cicatrici sulle ginocchia, non si sporcava le dita», mi raccontano che durante la ricreazione non va in cortile, che non sembra interessato a giocare con gli altri, che resta a disegnare su un quaderno o a guardare fuori dalla finestra, «era un altro bambino, senza sogni di cavalli, senza paura del buio», e che a volte se ne sta zitto, immobile, con la fronte aggrottata, come se stesse arrivando a una conclusione a cui non arriva mai.
Ma lasciamo perdere i miei dubbi. Mi piacerebbe prendermi cura di lui come sempre, proteggerlo da tutto, abbracciarlo in cortile, parlargli come a un neonato, mentirgli, viziarlo, cancellare da lui la morte, dirgli: Tu no, figlio mio, tu mai.
Stanotte ho sognato che tornavo a casa (anche se la casa era piú grande e aveva un giardino di aranci), aprivo la porta e Mario mi accoglieva mascherato. Era una festa e tutti gli invitati erano vestiti da scheletri. Qualcuno mi dava una maschera. Io me la mettevo. Allora Mario mi raccontava che la sua morte era stata uno scherzo, e scoppiavamo a ridere tutti e due, una risata violenta, a scossoni, e poco a poco le risate ci smontavano gli scheletri.
Tutte le mattine, quando apro gli occhi, vedo l’ospedale. È tutto lí, come un lenzuolo appiccicoso. Il monitor. I sieri. La maschera d’ossigeno. Le occhiaie di Mario. Il suo sorriso abbattuto. Buongiorno, sentinella, mi diceva.
Chi aveva piú bisogno di cure: io o lui? Ho sperimentato su un corpo altrui le mie speranze? Come ho fatto a permettere che lo portassero lí? Cos’abbiamo fatto in ospedale: lo abbiamo curato o lo abbiamo trattenuto? I medici erano interessati a lui o al loro protocollo, alla loro coscienza? L’ho tenuto lí per rimandare la mia solitudine?
Torno e ritorno all’immagine del suo corpo rimpicciolito, dei suoi muscoli flosci, della sua bocca socchiusa. Mi rimprovero di non ricordarlo ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Parlare da soli
  4. Lito
  5. Elena
  6. Mario
  7. Lito
  8. Elena
  9. Mario
  10. Lito
  11. Elena
  12. Mario
  13. Lito
  14. Elena
  15. Mario
  16. Lito
  17. Elena
  18. Nota sulle traduzioni
  19. Il libro
  20. L’autore
  21. Dello stesso autore
  22. Copyright