La Ragazza A
eBook - ePub

La Ragazza A

  1. 376 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Lex non vuole piú pensare alla sua famiglia. Non vuole piú pensare all'infanzia degli orrori. Non vuole piú pensare a sé stessa come la Ragazza A, quella che era riuscita a scappare. Ma quando molti anni dopo sua madre muore lasciando la vecchia casa in eredità, la voragine del passato si spalanca di nuovo sotto i suoi piedi. Lex vorrebbe trasformare l'edificio in un luogo di pacificazione, ma per prima cosa deve fare i conti con i sei fratelli e con l'indicibile infanzia che hanno condiviso. Cosí, quella che comincia come un'adrenalinica storia di sopravvivenza e riscatto, diventa racconto di rivalità tra fratelli e alleanze ancestrali.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
Print ISBN
9788806247430
eBook ISBN
9788858436301
1.

Lex (Ragazza A)

Non mi conoscete, ma la mia faccia l’avete vista. Nelle prime foto ci tempestavano di pixel dalla vita in su: perfino i capelli erano oscurati, nel timore che qualcuno potesse identificarci. Presto però la storia si sgonfiò, e con essa i tentativi di proteggere il nostro anonimato; cosí diventò facile trovarci nei recessi piú malsani della rete. La foto piú popolare era stata scattata davanti a casa nostra in Moor Woods Road, un tardo pomeriggio di settembre. Eravamo tutti in fila, in ordine di altezza e con Noah in braccio a Ethan, cosí aveva voluto Padre. Piccoli pallidi spettri che strizzavano gli occhi alla luce violenta del sole. Alle nostre spalle la casa era illuminata dagli ultimi raggi, ma porte e finestre lasciavano indovinare il buio all’interno. Guardavamo l’obiettivo immobili. La foto doveva venire perfetta. Ma un secondo prima che Padre scattasse Evie mi strinse la mano e si voltò verso di me; nella foto, è proprio sul punto di dire qualcosa, mentre gli angoli della mia bocca cominciano a sollevarsi in un sorriso. Non ricordo cosa mi disse, ma sono abbastanza certa che dopo l’abbiamo pagata cara.
Arrivai alla prigione a metà pomeriggio. Durante il viaggio avevo ascoltato una vecchia playlist che mi aveva fatto JP, Have a great day. Senza la musica e il ronzio del motore, in macchina si fece bruscamente un gran silenzio. Aprii la portiera. Il traffico sulla statale si andava gonfiando, il rumore ricordava quello dell’oceano.
La prigione aveva rilasciato un breve comunicato in cui confermava la morte di Madre. La sera prima avevo letto diversi articoli su Internet: erano brevi e sommari e si concludevano tutti con qualche variazione dello stesso lieto fine. I piccoli Gracie, alcuni dei quali avevano rinunciato all’anonimato, stavano tutti bene o almeno cosí si credeva. Mi ero seduta su un asciugamano sul letto dell’hotel, circondata dai vassoi del servizio in camera, e mi ero fatta una gran risata. La mattina a colazione, insieme al caffè, c’era una pila di giornali locali: lí Madre figurava in prima pagina, sotto un accoltellamento avvenuto in un Wimpy Burger. Una giornata tranquilla.
Il pernottamento comprendeva la colazione a buffet, e mangiai di gusto fino a quando la cameriera venne a dirmi che in cucina dovevano cominciare a occuparsi del pranzo.
– C’è gente che viene a pranzo qui? – domandai.
– Oh, si stupirebbe, – replicò. Poi, con aria dispiaciuta: – Però non è incluso nel prezzo della camera.
– Va bene, – dissi. – Grazie. Era tutto ottimo.
Quando ho iniziato a lavorare la mia datrice di lavoro, Julia Devlin, mi ha detto che presto mi sarei stancata del cibo e dell’alcol gratis e mi sarebbe passata anche la passione per i vassoi ricolmi di invitanti tartine. E allora avrei smesso di puntare la sveglia in modo da poter fare colazione in albergo. Devlin aveva ragione su tante cose, ma su questa no.
Non ero mai stata in prigione, ma non la trovai diversa da come l’avevo immaginata. In fondo al parcheggio c’erano alte mura bianche sormontate da filo spinato. Alle loro spalle quattro torri sorvegliavano un fossato di cemento con una specie di fortino grigio al centro. Ecco dove si svolgeva la vita di Madre. Avevo parcheggiato lontano e dovetti camminare per una lunga fila di posti vuoti, passando dove potevo per le strisce pedonali. Nel parcheggio c’era una sola macchina oltre alla mia, con dentro una donna anziana che stava aggrappata al volante. Quando mi vide sollevò una mano, come se ci conoscessimo, e io la salutai di rimando.
L’asfalto stava diventando appiccicoso. Arrivai all’ingresso col reggiseno e la nuca umidi di sudore. Avevo lasciato la roba estiva nel mio armadio a New York. L’estate inglese me la ricordavo piú mite, e ogni volta che uscivo la vista di quel cielo sfacciatamente azzurro mi stupiva. Quella mattina ero stata indecisa su cosa mettermi. Avevo passato interi minuti mezza svestita davanti allo specchio. Non è affatto vero che esiste il look adatto a ogni occasione. Alla fine mi ero decisa per una camicetta bianca, jeans comodi, scarpe da ginnastica bianche immacolate e degli occhiali da sole orrendi. «Non sembrerò troppo felice?» avevo chiesto a Olivia mandandole una foto, ma era in Italia, a un matrimonio sulle mura di Volterra, e non mi rispose.
C’era una reception all’ingresso, proprio come in un comunissimo ufficio. La donna mi domandò se avevo un appuntamento.
– Sí, – dissi. – Con la guardia.
– Con la direttrice?
– Certo. Con la direttrice.
– Lei è Alexandra?
– Proprio io.
La direttrice mi aveva già avvertita che mi avrebbe raggiunta lei all’ingresso. – Il sabato pomeriggio il personale è ridotto. E dopo le tre non sono ammessi visitatori. Cosí potrai fare con calma.
– Sarebbe bello. Grazie.
– Non dovrei dirlo, ma sarebbe il momento ideale per un’evasione, – aveva chiosato.
Adesso la vidi venirmi incontro in corridoio. Avevo letto qualcosa su di lei in rete. Era la prima direttrice carceraria donna a capo di un istituto di massima sicurezza in tutto il paese, e dopo la nomina l’avevano intervistata diverse volte. Aveva intrapreso la carriera in polizia ai tempi in cui c’erano ancora i requisiti di statura, e lei era sotto di quasi cinque centimetri. Venne fuori però che l’altezza modesta non le impediva di fare la guardia carceraria, il che è del tutto illogico, ma per lei andava bene. Portava un tailleur blu elettrico – lo riconobbi dalle foto che accompagnavano le interviste – e delle scarpe dal taglio originale e raffinato che non poteva aver scelto lei, un po’ come se qualcuno gliele avesse consigliate per addolcire la figura. Credeva nella riabilitazione con tutta sé stessa. Ma aveva l’aria piú stanca che nelle foto.
– Alexandra, – disse, e mi strinse la mano. – Arrivo ora dalla sala visite. Venga.
Il corridoio era dipinto di un giallo scialbo, col battiscopa scheggiato e vecchi poster sulla gravidanza e la meditazione. In fondo c’era uno scanner con un nastro trasportatore dove bisognava mettere i propri oggetti personali. Armadietti d’acciaio alti fino al soffitto. – È una formalità, – disse. – Almeno non c’è la fila.
– Come in aeroporto, – commentai. Ripensai ai controlli a New York, due giorni prima: il portatile e il telefono in un vassoio di plastica grigia e tutti i trucchi dentro una busta trasparente e pulita. C’era un varco apposta per i passeggeri assidui e non ho mai dovuto fare la fila.
– Sí, la stessa cosa, – convenne.
Si svuotò le tasche sul nastro e passò attraverso lo scanner. Aveva un pass, un ventaglio rosa e una crema solare per bambini. – In famiglia abbiamo tutti i capelli rossi, – disse. – Non siamo fatti per questo clima –. Nella foto sul pass sembrava una ragazzina ansiosa di cominciare il primo giorno di un nuovo lavoro. Io non avevo nulla in tasca. La seguii attraverso il varco.
Anche dentro non c’era anima viva. Attraversammo la sala visite, coi tavoli e le sedie di plastica imbullonati al pavimento. In fondo c’era una porta di metallo senza la finestrella; da qualche parte lí dietro, pensai, c’erano Madre e il ridottissimo mondo in cui aveva trascorso le sue modeste giornate. Passando toccai una sedia e m’immaginai i miei fratelli e le mie sorelle seduti lí in attesa che Madre li raggiungesse. Delilah era venuta varie volte e Ethan una soltanto, piú per un gesto nobile che per altro. Dopo aveva scritto un pezzo per il «Sunday Times» intitolato: I problemi del perdono. I problemi erano tanti e prevedibili.
Per l’ufficio della direttrice bisognava aprire un’altra porta. Accostò il pass al muro e si frugò nella giacca in cerca della chiave giusta. Ce l’aveva nel taschino, attaccata a un portafoto di plastica pieno di bambini dai capelli rossi. – Bene. Eccoci arrivate, – disse.
Era una stanza modesta, con buchi alle pareti e vista sulla statale. Lei doveva essersene resa conto ed era corsa ai ripari: aveva portato un’imponente scrivania di legno e una sedia da ufficio, e aveva anche trovato i fondi per due divani di pelle, che probabilmente usava per le conversazioni piú delicate. Appesi alle pareti c’erano i suoi diplomi e una mappa del Regno Unito.
– Noi due non ci conosciamo, lo so, – disse la direttrice. – Ma voglio dirle una cosa prima che arrivi l’avvocato.
Mi indicò i divani. Non mi piace stare seduta sul morbido mentre faccio una conversazione formale: non so mai che posizione prendere. Sul tavolo dinnanzi a noi c’erano una scatola di cartone e una busta sottile, marrone, con su scritto il nome di Madre.
– Spero che non le sembri poco professionale da parte mia, – disse la direttrice, – ma io mi ricordo bene di lei e della sua famiglia, tanti anni fa. I miei bambini erano piccoli, allora. Ho ripensato spesso a quei titoli, prima ancora di cominciare questo lavoro. È un settore in cui si vedono molte cose. Sia quelle che finiscono sui giornali, sia le altre. Dopo tutto questo tempo, ce ne sono alcune che riescono ancora a stupirmi. Sono poche, ma ci sono. La gente dice: come fai a stupirti ancora? Ebbene, mi rifiuto di smettere del tutto di stupirmi.
Prese il ventaglio da una delle sue tasche. Vedendolo da vicino, mi accorsi che sembrava un oggetto fatto da un bambino oppure da un detenuto. – I suoi genitori mi hanno lasciata di stucco.
Guardai dietro le sue spalle. Un raggio di sole si stava insinuando dalla finestra, presto la luce l’avrebbe inondata.
– È terribile quello che vi è successo, – disse. – Speriamo tutti che possiate trovare un po’ di pace.
– Non dovremmo parlare del motivo per cui sono qui? – dissi.
L’avvocato stava aspettando fuori in corridoio, come un attore in attesa del segnale per entrare in scena. Portava un completo nero con una cravatta sgargiante, e sudava. Quando si sedette il divano di cuoio scricchiolò. – Bill, – disse alzandosi di nuovo per stringermi la mano. Un alone grigio gli si stava allargando fin sul colletto. – Mi pare di capire che è avvocato anche lei, – aggiunse subito. Era piú giovane di quanto mi aspettassi, perfino piú giovane di me; dovevamo essere stati all’università negli stessi anni.
– Solo diritto societario, – dissi per tranquillizzarlo. – Non ne so niente di testamenti.
– Bene, – disse Bill. – Per quello ci sono io.
Sorrisi con fare incoraggiante.
Poi Bill aprí la scatola di cartone. – Questi sono i suoi oggetti personali, – disse. – E questo è il testamento.
Mi allungò la busta sul tavolo e io la aprii. C’era scritto, nella calligrafia tremula di Madre, che Deborah Gracie nominava sua figlia, Alexandra Gracie, sua esecutrice testamentaria. Poi c’era un elenco dei suoi possedimenti: gli oggetti conservati nella prigione di Northwood; le ventimila sterline circa che aveva ereditato dal marito, Charles Gracie; la proprietà situata a Hollowfield, in Moor Woods Road 11. Tutto questo doveva essere diviso equamente fra i figli sopravvissuti di Deborah Gracie.
– Esecutrice… – ripetei.
– Sembrava sicura che lei fosse la persona piú adatta, – replicò Bill. Mi venne da ridere.
Ecco Madre nella sua cella di prigione, che gioca con i suoi lunghi lunghissimi capelli biondi; cosí lunghi che le arrivano alle ginocchia e può sedercisi sopra per farci ridere. Sta mettendo nero su bianco le sue ultime volontà assistita da Bill, che si sente un po’ in colpa, che è contento di aiutarla, che suda, anche ora. Ci sono tante cose che vorrebbe chiederle. Mamma tiene la penna in mano, trema di studiato smarrimento. Esecutrice, le spiega Bill: si tratta di un grande onore. Ma comporta anche un sacco di burocrazia, bisognerà mettersi in contatto coi vari beneficiari. Mamma, col cancro che le sobbolle nello stomaco e solo pochi mesi di vita per fotterci tutti quanti, sa benissimo chi nominare.
– Non è obbligata ad accettare l’incarico, se non vuole, – disse Bill.
– Lo so, – dissi, e Bill drizzò d’istinto le spalle.
– Io posso aiutarti. È un patrimonio molto modesto. Non ci vorrà molto. La cosa importante, da non dimenticare mai, è di tenere sempre aggiornati gli eredi. Qualunque passo tu decida di compiere, chiedi sempre prima il consenso dei tuoi fratelli e delle tue sorelle.
Avevo il volo per New York prenotato per il pomeriggio dopo. Già pregustavo la frescura della cabina, i menu immacolati che venivano distribuiti subito dopo il decollo. Mi vidi comodamente seduta a godermi il viaggio, le giornate precedenti già cancellate da qualche drink preso in aeroporto, il risveglio nel caldo pomeriggio di New York, la macchina nera che mi aspettava per portarmi a casa.
– Devo pensarci, – dissi. – Non è un buon momento.
Bill mi porse un foglietto di carta a righe sottili, col suo nome e numero di telefono scritti a mano. I biglietti da visita non erano previsti nel budget del carcere. – Aspetto tue notizie, allora, – disse. – Se non vuoi farlo, potresti suggerirmi a chi rivolgermi. Uno degli altri eredi, magari.
Pensai a Ethan, Gabriel, Delilah. – Forse, – dissi.
– Intanto, – fece Bill sollevando la scatola di cartone con una mano, – questi sono i suoi oggetti personali qui a Northwood. Puoi portarli via adesso.
La scatola er...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La Ragazza A
  4. 1. Lex (Ragazza A)
  5. 2. Ethan (Ragazzo A)
  6. 3. Delilah (Ragazza B)
  7. 4. Gabriel (Ragazzo B)
  8. 5. Noah (Ragazzo D)
  9. 6. Evie (Ragazza C)
  10. 7. Tutti noi
  11. Ringraziamenti.
  12. Il libro
  13. L’autrice
  14. Copyright