Tutto un rimbalzare di neuroni
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Tutto un rimbalzare di neuroni

  1. 152 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Tutto un rimbalzare di neuroni

Informazioni su questo libro

Cosa resta della scuola senza le levatacce al mattino, l'odore di ormoni, i panini nello zaino? Senza i litigi nel cambio d'ora, gli sguardi in tralice, le corse fuori appena suona la campanella? Eppure la scommessa è sempre la stessa: riuscire a raggiungere gli allievi, a toccarli, anche se sono ben nascosti dietro una videocamera spenta, piú simili a impiegati in smart working - soli, assonnati, inafferrabili. Insegnare in Dad significa provarci dieci volte di piú, sperando che duri il meno possibile. Un viaggio spericolato e vivissimo nel controsenso della scuola a domicilio.«Uno era sotto le coperte, una in cucina con lo sfaccendare astioso della madre. Dietro a una è passato il padre in canottiera. Un altro camminava per tutta la casa, forse in cerca di rete, forse in preda a un raptus di iperattività».

«Eccola qua, la mia 3H: due anni e mezzo di duro lavoro sulle dinamiche di gruppo e sul rapporto tra adulti e pari, e si era ridotta a una fila di oblò». La prima settimana sembrava una vacanza. Poi abbiamo capito che i libri di testo non li avrebbe aperti piú nessuno, e quegli allievi rintanati dietro uno schermo andavano agguantati in un altro modo. Un mese dopo, i ragazzi si collegavano dai vicoli del quartiere, dal letto, o correndo in riva al mare. «Ministro, mi si sono ristretti gli alunni!» La didattica a distanza è quello che succede quando si toglie alla scuola la concretezza dei corpi, uno spazio reale in cui incontrarsi, scontrarsi, condividere, crescere. È la «scuola meno», dove al posto di sorrisi e bronci ci troviamo a guardare ologrammi e file. Per di piú, in una classe difficile di una zona difficile non è detto che i ragazzi abbiano un computer: si arrangiano col telefono, quando va bene. Magari quello della mamma, magari seduti accanto al nonno con l'Alzheimer. E per loro non andare a scuola significa perdere la prospettiva di un altro mondo e un futuro possibile. Con la rabbia e l'ingegno di chi fa il mestiere piú bello e piú usurante di tutti, Vanessa Ambrosecchio ci racconta cosa significa insegnare: non stancarsi di provare, stanare gli allievi uno a uno, scommettere su di loro, inventarsi ogni giorno domani.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
Print ISBN
9788806250249
eBook ISBN
9788858436516
Capitolo primo

Disconnessa dal presente

– Pro?… Pro!
– Mi ha buttato fuori!
– A me non mi fa entrare…
– Pro?
Mi chiamano. Prima mi chiamavano in modo diverso. Era piú lungo, prima. Non dico l’appellativo intero, non esageriamo. In classe si arrivava a ben quattro sillabe, però: quattro su cinque, la maggioranza assoluta. Quasi un plebiscito. Pro-fe-sso-ré. Cosí mi chiamavano. Di lusso. Negli ultimi tempi si era ristretto a prof, ma ci sta, è una terza, succede sempre cosí, cresce la confidenza, loro si sentono piú grandi, le distanze si accorciano. E poi «prof» salva le apparenze, è ancora l’abbreviazione di un titolo professionale: certo, si scambia volutamente il formale col familiare, ma fosse anche per questa tenera ironia, «prof» è ben accetto. Perché è utilizzato per affetto. Per chiederne, o averne conferma.
Adesso però hanno abbreviato ulteriormente. «Pro», mi chiamano. Hanno abbreviato, e non credo per le stesse motivazioni. Le distanze non si sono accorciate di piú. In questi mesi, al contrario, si sono dilatate, si sono talmente stirate da assottigliare al massimo il filo che ci lega. «Pro», poi, mi sa di iPad, di Mac: sarò influenzata dall’abuso di mezzi tecnologici cui siamo stati costretti dagli ultimi eventi. E sbaglio, perché dove insegno io i ragazzi non hanno i Mac. Non hanno neanche i pc. I miei alunni fanno tutto col telefono, quando ce l’hanno. Se no, col telefono di mamma o papà. Quando ce l’hanno. Il telefono, la mamma, o il papà.
– Pro-ò?
– Ci sei?
– Pro, di nuovo mi ha buttato fuori!
Chi, avrei chiesto in classe. Chi è stato? E giú valanghe di accuse e di giustificazioni, recriminazioni e insulti. Ci avremmo passato l’ora a scoprire il colpevole: ci sarebbero stati un paio di imputati, l’accusa e la difesa avrebbero sciorinato le loro arringhe e io, il giudice, avrei emesso la sentenza, ma solo alla fine di un sofferto dibattimento. Una sentenza salomonica, s’intende, per ricomporre, da buona Eumenide, l’armonia sociale. Ma adesso non è una persona fisica, l’accusato. Non l’ho capito subito, all’inizio della Dad.
– Chi? Chi è stato!
Un fattore X. Innominabile. Indefinibile secondo categorie umane. Non percepibile attraverso i cinque sensi. Un ente oltreumano, forse.
– Mi butta sempre fuori.
– E a me non mi fa entrare.
– Ma chi? Chi fa questo?
– Buh. Il telefono…
– Internet…
– La linea…
– Coso… Skype.
Un nemico nuovo, ecco. Sono tanti i miei nemici, a scuola. I libri che si spiegano come libri chiusi, diciamo dalle nostre parti. Quelli che prevedono compiti talmente difficili che agli insegnanti danno il volume con le soluzioni: l’unica differenza rispetto alle parole crociate è che non sono capovolte. Facile, direte voi. Ma quando ho prestato il libro a un alunno e quello ha protestato: «Non vale, prof. Tu ci hai le risposte!» mi sono vergognata come una ladra. Oppure il dvd che si impalla nel bel mezzo di un film, dopo che ci ho messo mezz’ora a farli sedere e a convincerli che ne varrà la pena. O il bidello che mi tende la circolare urgentissima, dopo che ci ho messo mezz’ora a farli sedere e a convincerli che ne varrà la pena. O la prova di evacuazione, dopo che ci ho messo mezz’ora a farli sedere e a convincerli che ne varrà la pena. O l’assegnazione di alunni «divisi», cioè provenienti da una classe dove il docente manca (dopo che ci ho messo mezz’ora a farli sedere e a convincerli che ne varrà la pena). «Divisi», già. È gergo scolastico. Lo dicono gli alunni. Dicono proprio cosí. «Che ci fate voi qui?» chiedi, se li trovi in una classe che non è la loro. E loro: «Siamo divisi». Finiamo per dirlo anche noi insegnanti: «Dove sono quelli di 3F?» «Sono divisi». O «li hanno divisi». O peggio ancora: «Dov’è Rossi Mario?» «È diviso in 3C». Che ti fa pensare che troverai soltanto testa e tronco di Rossi Mario in 3C, gli arti rimasti nella sua classe al fine, possibilmente, di ridurlo all’innocuità.
Ora però tutti questi nemici si sono dileguati. Non ci sono piú bidelli o alunni divisi a interrompere la lezione. Gli alunni, peraltro, sono entità immateriali, ormai, simulacri di se stessi, ologrammi di alunni, e non potremmo agguantarli né dividerli, neanche volendo. E pure i libri chiusi si sono dileguati. Sono chiusi materialmente, e definitivamente. Sono cioè perfettamente coerenti con se stessi.
Dopo le prime due settimane di Dad, in cui ci abbiamo provato a lasciare pagine di lezione, ad assegnare esercizi dal testo, abbiamo compreso che era una partita persa. Gli alunni hanno adottato una sorta di muto dissenso, di resistenza passiva. Chiedevo e richiedevo di prenderlo, il testo di antologia o quello di grammatica, avremmo letto insieme. Non lo trovo, era la risposta piú frequente. Data con naturalezza, con assoluto candore, senza il minimo bisogno di giustificarsi. Chiusa la scuola, chiusi i libri, come in vacanza o dopo gli esami.
Lo dicono sempre, i miei alunni, arrivati in terza media: Dopo gli esami brucio tutti i libri! Con una convinzione cosí appassionata che te li vedi davanti, quei piccoli falò, una scena di sapore bradburyano che la dice lunga sulla bontà del lavoro che sei riuscita a fare.
Morta e sepolta la scuola, dunque, e i libri gettati in quella fossa in cui la nostra vita di prima si è trasformata di colpo in passato, due mesi fa. Perché la scuola è morta e sepolta. La scuola di prima. Quella che facciamo adesso, non dico che è buona o cattiva. Dico che è un’altra cosa. È un’altra scuola, ecco. E gli alunni lo hanno capito prima di noi: via i libri e via i quaderni.
All’inizio ha avuto il sapore della rivoluzione. Certo, le rivoluzioni vengono dal basso, questa assomigliava di piú a un meteorite. Per la portata dell’impatto, oltre che per l’imperscrutabile fortuità dell’evento. All’inizio, ha avuto soprattutto il sapore dell’imperscrutabile colpo di culo.
Lo ripetevano ogni mattina gli alunni, nella scuola di prima. Entrando a uno a uno in classe, passo strascicato, occhi gonfi, le teste coricate sui banchi: Ma perché ogni mattina? Perché cosí presto? Perché non finisce di giovedí la settimana? O di mercoledí, non ci offendiamo, dicevano. Ma a che ora andate a letto? chiedevo io. Alle dieci, rispondevano sbattendo ciglia innocenti. Ed è la pura verità, vanno a letto alle dieci. Salutano, spengono la luce. I genitori pensano di esserseli tolti dai piedi. Loro si chiudono in camera, si infilano sotto le coperte. E restano davanti al telefono fino alle tre.
Per cui la scuola chiusa, la vacanza fuori dal conto è sembrata un miracolo, all’inizio, una vittoria alla lotteria di quelle che ti cambiano la vita. Un biglietto omaggio per il Paese dei Balocchi, ma meglio ancora di com’è andata a Pinocchio, perché alla guida non c’era l’Omino di burro. C’erano loro: i genitori, i prof, il preside, il ministro e il presidente del Consiglio – neanche la fatica di secernere un po’ di senso di colpa. Ci si andava tutti insieme in gita scolastica a quel paese, e passiamo a prendere il Grillo parlante che viene a fare quattro salti anche lui!
Cosí l’inizio è stato goliardico, baccanalesco. Quando scrivevo qualcosa nella chat alle undici o a mezzogiorno, buio. Nessuna risposta per ore, neanche dai piú diligenti. Finalmente alle sette di sera qualcuno sbadigliava un «ok», «okok» quando era particolarmente in forma. Dalle nove in poi si scatenava il carosello. Tutti a chiedermi come entrare su WeSchool, come creare l’account, come fare quel dato compito, e giú a tempesta messaggi vocali.
Una mattina ho scritto alla rappresentante dei genitori. «Dove sono tutti», le ho chiesto. «Forse dormono», mi ha risposto mezz’ora dopo, di certo sbadigliando anche lei. Infatti: «Deve capire, – ha aggiunto poco dopo, – deve capire che facciamo un po’ tardi per ora». Dovevo capire, ecco. Colpa mia che non capivo. Quell’inatteso prolungamento delle vacanze di Carnevale, Ceneri comprese, assomigliava tanto al Natale. Li vedevo giocare a baccarà e a settebello fino all’alba, mangiucchiando frutta secca e dolciumi in allegra compagnia. E io nella mia cella di clausura a svegliarmi come quando andavo al lavoro, a dannarmi al pc per preparare materiali e andare a letto con le galline per essere lucida l’indomani. «Deve capire, – le avrei risposto, – che io vivo esattamente come voi, genitori anziani, famiglia a carico, spesa da fare, le file al panificio: preferirei lavorare con la luce del sole». Ma non ne ho fatto niente. Dovevo capire, aveva ragione lei. Il mio mestiere, e dunque il mio dovere, lo capisco meglio ogni anno che passa, è appunto questo, mi piaccia o no. È capire. Capisco che devo capire. Vi sbagliate a pensare che siano i ragazzi a venire a scuola per capire. A capire, a scuola, siamo noi. Prima capiamo noi, poi loro. Se noi prof capiamo, capiranno anche loro. Ci piaccia o no.
– Pro! Ci sei?
– Mi ha mutato!
– Pro, ti ha mutato pure a te!
È l’ente supremo del web a tirarci questi scherzi da prete. Ogni tanto ci «muta». Non nel senso di una trasformazione genetica o di un radicale cambiamento della personalità: nel senso che ci riduce al silenzio, ci disattiva il microfono, via. Il fatto è che, a seconda della zona in cui risiedono gli alunni o delle fasce orarie, la copertura di rete non regge il carico di tutte quelle immagini e voci che si rincorrono per l’etere sopra l’Italia. E tirannicamente, lui, l’ente supremo, decide di economizzare. Taglia sull’audio, per cominciare. O impalla il video, e tu vedi uno che stava parlando congelarsi in un fotogramma mentre la sua voce fluida si dipana. È un po’ come nei collegamenti via satellite in televisione: l’immagine che si sgrana in quadratini, o la voce e il movimento delle labbra che vanno a due velocità. Mi sembrano un po’ sulla luna, i miei alunni. Non mi sorprenderebbe vederli in piena lezione levitare verso i soffitti delle loro stanze, coi piedi all’aria. Mi sembrano molto piú distanti di quanto non siano materialmente, ecco. Nella Dad, come la chiamano, certe distanze si allungano.
Poi, se proprio esageri ad ascoltare e parlare insieme, ti butta direttamente fuori. Ma non è solo il tirannico ente supremo, questo va detto. A volte sono loro, i «partecipanti». A volte uno di loro improvvisamente sparisce e riceve un tenero messaggino in cui un’emoticon con la faccia da vittima illustra la frase «un partecipante ti ha rimosso». C’è qualcuno, insomma, qualcuno che è impossibile smascherare, che trascorre la lezione a buttare fuori gli altri, persino i prof. È successo anche a me.
Colpa mia, naturalmente. Avevo iniziato a rimproverarli. Perché non facevano i compiti, perché non mi mandavano le schermate degli esercizi, perché non rispettavano le scadenze. Cosí qualcuno mi ha rimosso. Sono rientrata subito cercando di ignorare la provocazione, e dopo due minuti di omelia di nuovo clic, mi ha rimosso. Non riuscivo a completare, che dico, a iniziare la mia minaccia di colloqui coi genitori o valutazioni al ribasso, che quello mi rimuoveva. E io clic, rientravo. E lui clic, mi rimuoveva, e io clic, e lui clic, sempre piú freneticamente. Era una sfida all’ultimo clic, una specie di avvilente videogioco con la gazzarra degli altri in sottofondo che protestavano perché non si riusciva a fare lezione. Ero furiosa, naturalmente. Ero furiosa perché eravamo ad armi pari.
Ma anche stavolta, dovevo capire. Capire l’irresistibile ebbrezza che dà esercitare potere su un potente. Ricordate Tonino l’invisibile? Chi non ha mai desiderato essere invisibile e fare tutto quello che è vietato? Te la ricordi la professoressa di Matematica alle medie? Quella che non doveva volare una mosca, e se mai fosse volata, la sventurata, sarebbe caduta stecchita per terra sotto il suo sguardo? Di’ la verità, non l’avresti volentieri «rimossa» anche tu?
– Pro? Ma che, ti hanno buttato fuori di nuovo?
Ringrazio mentalmente per la solidarietà. No, non mi hanno buttato fuori stavolta. Sono io che sto zitta. Sto zitta e li ascolto.
– Pro…
Non arrivano piú neanche alla f, non gliela fanno. La f di «prof» è già troppo fiato: una fricativa, uno spreco di ossigeno. Sono stanchi, i miei alunni. Non potevano prevederlo all’inizio. All’inizio era sempre domenica.
Che fate, gli chiedevo. Mangiare, e la play. Chissà mangiare cosa, mi chiedevo io, che fare la spesa è cosí complicato. Ma le loro mamme sfornano dolci e pizze ogni ora, non insegnano, le loro mamme. Le loro mamme hanno trascorso la quarantena a cucinare. Io ho trascorso la quarantena a inseguire le loro mamme, per inserirle nel registro elettronico, per richiedere i tablet in comodato d’uso, per far firmare la liberatoria sulla privacy. Ma non era colpa loro se non rispondevano, poi ho pensato: avevano le mani in pasta!
Ora però sono stanchi persino di mangiare. Sono stanchi della loro vita. Hanno una strana vita, i miei alunni, da quando è incominciata la Dad.
– Pro, ma… ci sei?
Cos’è la Dad? Darne una definizione non è facile quanto scioglierne l’acrostico. Che potrebbe anche essere Didattica a domicilio, o Docente attacca discente o Discente ammazza docente. La Dad è il risultato di una sottrazione: è il «resto», come si dice in matematica. Il minuendo è la scuola cosí come la conosciamo: aule, banchi, quaderni e casino. La Dad è la scuola meno… e comincia la lunga lista dei sottraendo: meno aula, meno finestre, giardino, androne; meno levatacce e pomeriggi (per le scuole dove si fa il pomeriggio); meno trincee di zaini, meno tonfo di libri sui banchi, meno scroscio di pagine; meno occhi gonfi, meno cappucci tirati sugli occhi, meno unghie sporche e capelli grassi, meno fiato di sonno, meno ascelle, soprattutto; meno odore di gomme e matite misto a quello delle merendine confezionate, meno carta di merendine confezionate, meno pipí per terra nei bagni (anche quello dei prof); meno pugni, schiaffi, pacche, sberle; meno infortuni sul lavoro (e sullo studio applicato dell’Attività motoria), meno ghiaccio secco, meno pianti, meno genitori urlanti; meno «io con lui no», meno «si prende tutto il banco», meno linee tracciate con la riga della «mia metà banco»; meno lavori di gruppo, meno liti di gruppo, meno «ora faccio venire a mio padre»; meno avventure in autobus, meno «se facciamo un incidente muore solo il conducente»; meno risate; meno ore saltate facendo saltare i nervi alla prof; meno «ci vediamo fuori», meno «ma ti posso fottere a legnate anche qui»; meno bulli, meno vittime, meno circle time; meno polemiche infinite perché ho assegnato un esercizio in piú; meno «possiamo fare la festa, prof?»; meno tombola e panettone a Natale, meno pizza e patatine a fine anno; meno Lim, meno Lim usata a tutto volume per i balli di gruppo, meno Lim che in un anno ha funzionato solo per i balli di gruppo; meno «questa lettera è per te, prof» e poi non è una lettera, è un foglio di quaderno con un grande TVB.
È per questo che i miei alunni, adesso, non fanno una vita da alunni. Fanno una vita da impiegati. In smart working, per giunta. Si alzano al mattino, occupano la postazione, entrano in piattaforma per tre quattr’ore al giorno, spesso senza accendere microfono e webcam per non sovraccaricare la linea, si sorbiscono le tirate de...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Tutto un rimbalzare di neuroni
  4. 1. Disconnessa dal presente
  5. 2. «Si poteva fare meglio questa classe»
  6. 3. Distanti e dispersi
  7. 4. Dispersi e sperduti
  8. 5. La scialuppa
  9. 6. Didattica a domicilio
  10. 7. Messaggistica
  11. 8. Zitta devo stare
  12. 9. Connessa col passato
  13. 10. Gli esami
  14. 11. Connessa con un sogno
  15. Nota
  16. Ringraziamenti
  17. Il libro
  18. L’autrice
  19. Della stessa autrice
  20. Copyright