A Napoli sono ritornato tante volte. E ogni mio ritorno era pieno di speranza e di paura. Ognuno è stato un tentativo di espiazione, di ritrovamento e di perdono. A Napoli non sono mai dovuto andare in cerca dei vecchi amici. Prima o poi mi riconoscevano e mi lanciavano cenni e grida attraverso le piazze affollate: mi correvano incontro, mi abbracciavano, mi riempivano di domande e finalmente mi rimproveravano per essere stato via tutto quel tempo.
Cosí, in un tiepido dopopranzo settembrino del 1983, Giuseppe, anzi Peppe, mi ha trovato in via Toledo mentre ero perso davanti alla vetrina di un negozio. Giuseppe era uno dei figli di Elena e Stefano e sapeva che ero in città perché ero già andato due volte a trovare i suoi, ma senza mai incontrarlo. L’ho subito riconosciuto per via del dolce sguardo chiaro negli occhi increduli, derelitti, e dei capelli biondastri a spaghetto. E mi sono ricordato di quando, nel bel mezzo delle violente liti familiari, si nascondeva fra le pieghe della tovaglia e veniva ad aggrapparsi timidissimo a un lembo dei miei pantaloni. Allora me lo mettevo in braccio e lui si addormentava profondamente, mentre io riprendevo a chiacchierare con suo padre. Ci siamo stupiti entrambi di quanto fossimo cambiati in otto anni di separazione e ho ripensato all’ultima volta in cui l’avevo visto.
All’inizio di maggio del 1975, poco prima di andarmene da Napoli, mi ero reso conto di non vedere Peppe da un paio di settimane. Il mio rapporto con Elena e Stefano era già teso – ero intervenuto mentre picchiavano selvaggiamente l’altro figlio, il paria, Pasquale, dopo che era tornato dall’ospedale. Avevo paura di sembrare troppo indiscreto se mi mettevo a chiedere anche di Peppe. Tutto sommato ero il loro figlio «adottivo», dovevo la mia accettazione e integrazione nella vita del quartiere soprattutto al loro calore e alla loro generosità. Ma siccome sarei partito a breve, ho comprato un regalo per il mio «fratellino» e al solito pranzo domenicale ho chiesto a Elena e Stefano dov’era, se non fosse ammalato. – Macché! Sta benissimo, Peppe. Anzi, oggi pomeriggio lo andiamo a trovare. Dài, Tommaso! Vieni con noi! – E cosí li ho accompagnati in un infinito viaggio in macchina lungo la strada tortuosa verso Pompei, attraverso le cittadine sovraffollate, cementificate, accalcate, della stretta lingua di terra che separa il Vesuvio dal mare. Stefano ha svoltato in una strada secondaria circondata di vigne e limoneti le cui giovani foglie barbagliavano di un intenso verde smeraldo, sotto la fresca e luminosa mano di giallo che il sole ci stendeva sopra.
Ci siamo fermati davanti a un collegio. Stefano ci ha fatto strada fino a una grande palestra dove almeno una cinquantina di bambini correvano o giocavano a pallone. Ho subito riconosciuto una serie di facce che avevo visto nelle viuzze e sulle scale di Fontana del re e in quell’attimo mi sono reso conto di aver mancato di annotare nel mio taccuino la loro assenza. Stefano ha individuato Peppe in mezzo alla folla e il bambino è venuto a salutarci. Non sorrideva. Elena aveva lasciato a casa le magliette che gli avevo comprato e ha cominciato a scartare, invece, un pacchetto con gli avanzi del nostro pranzo di prima. Peppe li ha mangiati senza entusiasmo. Io mi sono preoccupato. Cosa ci faceva qui? Che aveva combinato? Mi sono inginocchiato accanto a lui e gli ho chiesto come stava, ma lui mi ha restituito uno sguardo talmente vuoto che ho pensato: «Non mi riconosce nemmeno». Ho provato a prendergli la mano, ma si è ritratto infastidito. I suoi genitori si comportavano in modo diretto e disinvolto. Nel giro di venti minuti stavamo tornando a casa in macchina. Lo Stato, mi ha spiegato in seguito Stefano, pagava la retta per il bambino e passava anche un piccolo mensile ai genitori. A Peppe l’esperienza avrebbe fatto bene. Imparava l’italiano, e un mestiere.
Il ragazzo che mi ha riconosciuto in via Toledo era alto, magro, vestito semplice ma alla moda, con bei lineamenti marcati e capelli castani tagliati in modo accurato. Adesso aveva diciotto anni. Lavorava come meccanico e con le ragazze ci sapeva fare. Ci siamo avviati verso l’ultimo piano dalle parti di piazza Dante che avevo affittato per quell’anno; Peppe mi ha parlato di suo padre e dell’inverno precedente, che era stato duro perché i traslochi non arrivavano mai e per peggiorare le cose qualcuno aveva sgraffignato dal portafogli di Stefano centocinquantamila lire. Peppe stava risparmiando per mettere da parte la somma rubata e regalarla ai suoi.
Quella che chiamavo «casa mia» era in realtà l’ex sala da pranzo di un palazzone nobile del Settecento. Brandelli di carta da parati a rilievo in finto broccato d’oro stavano ancora attaccati ai muri, un lampadario bisunto pendeva dal centro del soffitto. Termiti e formiche si appropriavano sempre piú della boiserie da cui usciva un vago ma persistente odore di marcio e di coppale, che contro le mie aspettative con il passare dei mesi mi ha dato sempre piú fastidio. Ma Peppe era evidentemente impressionato dagli arredi nobili, per quanto in rovina. Gli ho offerto un bicchierino di cognac e gli ho domandato dei fratelli, di Ciro che era in prigione e di Pasquale, «scappato» in Germania. Mi ha raccontato di quando era andato a trovarlo. Lavorava a Düsseldorf in una pizzeria e si era adattato bene alla vita lassú. Al contrario del fratello, però, Peppe non era riuscito né a imparare la lingua né a sopportare il disprezzo dei tedeschi nei confronti dei lavoratori immigrati. Comunque, ci era rimasto abbastanza per «beccarsi un foglio giallo»a e passare qualche settimana in un ospedale tedesco a curarsi un brutto attacco di gonorrea. Peppe mi ha chiesto ancora cognac. Pochi minuti dopo si è addormentato sul materasso che avevo steso a terra a mo’ di letto. Un’ora dopo si è svegliato senza sapere dove si trovava. Appena si è ripreso mi ha chiesto un’aspirina e se gli potevo prestare cinquemila lire, promettendo di tornare presto a trovarmi.
Nell’autunno del 1983 Peppe è venuto da me diverse volte. Arrivava nel tardo pomeriggio, quando sapeva di trovarmi, per un bicchiere e il suo solito pisolino. Prima di andarsene mi chiedeva sempre qualche piccolo prestito, che non mi avrebbe mai ridato, lo sapevamo entrambi. Una volta si è portato dietro una ragazza, una bella bionda nordica, per quanto trasandata, scappata via da un padre che la «maltrattava» e senza un posto dove stare. Mi ha chiesto se lei poteva usare la vasca del bagno in comune in fondo al corridoio per darsi una sistemata e lavarsi i vestiti. Poche settimane dopo l’ho rivista a tarda notte, al porto, sotto un lampione. Alla luce cruda del neon, il suo rossetto rosso era cosí carico e pastoso da sembrare il disegno a pastello di una bambina.
Il 10 novembre Peppe si è fatto vedere, da solo, di mattina. Gli ho domandato se avesse bisogno di soldi. No. Era venuto a confessare. Confessare cosa? Non riusciva a dirlo. Allora mi sono fatto accompagnare giú per via Toledo, verso la galleria, a prendere un caffè ai tavolini fuori. La folla sui marciapiedi sembrava composta da tanti robot, come sempre a Napoli e a New York. Io mi godevo il sole invernale e il frescolino corroborante che quasi incitava a farsi largo tra la folla. Peppe ha strizzato gli occhi e ha affondato le mani nelle tasche del giubbotto. Era pallido e sbattuto. Ho pensato che avesse qualche problema con la sua ragazza. Si è fermato in mezzo alla strada, immobile e muto. – Ma perché sono nato, Tommaso? – Cosa gli potevo rispondere? Dove la trovavo una frase che non sembrasse trita o pontificante? Ma prima che riuscissi ad aprire bocca è sbottato: – Sono un drogato, Tommaso. Un tossico!
All’improvviso ho smesso di sentire il frastuono della strada, ascoltavo solo Peppe e la sua storia. Aveva cominciato poco dopo il terremoto dell’Ottanta, a sedici anni, quando già non era piú all’Istituto. Aveva sviluppato subito una pesante dipendenza, doveva iniettarsi un grammo e mezzo di eroina al giorno, oltre a Valium e altri «calmanti» in dosi massicce. Mi ha descritto l’effetto della droga. Era bello, mi ha detto, – andare in giro con le cuffie, la musica sparata in testa, la gente piccola, minuscola, le luci dei semafori e le insegne che si fondono e poi ti esplodono tutto intorno brillantissime. È davvero come se riesci a vedere tutta Napoli, con la gente e i fatti e le vite e gli amori nascosti agli occhi dei normali. Ti sembra di poter guardare la città che gira e dondola e balla proprio davanti agli occhi tuoi –. Si era illuminato, sembrava in preda a una visione mistica. Ma poi mi ha raccontato dell’orrore di sentirsi tanto imbambolato, inerte a qualsiasi sensazione. – Non provo niente, Tommaso. Niente. Proprio niente di niente di niente! – Mi ha raccontato di quanto tenesse a una quattordicenne con cui si drogava, proprio all’inizio. Una sera, tremante e disperata, lo aveva supplicato di andare a rimediare una dose. Quando era tornato con la droga lei era fredda, morta per un’overdose procurata da un buco che si era fatta attingendo alla sua scorta segreta.
Peppe è rimasto piacevolmente sorpreso dal mio atteggiamento non giudicante, calmo, cinico e distaccato. Mi ha descritto una quantità di sostanze, discutendo con autorevolezza ospedaliera i dosaggi (psicotropi) raccomandati, gli effetti benefici e collaterali. Era evidentemente molto bene informato e ammirato dei progressi della ricerca farmaceutica reperibili sul mercato per l’asporto, l’anestetizzazione e l’escissione dell’animo umano.
– Quanto ti costa tutto questo?
– Mi servono almeno centocinquantamila lire al giorno, se voglio farmi come si deve. Faccio scippi. Faccio avvicinare un frocio e poi lo ammazzo di botte e gli rubo il portafogli. Oppure vado su al parcheggio delle coppiette e gli punto una pistola addosso mentre sono nel pieno della cosa. Non ne vado fiero. Spiego sempre a tutti che sono un tossico e che mi servono i soldi. Lo so, ho il sangue marcio. Quest’anno sono andato già tre volte in overdose. L’ultima mi hanno attaccato a una macchina per lavare il sangue e sono rimasto lontano dalla roba per un mese e mezzo. Adesso sto ancora pulito, ma non penso che durerà. L’altro giorno ho spaccato la faccia al mio capo perché ha alzato la voce con me. Hai capito, Tommaso, se non mi buco do di matto. Scoppio. Ma se ricomincio… Bisogna che torno in ospedale. Solo che l’ultima volta mi hanno sbattuto fuori. Ma mi devono lavare il sangue un’altra volta. Oppure ci sta questo prete al rione Sanità, mio fratello Gennaro lo conosce, dice che ti toglie tutti i diavoli da dentro il sangue.
– Un esorcista?
Ha annuito. Poi si è tirato su le maniche del giubbotto e mi ha fatto vedere l’infinità di cicatrici che aveva sulle braccia bucherellate. Ho storto la bocca, ma contemporaneamente ho avuto la netta sensazione che volesse suscitare il mio disgusto, come se in un certo senso il suo io si rafforzasse, se lo riconoscevo in quanto vittima.
Ho provato a convincerlo che aver saputo riconoscere gli aspetti distruttivi della sua dipendenza era già un segno di forza interiore. Camminando, gli ho ricordato i tanti anni passati in istituto e gli ho raccontato del nostro ultimo incontro, di come mi era sembrato anestetizzato già allora, del fatto che è un atteggiamento tipico di chi sta molto male e cerca di proteggersi. Lui mi ha chiesto perché i suoi genitori, se gli volevano bene, lo avevano mandato via, e io non ho saputo cosa rispondere. Gli ho detto che il loro bene nei suoi confronti era reale, solo che era stato «sotterrato», anzi, «sepolto». La metafora gli è piaciuta. È sembrato sollevato e in seguito mi ha parlato spesso dell’amore «sepolcrale» di sua madre e suo padre. Si è bloccato di nuovo lí per lí, a testa bassa in mezzo al marciapiede. Si stava sforzando di pensare, dopodiché mi ha domandato: – Ma perché, Tommaso, i padri sono cosí crudeli? – Gli ho ricordato tutto quello che avevano passato i suoi nel tentativo di crescere sei figli praticamente in povertà, e poi gli ho detto una bugia. Quando lui non c’era e io passavo qualche giorno a Napoli durante l’estate, gli ho detto, loro mi parlavano di lui in continuazione. Un lampo di gioia gli ha illuminato il volto, come prima quando era in estasi nel descrivermi gli effetti della droga. Gli ho offerto un caffè e gli ho chiesto se voleva uno yogurt. Non sapeva cosa fosse e ho provato a spiegarglielo. Ne ha assaggiato uno ai frutti misti, il piú dolce a cui sono riuscito a pensare, con due cucchiaini colmi di zucchero aggiunti da me. Cosí corretto gli è piaciuto da matti e allora gliene ho descritto gli effetti depurativi su stomaco e flusso sanguigno.
– Sai, Peppe, forse dovresti provare a rivolgerti anche a quell’altra mamma.
– Quale mamma?
– Lo sai, quella che sta piangendo proprio adesso per tutti i ragazzi perduti di Napoli.
Peppe mi ha guardato, sconvolto e immusonito. Si è aperto malamente la camicia per farmi vedere il petto vuoto, là dove un tempo aveva la catenina.
– Ecco quanto conta adesso per me, Tommaso.
Abbiamo ripreso a camminare in silenzio. Era turbato. Sapevo che stava ripensando alle mie parole. Mi ha chiesto quando ci saremmo rivisti. Era venuto spesso a cercarmi, mi ha detto, ma il portiere lo mandava sempre via. Gli ho raccomandato di non scordarsi di lasciarmi sempre un biglietto per darmi appuntamento e l’ho abbracciato infilandogli qualche banconota nella mano. Mi ha stupito rifiutandole, ma io ho insistito. Allora è scoppiato a ridere e mi ha detto che ci si sarebbe comprato un altro po’ di quello strano yogurt. Dall’austera scalinata di marmo della sede centrale del Banco di Napoli l’ho guardato correre scartando il traffico del mezzogiorno, finché è sparito dalla vista.
Per tutto il giorno e la sera ho ripensato alla fine che aveva fatto Peppe e alla domanda che mi aveva posto un altro ragazzo, tanti anni prima. «Esiste la giustizia, da qualche parte, Tommaso? C’è giustizia in America?» Il piccolo Guido era morto da tempo, come senz’altro anche l’uccello canterino per la cui libertà aveva rischiato di andare in prigione. Lo avevano accoltellato durante una rissa e lasciato a dissanguarsi a faccia in giú sui sampietrini bagnati di qualche vicolo per prostitute e femminielli. Me lo aveva raccontato tanto tempo prima il mio amico Carlo, che aveva letto del fatto di sangue su qualche cronaca nera cittadina. All’epoca avevo ammantato il mio dolore di «filosofia critica», adesso invece riempivo il tavolo di pugni, in stolida furia impotente. Non sapevo pregare, ma almeno potevo maledire i colpevoli della fine depravata di Guido e della tossicodipendenza di Peppe.
«Ah, fratellino, – ho pensato, – i padroni del regno degli Infimi ti hanno bucherellato le braccia con le loro freccette mortali. Potessero legargli al collo dei grossi pietroni…»
«Ma perché, Tommaso, i padri sono cosí crudeli?» La domanda di Peppe mi rimbombava in testa e quando finalmente sono riuscito a prendere sonno si è trasformata in un’eco lontana ma sempre piú forte, un ritornello triste che mi ha condotto fino al bordo di un pozzo in fondo al quale, giú giú, c’era un bambino caduto o scaraventato sotto da qualcuno. Sono sceso in quel buco nero e spaventoso e ho cercato di afferrare il corpicino accoccolato in fondo, scosso dai brividi in mezzo a una fanghiglia gelata. Il ragazzino mi ha stretto la mano. Mi si aggrappava tutto tremante, con il tipico terrore che hanno i bambini dei mostri notturni. Ma io, viandante solitario intirizzito e stremato a mia volta dal lungo vagabondare nella nebbia, dove l’andavo a prendere la forza per tirarci fuori entrambi sulla terra gelida, fino a un rifugio caldo dove splendesse il sole? Mi sono svegliato tremebondo, che gridavo aiuto. Sono rimasto lí con gli occhi aperti fino all’alba a chiedermi quanti bambini fossero già morti laggiú, le loro urla inascoltate o ignorate dai viandanti. Morivano piano, abbandonati e soli, in un sepolcro freddo, umido e pieno di ragni.
Nei giorni seguenti mi è venuto un brutto febbrone. Ma la prospettiva di restare chiuso nella mia cameretta ammuffita mi metteva piú angoscia dell’eventualità di morire rabbrividendo in qualche scolo infestato dai topi. Perciò la sera mi alzavo e andavo ad aggirarmi in centro come un sonnambulo, alla ricerca di vecchi amici e dei luoghi un tempo a me cari, ormai scomparsi.
Una di quelle sere la città sembrava essersi messa ginocchioni davanti alla gigantesca pubblicità del FERNET BRANCA, che bagnava l’imponente Maschio Angioino con la sua oscena luce algida. Al posto del bar rosticceria Pizzicato, aperto tutta la notte a un eterno corteo di marinai, puttane, truffatori e travestiti, adesso c’era la sede del Banco di Santo Spirito. Il popolo della notte era stato cacciato via. Caterve di immondizia puzzolente si ammucchiavano contro le rovine abbandonate di un chiostro medievale sotto il livello strada; un unico grattacielo scipito, il Jolly Hotel, guardava dall’alto la piazza deserta con grassa, tronfia e tarchiata prosopopea. L’occhio mi è cascato su un altro cartellone che reclamizzava l’ennesimo amaro. «Digerire è vivere!» recitava lo slogan.
Come le città dell’America profonda, anche questa nuova Napoli era sempre piú motorizzata e benzina-dipendente. I suoi squilli di tromba erano fatti di pneumatici stridenti, di cento clacson nervosi che bussano tutti insieme e della disperata e rozza affermazione di sé dei tubi di scappamento delle moto. Nei vicoli dei Quartieri segnati dal sisma, la vecchia melodia del dialetto era soffocata dal riecheggiare all’unisono di cartoni animati giapponesi e di telefilm americani su ricchi petrolieri o su poliziotti di strada, con il volume al massimo.
Sono entrato in una birreria in stile bavarese che mi avevano fatto conoscere tanti anni prima i miei amici di Fontana del re nella speranza che potessi aiutarli a proporsi ai marinai americani come «guide turistiche». Non c’erano navi in porto, quella settimana, e il luogo era deserto a parte una serie di prostitute di una certa età, sparse in giro come rettili addormentati pronti a scattare e dissanguare qualsiasi improvvido ragazzotto del Nebraska che fosse entrato incautamente nel locale. Il padrone, detto «Tony» dai marinai, m...