Pollock e Rothko
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Pollock e Rothko

Il gesto e il respiro

  1. 200 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Pollock e Rothko

Il gesto e il respiro

Informazioni su questo libro

Hanno spostato il baricentro della pittura da Parigi a New York. Hanno condiviso amici e galleristi. Hanno esposto insieme, frequentato gli stessi critici d'arte, bevuto fiumi di whisky. Li accomuna anche la morte tragica. Eppure Jackson Pollock e Mark Rothko non potrebbero avere linguaggi piú diversi. Il primo diceva «Io sono la natura», e attraverso il dripping ha cercato l'espressione di sé. Il secondo ha inseguito il silenzio, la luce, il vuoto del non sé. Usando come sorprendente punto di partenza gli affreschi dell'Angelico a Firenze, Gregorio Botta racconta le loro esistenze opposte e parallele con l'occhio dell'artista, spiegando le radici, la genesi e le conseguenze di due modi di dipingere agli antipodi.«Ecco perché la storia di questi due campioni è cosí importante e rappresentativa: perché custodisce non solo le loro vite dolorose, non solo la potenza delle loro opere, ma anche lo yin e lo yang dell'arte occidentale. O almeno: uno dei tanti yin e yang che la vanno animando».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
Print ISBN
9788806245467
eBook ISBN
9788858434970
Argomento
Arte
Categoria
Arte generale
1.

Firenze-New York, andata e ritorno

Il silenzio è cosí accurato.
M. R.

Il convento.

C’è una celebre foto che racchiude un pezzo pregiato della storia dell’arte Usa: ritrae quattordici uomini e una donna. Non sono ancora la New York School, ma lo stanno diventando. In quell’anno, il 1951, la stampa li definisce «The Irascibles». Perché sono arrabbiati, protestano pubblicamente contro le scelte del Metropolitan Museum of Art in materia di arte contemporanea e «Life» non si lascia sfuggire l’occasione di immortalare loro e la vis polemica che rappresentano. Ma parleremo piú in là di quanto è stata battagliera ai suoi albori l’astrazione americana.
Ora guardiamo la foto. Se la osserviamo con attenzione, possiamo vedere ogni cosa. Quello scatto contiene tutto: il carattere, l’energia e il destino dei due giganti della pittura del Novecento. Al centro esatto del gruppo siede, probabilmente su un tavolo, Jackson Pollock: il suo corpo è di profilo, la schiena un po’ curva, solo una mano visibile, sospesa a mezz’aria, con l’immancabile sigaretta. Ma il volto guarda dritto in camera, il suo sguardo intenso e accigliato buca l’obiettivo: sembra voler sfidare tutto e tutti. La torsione del corpo e la postura sono michelangioleschi, sembrano uscite dalle cappelle medicee. È una molla pronta a scattare, una bomba che sta per esplodere. Sembra che tutto il gruppo orbiti intorno a lui.
Defilato nell’angolo destro sta invece Mark Rothko, in giacca e cravatta, seduto di tre quarti su una sedia, le gambe leggermente divaricate, le mani in grembo, anche lui con la sigaretta. È l’unico dei quindici a non guardare direttamente in faccia il fotografo: il viso è rivolto a sinistra, e a prima vista sembra quello di un uomo assorto, tranquillo, meditabondo, distratto. Ma, se osservate bene, vedrete che dietro gli occhiali da intellettuale le pupille sono invece rivolte verso l’obiettivo: un lampo attento e ironico accende il suo sguardo obliquo. Intelligenza allo stato puro. Un po’ separato dal gruppo, ha voluto occupare la prima fila: solitario e davanti a tutti. È la posizione che pretende di avere anche nella storia della pittura.
Ecco i dioscuri che sono stati capaci di ribaltare l’asse terrestre dell’arte del loro tempo, che hanno trasferito il cuore della pittura da Parigi a New York, pionieri di una stagione durata quasi mezzo secolo. Sí, sono stati soprattutto loro due a farlo. Pollock, energia dirompente, carica esplosiva e rabbiosa, centro di gravità del gruppo, il primo ad aprire le porte per tutti gli altri, a diventare famoso, a imporsi al mondo: il classico genio e sregolatezza che alla fine dissipa sé stesso e perde ogni cosa. Rothko, metodo, ripetizione e contemplazione, una vita intera passata ad approfondire una visione. Sempre la stessa, sempre piú assoluta. Quasi mistica. Ma alla fine anche lui divorato dalla sua disperata ossessione.
Certo, non erano soli: c’era un grande gruppo che in quegli anni stava aprendo le nuove frontiere estetiche dell’Occidente. E molti direbbero che se uno deve proprio individuare una coppia di antagonisti in arte questa sarebbe composta da Pollock e De Kooning, come ha scritto Sebastian Smee in Artisti rivali. Vero. Bill de Kooning è stato un grandissimo (peraltro bellissimo) protagonista della scena americana, idolatrato dalla sua cerchia, temuto e invidiato. Ma se oggi, settanta anni dopo, chiediamo a chiunque chi sono le stelle del firmamento di quegli anni, tutti risponderanno Pollock e Rothko. Il segno che hanno lasciato è diventato universalmente noto, quasi un brand riconoscibile da chiunque: un simbolo. Non è detto che sia un bene, ma è cosí.
Le loro sono vite intrecciate: hanno condiviso amici, lavori, gallerie d’arte, giudizi critici, hanno partecipato alle stesse mostre di gruppo. Entrambi sono arrivati al successo con fatica, entrambi hanno avuto problemi seri con l’alcol (e con i loro fantasmi interiori), entrambi sono morti tragicamente. Le loro vite sono divergenze parallele, per ribaltare un ossimoro famoso. Non solo per carattere e attitudine, ma perché hanno scelto due strade opposte. Il dripping è l’apoteosi del gesto, del movimento, della materia, della densità, è la celebrazione dell’io che lascia la sua traccia nel mondo. I color fields di Rothko sono un inno alla contemplazione, al silenzio, al vuoto. Alla sparizione dell’io dal mondo. Soprattutto sono un’epifania della luce che sembra emanare dalle tele. Sono quadri quasi immateriali, creati da velature su velature. Sembrano fatti d’aria: sono – diceva l’artista – respirabili.
Eppure entrambi sono anche l’esito di due strade che hanno diviso la pittura occidentale dal Rinascimento fino a loro, campioni massimi di due scuole che si sono alternate, affiancate, rincorse, inabissate e riemerse nel corso della nostra storia: quelle della pittura tonale e della pittura timbrica.
Niente paura: chi non conosce la distinzione non deve preoccuparsi. Neanche io ne sapevo nulla quando frequentavo, negli anni Ottanta, l’accademia di Belle Arti a Roma. Avevo scelto, consigliato da amici artisti, il corso di Toti Scialoja, pittore finissimo, intellettuale colto e cosmopolita, scrittore, poeta: uno dei pochi pittori italiani a essere stato a lungo in America, amico di molti dei protagonisti della New York School, che aveva contribuito a far conoscere in Italia. Lezioni memorabili, svolte nella bella aula dell’accademia in piazza Mignanelli illuminata da un lucernario, diventata ora un luogo dedicato alla moda. In essa Scialoja difendeva a spada tratta il ruolo della pittura di superficie: e cioè antiprospettica, non mimetica, non figurativa. In una di queste mattine ci mise davanti al bivio: tono o timbro?
Nessuno di noi studenti sapeva di cosa stesse parlando. Ma col tempo abbiamo capito.
A grandi linee (e mi perdonino gli storici dell’arte per l’approssimazione): la pittura timbrica è quella in cui ogni colore viene dipinto con un suo timbro, spesso molto acceso, e in cui l’artista non si cura della luce che colpendolo potrebbe mutarne gradazione e percezione.
Per intenderci: prendiamo L’Adorazione dei Magi del Perugino nella Galleria nazionale di Perugia. Non è difficile trovarla su Google. Guardate i mantelli dei re pellegrini: hanno colori smaglianti, i verdi e i rossi squillano, cosí come il manto della Vergine è di un blu oltremare uniforme. Le ombre sono solo accennate, il tanto che basta per rendere il volume delle figure che si stagliano nello spazio, protagoniste assolute e prepotenti. Anche gli edifici sembrano ritagliati all’orizzonte, con disegni finissimi e dettagliati, come accade, ad esempio, nello Sposalizio della Vergine di Raffaello.
Ma i colori cambiano a seconda della luce che li bagna, e la pittura tonale si occupa appunto della luce: è la scuola veneta ad assumersi la paternità di questa rivoluzione, inaugurata – è quasi un luogo comune nei libri di storia dell’arte – dalla Tempesta di Giorgione. Se osservate quella piccola tela potete vedere che, forse per la prima volta nella pittura occidentale, la natura è il soggetto predominante: anzi, lo è l’atmosfera che la colpisce, quella straniante miscela di oscurità e luce di cui è capace solo un cielo abbuiato da livide nubi e squarci improvvisi tipici di un temporale primaverile. Guardate come si accendono di un chiaro avorio le torri che si stagliano sullo sfondo, sulla riva del fiume: sono degne di quel piccolo lembo di palazzo giallo della Veduta di Delft dipinta da Vermeer centosessanta anni dopo che fece tanto innamorare Proust.
Ecco, gli storici dell’arte dicono che quell’opera dipinta a tempera a uovo e olio di noce abbia aperto, agli inizi del Cinquecento, la maniera moderna. Naturalmente le cose non sono mai cosí schematiche. Giorgione deve molto, per esempio, alle prospettive atmosferiche di Leonardo, che parlava di «grossezza dell’aere», applicandola con sistematicità ai suoi dipinti maturi, per cui nello sfondo i profili dei corpi e degli oggetti perdono di nitidezza, diventando sempre piú evanescenti, mentre in lontananza le montagne avvolte da nebbie e vapori assumono toni azzurrini o violacei e sembrano quasi squagliarsi. E deve molto ai fiamminghi che, nel primo Quattrocento, perfezionarono la tecnica della pittura a olio, che per le sue proprietà di trasparenza e di lenta asciugatura consentiva di amalgamare meglio i colori, stendendoli per successive velature, fino a ricavarne gradazioni tonali estremamente sfumate.
Ma sicuramente dopo Giorgione la luce e il tono generale dell’atmosfera divennero sempre piú un oggetto di indagine dei pittori. Che seguirono due strade. Una via notturna, dominata dall’ombra, da un buio oscuro schiarito drammaticamente dai raggi di una fonte luminosa (da Caravaggio a Rembrandt, passando per La Tour e tanti altri). E una via diurna, battuta da artisti che dipingevano la luminosità dell’aria come fosse l’elemento unificante capace di tenere insieme tutte le cose, di legare il mondo in una sola visione.
So che è una tesi azzardata, e che molti arricceranno il naso con piú di una ragione. Ma io vedo una linea che attraversa la pittura che corre dal convento di San Marco affrescato dall’Angelico a Vermeer, fino alle cattedrali di Rouen di Monet, fino a Morandi, fino a Rothko. Non è una scuola, certo, ma un’affinità elettiva che lega misteriosamente questi e molti altri maestri. E che si riaffaccerà dopo di loro: ad esempio nelle macchine visive di James Turrell, veri e propri teatri in cui c’è un solo attore, la luce. Non è certo un caso se, nel suo libro postumo ritrovato e pubblicato dal figlio Christopher, Rothko parla di Leonardo e della scuola veneta che «permise di rendere uniforme il dipinto a livello tattile, poiché tutti gli oggetti partecipavano a un’atmosfera avvolgente comune».
Anche la pittura timbrica attraversa come un fiume carsico la storia dell’arte, riaffiorando prepotentemente nel Novecento con l’Espressionismo e con la prima astrazione. È evidente il perché. Il colore incarna uno stato d’animo, acceso dalla psiche (Van Gogh e tutti i suoi seguaci) oppure è semplicemente espressione di sé stesso, del suo affermarsi nel mondo in piena autonomia, senza essere legato ad alcun oggetto, come una nota musicale (Kandinskij e tutti i suoi seguaci). Quindi può, anzi deve, manifestarsi in tutta la sua potenza timbrica, indifferente alla luce che lo colpisce. Cosí lo usava Pollock, schiacciandolo sul quadro direttamente dai tubetti, o versandolo sulla tela direttamente dai barattoli.
Ecco perché la storia di questi due campioni è cosí importante e rappresentativa: perché custodisce non solo le loro vite dolorose, non solo la potenza delle loro opere, ma anche lo yin e lo yang dell’arte occidentale. O almeno: uno dei tanti yin e yang che la vanno animando.

Irascibili, ma Angelici.

C’è un posto dove potremmo far cominciare questa storia: è il convento di San Marco a Firenze, luogo tra i piú belli al mondo. A renderlo tale è stata l’arte di Beato Angelico, che ha affrescato, parete dopo parete, le celle dei monaci domenicani che l’abitavano: quasi tutte di sua mano, alcune della bottega, tutte con la sua impronta. Impresa davvero speciale, perché segreta. Tutta l’arte del Rinascimento è destinata a essere ammirata da un vasto pubblico: dagli ospiti delle case di nobili, mercanti e alti prelati, che la ostentavano con orgoglio, dai fedeli che andavano in chiesa e pregavano davanti alla pala ordinata dai committenti, dai signori invitati nei palazzi del potere. Caso unico, questa è invece un’arte destinata solo alla contemplazione di pochissimi: i frati che hanno scelto la clausura. Nessun altro può vederla: a parte Cosimo de’ Medici, che ha una sua cella dedicata nel convento, e piú tardi Savonarola che, autopunitivo come è (il museo conserva ancora il suo cilicio), abita la stanza piú spoglia d’affreschi. E proprio qui, in questo luogo intimo e segreto, sottratto agli occhi e al giudizio del pubblico, Fra Angelico (al secolo Guido di Piero; Giovanni da Fiesole dopo aver preso i voti) crea il suo capolavoro assoluto. È un domenicano, e – al contrario di altri frati pittori – crede veramente: a quello che fa e a quello che dipinge. Forse per questo la sua opera qui diventa cosí sincera, ispirata, libera. E all’avanguardia. Larga parte della critica, fino a qualche decennio fa, definiva l’Angelico come un artista con lo sguardo rivolto al passato, un tardo gotico, uno che non era al passo con i maestri del suo tempo, impegnati in prospettive sempre piú ardite, in figurazioni sempre piú complesse, in descrizioni sempre piú dettagliate. E può essere anche vero, a guardare certe prime tavole dove ancora si trova il fondo oro e le figure hanno una certa rigidità schematica, antica, che ricorda i capolavori del Trecento.
Ma a San Marco no: a San Marco Angelico è un pittore consapevole e maturo e a quarantacinque anni dipinge una delle Annunciazioni piú rivoluzionarie che si siano mai viste. Non quella che si trova nel corridoio al piano superiore, che pure è bellissima. No. Parlo dell’affresco nella cella III (questo libro ha poche immagini, ma vi prego, bastano due clic sul web per trovarlo). Qui, per la prima volta, il dialogo è un incontro ravvicinato tra due mondi che stanno per unirsi. In quasi tutti i dipinti dell’epoca lo spazio tra l’Angelo e la Vergine è separato, diviso da una colonna simbolica o da una fuga prospettica che precipita in una pietra (Piero della Francesca), in una porta o finestra, in un giardino paradisiaco. Qualcosa divide e congiunge il luogo del divino e quello dell’ancora umano. Qui no. Qui l’Arcangelo Gabriele è vicinissimo: sta sotto lo stesso portico davanti alla ragazza che, stupita e timorosa, ascolta la sua parola. Sono già insieme, condividono lo stesso spazio, c’è solo un grande bianco fra di loro. È la luce che si sparge sulla parete di fondo, emanata dall’angelo per illuminare Maria. Non servono piú le parole (quell’Ave Maria gratia plena che in tante tavole o affreschi dedicati al racconto evangelico compare scritto in oro o dipinto in un cartiglio alla base delle figure). Qui la scena si svolge in silenzio, perché è la luce a parlare, protagonista assoluta in quanto segno inequivocabile della presenza divina: e fa lasciare una tenue ombra sul pavimento all’etereo corpo dell’angelo e un’ombra molto piú scura al corpo fisico di Maria. Forse – lascio agli storici dell’arte la certezza – è la prima volta che, nella pittura dell’epoca, un muro si prende il centro della scena in maniera cosí prepotente. È un gesto pittorico audace e ispirato, un primo esempio clamoroso di quella pittura tonale di cui parlavo prima. D’altronde basta guardare tutte le celle di San Marco per vedere cosa e come il Beato Angelico – il monaco che pregava sempre prima di prendere il pennello e che non correggeva mai la sua opera perché veniva da Dio (Vasari) – dipingesse: è un continuo trionfo della luce («luce radiante dappertutto come segno divino», secondo le parole di Argan). Nelle ciotole il pestello degli aiutanti di bottega tritura bianchi su bianchi: piú freddi, piú caldi, avorio. Osservate la Trasfigurazione (cella VI). Il Cristo è avvolto in una tunica candida, circondato da un’amigdala (la grande aureola a forma di mandorla di origine paleocristiana che avvolge tutto il corpo) ancora piú bianca, poggia su una roccia chiarissima, e l’ombra è un grigio perlaceo. Lo sfondo è un’ocra calda, un’aurea d’avorio accompagna le sette figure dei santi abbagliati dalla luce emanata da Gesú. Dunque: terre bianche, grigie, ocra, terre di Siena naturali o bruciate ma chiarissime: è una tavolozza inedita per l’epoca, potrebbe essere quella di un Giorgio Morandi molti secoli dopo. Ma è cosí che dipinge l’Angelico. Va dritto al cuore del racconto, ne raccoglie l’essenza tanto che ricorre alla sineddoche, dipinge una parte per il tutto: come nel Cristo deriso, dove sono riportati solo i volti o le mani degli infingardi che si accaniscono su Gesú. I cieli di tutti i crocefissi delle celle sono bianchi, e poggiano su un suolo grigio, poco piú scuro. La linea della terra è perfettamente orizzontale: siamo in uno spazio metafisico, quasi astratto, destinato all’intensità della contemplazione.
Ora, provate a immaginare Mark Rothko che mette per la prima volta piede a San Marco. Per lui, partito dalla Russia per l’America da ragazzo, il vecchio continente è un ritorno. Ma non è mai stato in Italia. È il 1950 e Rothko sta cominciando a diventare Rothko proprio in questi anni: nel senso che ha da poco abbandonato i Multiformi, dalle forme irregolari e dai colori accesi, per quelle campiture ortogonali – rettangoli su rettangoli – dalle sfumature sottili, che caratterizzeranno per il resto della vita la sua opera. Quello che ha visto finora a Firenze non lo ha colpito molto: gli splendori del Rinascimento non fanno per lui. Tutto, probabilmente, è troppo: colori accesi, fughe prospettiche, dettagli narrativi. Ma qui lo sguardo trova finalmente pace. Trova la semplicità ortogonale che vede negli affreschi (la verticalità della croce, l’orizzontalità della terra) trova la radicale essenzialità della pittura, trova soprattutto la luce, che sembra uscire dalle pareti e far vibrare lo spazio di ogni cella. Come nei suoi quadri. Trova insomma un maestro. Un grande antico maestro. La rivelazione del convento colpisce Rothko nel momento esatto in cui la sua pittura sta maturando definitivamente. E chissà quanto di quel che ha visto sedimenterà e fiorirà nei lavori successivi. Quel che è certo è che quando tornerà in Italia vorrà visitare ancora San Marco, e parlerà dell’Angelico con Giulio Carlo Argan, che gli spiegherà la complessità del pensiero tomistico e della disciplina dominicana e la profondità della fede che stava dietro le scelte del Beato pittore.
Pollock no: non è mai stato in Italia. Né in Europa. I suoi quadri hanno viaggiato e sono stati celebrati nel vecchio continente da soli. Eppure, se avesse messo piede a San Marco avrebbe potuto anche lui trovare un’ispirazione e una straordinaria sintonia con un maestro di seicento anni piú vecchio di lui. Forse lui sarebbe riuscito a vedere cosa contenevano quei quattro marmi finti dipinti dall’Angelico sotto la Madonna delle ombre, l’altro grande affresco del corridoio al piano superiore. Perché nessuno, per secoli, ha notato il particolare che li distingueva da tutti gli altri: eppure era lí, in bella evidenza, ad altezza degli occhi, talmente visibile da essere ignorato come la lettera rubata di Edgar Allan Poe. Lo ha visto per la prima volta, trent’anni fa, Georges Didi-Huberman, filosofo e storico dell’arte, portatore di quelle intelligenze oblique e sorprendenti cui la Francia ci ha abituato. Si è chiesto: come mai l’artista ha dipinto questi quattro marmi, cosí grandi, ad altezza d’uomo, sotto una Sacra conversazione? Certo non per motivi decorativi: sono collocati in una posizione troppo importante e in ogni caso contraddirebbero la lezione di essenzialità e rigore che caratterizza tutto il convento. Dunque quelle pietre sono state dipinte per un motivo, significano qualcosa: non sono dei semplici trompe-l’oeil. Cosa sono allora?
Il pittore ha...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Pollock e Rothko
  4. 1. Firenze-New York, andata e ritorno
  5. 2. Autoritratti
  6. 3. Senza parte né arte
  7. 4. Cercasi famiglia disperatamente
  8. 5. Il grande quadro americano
  9. 6. La banda dei Myth-makers
  10. 7. Females (and Males)
  11. 8. Diventare Rothko
  12. 9. Diventare Pollock
  13. 10. Il piú grande
  14. 11. Il signore dello sguardo
  15. 12. La discesa all’inferno
  16. 13. La luce del buio
  17. 14. Congedo
  18. Fonti
  19. Nota al testo.
  20. Apparati iconografici
  21. Il libro
  22. L’autore
  23. Copyright