Il 10 settembre Giulia è partita in auto da Milano per percorrere la via Emilia. Invece dei consueti sandali da monaca, questa volta ha indossato calze e scarpe. Con la coda dell’occhio aveva notato in precedenza che nella dirittura d’accesso alla Autostrada del Sole c’era ancora una vecchia freccia segnaletica blu e bianca con la scritta: SS 9 VIA EMILIA. Per cui Giulia cerca di seguirla all’altezza di Metanopoli.
Lo so che secondo te la via Emilia finisce a Piacenza e che dopo non è piú quella tracciata dal console romano, che le ha dato nome. In questo, ne convengo, sei in accordo con innumerevoli viaggiatori che nel passato hanno descritto il punto d’arresto del tracciato. Se vuoi posso anche citarti un certo Richard Lassels, che a metà del Seicento era transitato lungo quella strada e aveva scritto un appunto sulla città di Piacenza, dove Annibale aveva fatto prigioniero il console romano Sempronio. Per lui, come per molti altri stranieri, tutto terminava proprio davanti al Po. Di là c’era un’altra terra e un’altra via. Piú vicino a noi, nel 1910 Gabriel Faure ha scritto che lí a Piacenza aveva termine la via Emilia e che dopo la città si dipartono tre grandi strade che portano tutte in Francia: una che passa per Genova, l’altra per Susa e Briançon, e la terza attraversa Aosta e il Piccolo San Bernardo. Un modo davvero diverso dal nostro attuale di pensare le strade, poiché noi non pensiamo certo d’andare da Piacenza verso la Francia, ma piuttosto verso Milano, e da lí in Svizzera e quindi in Nord Europa. Permettimi di tornare al viaggio di Giulia e di raccontarti di lei.
Quel giorno Giulia non è di buon umore, cosa che non le capita spesso, ha infatti delle strane premonizioni. Fuori Milano per imboccare la via Emilia deve percorrere un quadrifoglio stradale cercando di uscire nel punto giusto, una mossa non sempre facile per chi non conosce bene l’itinerario. Invece Giulia ce la fa al primo colpo. Cosí si trova sulla strada statale che la porta verso l’Emilia. Quello che vede sui lati non è certo incoraggiante: un lazzaretto di materassi massacrati, racconta, frigoriferi arrugginiti, water, bidet, lavandini, letti, sedie, tavoli, calcinacci, piastrelle. Insomma un immondezzaio a cielo aperto, come ce ne sono altri lungo le strade del nostro paese. Poi, attraversando San Donato e San Giuliano, Giulia scorge due file di casermoni uniformi e sdegnosi, un canale putrido e scuro a destra; in alto un cielo cupo. L’aria è umida e pesante. Incontra anche gruppi di bambini in grembiule forse diretti a scuola, e donne intente a fare la spesa.
Scorge una vecchia casa subito fuori San Giuliano. Una osteria, che le appare onesta e senza fronzoli, non falsa come tante altre osterie moderne o ristoranti con le insegne altisonanti. Giulia ha cinquant’anni, o poco piú, essendo nata nel 1934. Ha viaggiato molto in precedenza; è stata in Italia, in Europa e negli Stati Uniti. Da giovane anche in Egitto come fotografa. Da qualche tempo però è tornata a stare a Milano. Le hanno commissionato un testo per una iniziativa culturale dedicata alla regione verso cui sta viaggiando: Esplorazioni della via Emilia. Mentre percorre in automobile quella strada asfaltata comincia a muoversi anche nel tempo; va a ritroso, su strade che il ricordo le offre. Le viene in mente un’altra osteria, Brusada, poco fuori Modena, lungo la via Emilia.
Te la ricordi? Te ne ho già parlato, perché si transita lí davanti entrando in città. Per alcuni decenni è stata un punto di riferimento culinario, almeno per i modenesi: un grande casone squadrato, dove potevano trovare posto moltissimi avventori. A Giulia torna in mente che lí alla Brusada ha cenato una sera dopo la mostra di un suo amico pittore, Giuliano Della Casa, in occasione della esposizione che s’è aperta quel giorno alla Galleria civica di Modena. Si rammenta che quella sera a tavola erano in centoventi. Allora nel tragitto da Milano a Modena non era sola come le accade ora. Con lei c’era un suo amico maltese. Per questo amico, con cui ha vissuto per un certo numero di anni sino alla sua morte, il numero dei presenti alla cena di Della Casa era stato una vera rivelazione. Non era abituato a queste consuetudini tipiche della nostra pianura: una dimostrazione d’affetto verso il pittore. Negli anni seguenti l’amico di Giulia ha seguitato a parlare con tutti di quei centoventi seduti a tavola. Per lui l’Emilia è come il Far West. Probabilmente non ha mai ascoltato quella canzone di Francesco Guccini, che lo dice.
Mentre sta guidando in quel giorno uggioso di fine estate e inizio autunno, a Giulia torna in mente un altro viaggio sulla medesima strada. Piú di un viaggio. Alla metà degli anni Quaranta, quando ancora non esisteva l’Autostrada del Sole, che, come sai, è stata inaugurata solo nel 1964, Giulia è partita con i genitori diretta a Firenze. Seguivano un rituale fisso: alle 10 il via a Milano, quindi fermata a pranzo a Bologna, al ristorante Pappagallo, e infine arrivo a Firenze la sera prima che cali il buio. Sono cinque o sei ore di viaggio. Quelli per Giulia sono i primi viaggi che fa, dato che durante la guerra nessuno si è mosso a causa dei bombardamenti. Lei s’è rifugiata fuori Milano; inoltre durante il periodo bellico molte automobili sono state sequestrate; e suo padre, che pure ha la patente, raggiunge quando può, nel fine settimana, la famiglia in bicicletta. Guidare l’auto è pericoloso dal momento che il motore della vettura impedisce di sentire l’arrivo di un aeroplano che mitraglia la strada. Giulia all’epoca conosce solo Milano, la campagna attorno a Pavia e il lago di Como, dove è sfollata con la madre e il padre.
Ai suoi occhi di tredicenne Bologna appare una città sorprendente. L’attraversavano senza mai visitarla, perché la meta turistica è Firenze coi suoi musei, le chiese e i palazzi. La via Emilia era allora molto piú stretta, tanto che mentre la percorre ora, al volante della sua autovettura, continua a chiedersi come abbiano fatto ad allargarla, soprattutto nei centri abitati, dove lo spazio è esiguo. Hanno forse eliminato i marciapiedi? È anche possibile che la memoria la inganni, a rovescio di quanto accade di solito: da bambini si vedono le cose enormi, poi riviste da grandi risultano molto piccole, persino minuscole. Giulia si ricorda bene le lunghe code dietro a camion e carretti, perché non si può sorpassare per via del traffico che va e viene nelle due direzioni di marcia. A tredici anni, le sembra che il viaggio sia lunghissimo, senza fine. Per questo finge di essere a cavallo e di galoppare a fianco del nastro di asfalto in mezzo ai campi. Se lí trova qualche ostacolo, pensa bene di saltarlo col pensiero. Ha battezzato il suo destriero Palomino, come la razza, e questa galoppata la tiene impegnata per tutto il tragitto.
Arrivati al Pappagallo Giulia si sente stanca, ma soddisfatta, e soprattutto molto affamata. Il padre è un cliente ben conosciuto nel locale, quindi viene subito circondato dai camerieri, riverito e servito insieme alla sua famiglia. Vicino a loro pranza il sindaco di Bologna, Dozza. Coi capelli bianchi, squadra gli altri clienti del ristorante. Ha qualcosa di contadino, di patriarcale, e a lei fa molta specie poter mangiare accanto a un sindaco comunista. Cosí immagina di essere il suo braccio destro. Però non gli rivolge la parola, dato che in quel ruolo lei viaggia in incognito: è in missione. Le sue fantasie si estendono agli astanti, in particolare a vari ceffi seduti nei tavoli vicini. Per cui Giulia comunica con Dozza solo attraverso sguardi silenziosi: si dicono tutto. Finito il pranzo, è inteso che i banditi saranno arrestati e lei proseguirà il suo viaggio con Palomino.
Dopo qualche tempo suo padre ha deciso di cambiare ristorante: il Pappagallo è diventato troppo di moda. Si fermano per pranzare a Cesena, perché si è sparsa la voce a Milano che nella stazione della città romagnola c’è un ristorante straordinario. Già allora Giulia ha compreso che l’Emilia e la Romagna sono una sorta di Far West, anticipa il suo amico maltese. Lei è convinta che in Emilia i capoluoghi siano collegati da una freeway, che connette Piacenza con Parma, e poi questa con Reggio, quindi con Modena e Bologna, sino a che si raggiunge la Romagna, dove si scavalla passando attraverso l’Appennino, per dirigersi verso la costa tirrenica, e Firenze. Per questa ragione Giulia ha sempre pensato che l’Emilia sia la Los Angeles dell’Italia.
Nella sua visione della via Emilia, e anche dell’Autostrada del Sole, che l’ha sostituita, s’immagina adesso che piacentini, parmigiani, reggiani, modenesi e bolognesi siano sempre in viaggio da una città all’altra, e che queste città siano come delle tribú e consorterie, dove tutti si conoscono tra loro. Cosí le è capitato d’incontrare un amico di Modena e di trovarsi con lui a Parma, mentre in realtà doveva recarsi a Carpi. Per lei l’Emilia è un luogo di continue digressioni, come nei vari libri che ha scritto, e nelle sue poesie, che lei chiama Frisbee, dal nome di quei dischi di plastica che si lanciano e s’afferrano al volo. Lei vola sempre con la fantasia e con l’immaginazione.
Giulia è una poetessa e ha ottantacinque anni. Il racconto di quel viaggio di settembre nello spazio e nel tempo risale a oltre trent’anni fa. Se te l’ho raccontato è perché somiglia a quelli che facevo anch’io da bambino. Anche se sono piú giovane di Giulia di vent’anni, ho attraversato in auto l’Emilia prima della costruzione dell’Autostrada del Sole diretto in Romagna con i miei genitori. Transitavamo per le città. Ricordo bene il passaggio attraverso Bologna, quando ancora non c’erano le tangenziali; rammento il tempo che occorreva per arrivare sino a Cesenatico, dove trascorrevamo almeno un paio di mesi d’estate, mentre mio padre visitava i suoi clienti piú a sud, nelle Marche, in Abruzzo, in Umbria e in Toscana. Si procedeva lentamente; cosí i tempi lunghi offrivano ampi margini alle fantasie personali. Come accade a Giulia anche adesso che ha molti piú anni di allora.
Nell’estate del 1970 Giulia è poi andata ad abitare in Emilia, a Bazzano, una frazione del comune di Neviano degli Arduini, in riva al torrente Enza, provincia di Parma. Si tratta di un mulino di proprietà della famiglia di Corrado Costa, avvocato e poeta, composto di diversi edifici. In uno di questi, una casa colonica, Giulia ha preso domicilio insieme a Adriano Spatola, poeta, che era diventato qualche tempo prima suo compagno, quando lei stava a Roma, dove ha vissuto per oltre un anno ospite di Giosetta Fioroni. Il Mulino di Bazzano si trova nel fondovalle; lo si raggiunge provenendo da San Polo d’Enza, dal territorio della provincia di Reggio Emilia, oppure transitando dalla parte di Parma, da Traversetolo. La zona è dominata dal monte Fuso, il piú alto.
Nella cucina della loro nuova casa i due poeti hanno installato la redazione della casa editrice di Spatola e dei suoi fratelli, e cominciato a pubblicare libri di autori amici. Intorno a loro il mondo ha preso un’altra piega. Sono gli anni della lotta politica, delle manifestazioni di piazza, degli scontri con la polizia. Il terrorismo nero ha già fatto il suo debutto nel 1969 a piazza Fontana, mentre si sta preparando la lotta armata delle Brigate Rosse e delle altre sigle del terrorismo di sinistra. I due poeti hanno lasciato dietro le loro spalle l’esperienza di una rivista, «Quindici», di cui Giulia è stata segretaria di redazione. Ha chiuso dilaniata tra due istanze opposte: da un lato, le ragioni dell’impegno diretto nella lotta politica; dall’altro, le ragioni della poesia e della letteratura. Giulia e Adriano hanno scelto questa seconda via. Le Edizioni Geiger sfornano i primi volumi. Poco tempo dopo danno vita alle Edizioni Tam Tam, che è anche il titolo della rivista. Per pubblicare i libri Giulia acquista a sue spese una macchina off-set marca Gestetner e una linotype, che piazzano in un seminterrato di una casa a Costa di Bazzano, cui attende il fratello minore di Adriano, Tiziano. Lei finanzia tutta l’impresa editoriale e non solo.
«Tam Tam» si propone di essere la voce della poesia sperimentale; vuole diffondere in Italia e in Europa la nuova poesia italiana, figlia delle sperimentazioni della neoavanguardia, del Gruppo 63, il movimento letterario a cui Giulia ha partecipato, di cui fa parte Corrado Costa, ma anche altri poeti e scrittori giovani come loro: Gianni Celati e Sebastiano Vassalli, i quali leggono i loro testi nelle riunioni pubbliche del gruppo. Poi prenderanno le distanze dalla neoavanguardia, non ne vorranno piú sapere.
I maestri di Giulia e Adriano sono Nanni Balestrini e Giorgio Manganelli; quest’ultimo è stato uno scrittore molto importante per lei nel periodo che ha trascorso a Roma a casa di Giosetta Fioroni. A Manganelli Giulia ha raccontato nel corso degli anni nella Capitale i propri sogni, e lui glieli ha interpretati come se fosse uno psicoanalista o un veggente. Cosí, dopo un periodo di questa analisi, Giulia ha scritto un libro, un romanzo sperimentale, Il grande angolo, che racconta la sua storia quando ha fatto la fotografa in Egitto e in America.
La protagonista del romanzo si chiama Ita; la storia si dipana attraverso vari scenari, che sono poi quelli dove lei è stata come fotoreporter. Una sera in un appartamento all’ultimo piano del numero 137 di Central Park West, a New York, Ita ritrova il suo compagno Domínguez riverso in un letto, dissanguato. Giulia ha spiegato varie volte che questo non gli era capitato davvero, e che il romanzo mescolava insieme aspetti della sua vita di fotografa e altri inventati; in parecchi non le hanno creduto e cosí questo, a dispetto suo, le ha creato una fama di donna vissuta. In realtà, come Giulia ha raccontato in vari libri autobiografici, a lei piace raccontare la sua vita e lo fa in modo accattivante. Al Mulino di Bazzano, il punto di riferimento della rivista di poesia è Adriano Spatola, il suo compagno, che lei definisce ancora oggi un uomo fascinoso, un leader nato. E in quanto donna lei veniva dopo i due uomini del gruppo, Adriano e Corrado.
Ci sono molte leggende che circolano su questo cenacolo di poeti situato sul greto del torrente Enza in Emilia. Leggende che parlano di grandi discussioni, di visite di poeti stranieri, tra cui quelli della West Coast, come Paul Vangelisti. E poi di grandi bevute, di dibattiti accesi intorno al tavolo della cucina, dove intanto bollivano pentoloni, poiché a Bazzano c’è sempre un posto a tavola per gli ospiti, un piatto apparecchiato e un letto per dormire. Giuliano Della Casa, uno dei visitatori piú abituali, insieme ad altri pittori, tra cui Claudio Parmiggiani, ha raccontato che quando arriva lí la mattina presto, trova Spatola pieno di vita e buon umore. Adriano comincia a preparare dei cocktail alle dieci, la maggior parte dei quali mescolando vodka e succo d’arancia. Serve a trovare una maggior armonia sul lavoro, e non solo a divertirsi di piú.
Il falansterio di Bazzano lavora alacremente a impaginare le poesie, a redigere i libri e a preparare le manifestazioni alle quali partecipa tutto il gruppo. Arrivavano al Mulino Giorgio Celli, Nanni Scolari, Gian Pio Torricelli; quest’ultimo è un poeta leggendario, di cui si è molto parlato negli anni a seguire, alla stregua di uno scomparso, come se fosse Salinger o Pynchon. Poi si è saputo che Torricelli ha trascorso appartato gran parte della sua vita: in una casa di cura per malattie mentali. Ci sono Antonio Porta da Milano e Luigi Ballerini, che sta in America, ma che si reca sempre al Mulino nei suoi ritorni in Italia. E poi Giovanni Anceschi, visual designer e artista, figlio di Luciano, il mitico docente universitario e studioso, con cui io ho studiato a Bologna come sai. Giovanni ha disegnato anche il logo di «Tam Tam».
Una parte dei giovani artisti sperimentali di Milano scende in Emilia per incontrate i membri della setta poetica. Ci sono andati, probabilmente tra gli ultimi, anche alcuni giovanotti all’epoca: Beppe Sebaste, Giorgio Messori, Daniele Benati, questi con il fratello Davide, pittore. Sono tutte persone di cui tu hai già sentito parlare e che forse hai conosciuto di persona. Per quanto all’epoca abitassi non troppo lontano da lí, a Reggio, non sono mai andato al Mulino; ma ne ho sentito parlare molto: le storie del Mulino correvano di bocca in bocca dalle nostre parti.
A Bazzano non c’è il telefono. Giulia e Adriano percorrono a piedi la strada fino al posto telefonico piú vicino. Cosí la maggior parte delle comunicazioni avviene via lettera, battendo a macchina su fogli di sottile carta velina le proprie missive. La vicinanza del torrente stimola l’attività della pesca, in cui Corrado Costa si vanta d’eccellere. Non pesca con la canna, come gli altri del Mulino: Corrado pesca a mano. Il piú leggendario di questi poeti che si onorano a Bazzano – anche se non credo ci sia mai stato – è Emilio Villa, che tu hai già sentito nominare. La vita di Villa da sola riempirebbe le pagine di un grande libro con le sue vicende di traduttore, poeta, artista, critico. Ti basti sapere che i primi scritti per la nuova arte italiana del dopoguerra sono stati vergati da questo scrittore e filosofo, che era nato in uno dei municipi che circondavano Milano, ad Affori, all’inizio del Novecento. Villa è stato traduttore dalle lingue semitiche e dal greco, e ha realizzato proprie versioni di Omero e della Bibbia.
Nel 1979 mentre Spatola è assente per un giro di letture poetiche, Giulia lascia Bazzano e se ne va. Ha appoggiato sulla mensola del camino della cucina una busta con una lettera. Vi spiega la propria scelta: non ce la fa piú a reggere fisicamente e psicologicamente il modo di vivere di Spatola, per questo è tornata a Milano nella casa che aveva prima. Anni dopo ha scritto che vedeva Spatola come un novello Sisifo condannato a spingere un masso in salita, caparbiamente aggrappato alla folle speranza di raggiungere alfine la vetta del monte, per poi vedere immancabilmente il masso rotolare giú dal versante opposto.
Quel masso, ha detto Giulia, è la convinzione che la poesia sia la sola, possibile salvazione. Lei a volte si vede ancora seduta attorno al tavolo della cucina con Spatola, uno di fronte all’altro: lavorano insieme e ognuno per proprio conto. Anni dopo, Giulia è arrivata alla convinzione che gli artisti corrono il rischio di pensare sempre solo a loro stessi e al proprio lavoro. La frase che però l’ha indotta ad andarsene è stata pronunciata da Spatola un certo giorno: «Non si può aiutare nessuno».
Giulia ha lasciato al Mulino le sue borse con tutte le fotografie scattate in passato, le pellicole, le macchine fotografiche, e ha cambiato vita. Spatola è rimasto ancora un anno lí. Poi, pian piano, dopo nove anni di convivenza stretta, il falansterio poetico si è progressivamente sciolto, e alcune delle riviste e collane hanno cessato di uscire. Adriano Spatola è morto nel 1988. Cosa sia rimasto di quella esperienza, Giulia l’ha raccontato in altri libri, che non sto qui a riferirti. Ha cambiato vita e non è stata una cosa facile.
Nel 1980 a quarantasette anni ha avuto un ictus, una esperienza difficile da cui ha molto faticato a riprendersi. Racconta che ha impiegato quattro o cinque anni per tornare alla vita piena; questa malattia improvvisa è stata il punto di svolta della sua vita. A Milano per mantenersi ha cominciato a tradurre Gertrude Stein e altre scrittrici americane e inglesi, cosí che appena uscita dall’ospedale ha telefonato alla casa editrice e alla persona che le aveva commissionato quel lavoro; le ha detto che non sarebbe stata in grado di consegnare il dattiloscritto alla data convenuta. La donna le ha proposto di incontrarsi, poiché stava andando a sentire una conferenza di un lama tibetano. Potevano andare insieme, le ha detto. Giulia ha accettato.
Siamo nel 1985. L’appuntamento è alla fermata del metrò, ma la donna non arriva. Giulia ha con sé l’indirizzo della sala dell’incontro e ci...