«Nel dubbio, salgo a piedi». Salgo quasi sempre a piedi, per non rischiare di dover condividere l’ascensore. Per evitare quel momento di vulnerabilità fra quando lo chiami e quando arriva. E se mentre salgo l’ascensore si muove allora mi fermo a metà fra un piano e l’altro, perché non mi vedano. E se mi sembra di sentire altri passi: corro.
Perché non vuoi che ti vedano? «Non lo so, mi dà fastidio».
Anna non capisce. Anna con innumerevoli figli e fratelli, Anna che balla nuda nel deserto.
«Sono entrata in casa, eccomi, aspetta che mi tolgo un po’ di roba di dosso…» Poso il casco e le chiavi sul comò, corro a far pipÃ, torno, mi appoggio per togliere gli anfibi. E allora io e il casco, senza urgenza, abbiamo il tempo di guardarci negli occhi.
Faccia a faccia col cranio bianco che meno di un’ora fa conteneva una lingua, la mia. E a tratti anche la voce di Anna. Ospiti. Adesso la cosa che si nota di piú è la visiera pulita. «Ci sono sempre meno insetti, e nessuno sa il perché». Dovrebbero vedersi mucchi di insetti morti ai margini delle strade, lenzuola stese al sole e ritirate nere. Invece soltanto visiere pulite. «Non muoiono di piú: nascono di meno». Anna ricorda che le succhiavano il sangue. Mi svegliavo per i morsi, da bambina, e davo la caccia alle cimici insieme al mio fratello preferito; qualche volta i piú grandi si arrabbiavano con noi, come fosse colpa nostra. Come se a loro non mordessero mai.
Ricorda di aver abitato vicino al porto, e di aver lavorato in una fabbrica di fiammiferi che aveva una torre di mattoni rossi. Non una ciminiera: una torre con le finestre.
Guardo dalla mia finestra, quella che lei aveva aperto.
Bryant&May! La fabbrica si chiamava Bryant&May, è là che ho lavorato.
Ho freddo, anche se la finestra è chiusa. Il freddo che mi è rimasto dentro dalla moto, dalla cena, da una primavera ancora troppo vicina all’inverno. Mi spoglio. «Voglio fare un bagno», annuncio. Lascio i vestiti per terra, non mettere a posto mi fa sentire meglio. Continuo a spogliarmi, li scalcio lontano.
Seduta sul bordo della vasca, nuda come è sempre nuda Anna, e come lei ho freddo. Risale dai piedi alle caviglie. «Ogni volta giuro che la prossima volta riempio prima la vasca, e poi mi spoglio. Ma faccio sempre il contrario». Il freddo della ceramica sotto le cosce. E dover aspettare. Scuoto il bagnoschiuma con le mani perché ne venga ancora di piú, dal niente. Cosa resterà di queste nostre due voci, che già adesso sono meno di aria?
Torno in cucina a prendermi qualcosa da bere.
È tutto cosà vicino, qui. Ho sempre desiderato un letto con un bordo a forma di tavolo, e una vasca da bagno incastrata nel mezzo – senza mai dover toccare terra, mai camminare.
Casa della zia ci assomiglia.
Nel frigo soltanto bottiglie chiuse.
Alcune cose comprate per l’uomo sono scadute. Altre – le piú gelide, le piú secche – dovrebbero essere ancora buone.
Rinuncio.
Riempio una brocca e do da bere alle piante.
Quando cerco da bere per me, poi mi viene piú facile pensare alla sete degli altri. Anche delle piante che vivono qui: grasse, quasi autonome ormai. Anna non sa che io e l’uomo con cui ha fatto l’amore non abbiamo mai lasciato niente, qui: non una presina, un asciugamano, un vaso. È tutto della zia. Impedisco al mio compagno di venirci, ma poi io e l’altro restiamo in punta di piedi, ospiti.
Forse è la casa a piacergli davvero, a piacermi davvero.
Questa casa da studenti fuori sede, dove niente ci appartiene.
«Ti faccio trovare del pane fresco la prossima volta, te lo giuro».
Cambio idea: riapro il frigo e stappo la bottiglia. Prendo un bicchiere alto e lo porto con me, con noi. Come farebbe la zia. Come farebbe una delle tante donne morte che sanno vivere meglio di me.
Pazienza se ne dovremo buttare.
Anzi, prendo anche la bottiglia.
E i nachos, e la salsa messicana, voglio sfamarmi di aperitivi.
Torno in bagno passando dalla camera da letto: questo è un bagno padronale. L’unico che c’è.
Chiudo il rubinetto.
«Eccomi!» Mi immergo. Le orecchie sott’acqua, il rumore dell’acqua, il rimestare di argani enormi che levano l’ancora; e invece è soltanto il cordone del doccino contro la ceramica. Aspetto.
Presto sarò coperta da un mare di bolle.
Gli occhi chiusi, lascio fuori solo il naso e la bocca: si può, se non ci sono onde. La vita dev’essere nata cosÃ, in piccole pozze calde dove si impiega del tempo a dissolversi. Immergo anche la bocca; si può, parlando con Anna. «Sopra la vasca c’è uno stendino, l’hai notato?» No, non mi pare. «È dove mia zia appendeva i merluzzi. Per me, da piccola, pesce voleva dire merluzzo». Anche per me! Merluzzo fritto e patatine. Per tutta la vita, veramente… «Io sempre e solo il venerdÃ. I miei sono abbastanza cattolici». Mia madre lo era molto. «Che poi: perché mangiarlo proprio dalla zia, che aveva una casa tanto piú piccola della nostra? E non era credente. La zia ha sempre avuto sali da bagno che noi non compravamo, non avevamo nemmeno la vasca, se è per quello. Sali che costavano un patrimonio, e candele profumate… Però poi, quand’era il momento, appendeva i merluzzi con le mollette sullo stesso stendino che usava per il suo bucato». La sua biancheria di seta. Riemergo. Apro gli occhi: «Io vorrei essere cosû.
In casa tua com’è?
«In che senso?»
Nella casa dove vivi, hai la vasca?
«No. Tanto alla fine uso sempre la doccia… Per fare il bagno vengo qui». Mi alzo, accendo le candele, verso i sali. I sali e le candele che fatico a consumare, come i miei genitori prima di me. Risprofondo. «Che poi, a pensarci, non ha tanto senso appendere un baccalà ; che cosa vuoi farne, asciugarlo di nuovo? Probabilmente ricordo male». E tanto meno una fila di baccalà , per poi mangiarci solo in quattro: io, i miei, la zia. Eppure ho in mente questa fila di pesci appesi. Pesci a testa in giú, come all’aperto, nelle isole del Nord, pesci che volano. E sotto di loro il mare con gli iceberg, bianchi come è bianco il mio bagnoschiuma. Ma l’acqua qui è calda: fuma.
«Merda!» Cos’è successo? «Mi è caduto un nachos…»
Un buco di salsa e briciole, nel bianco della schiuma.
Tiro fuori una gamba e la allungo stendendo il piede, come nei film. L’ombra tremolante sulla parete. «Non si vede piú il livido: che gamba era?» La destra, mi pare. Premo a caso, non sento dolore. «A voi vengono i lividi?» Anna che non ha bisogno del sangue per ossigenare, o portar via i rifiuti. Il rosso che non vedono mai.
Che cosa so, in fondo, del corpo di Anna?
Quello che mi ha detto lei.
E del mio? Di che materiale sono fatta io? Imbottita di corde fredde e pesanti. Se adesso mi tagliassi uscirebbero quelle: fibre, non sangue.
«Tu ricordi come sei morta?»
La domanda che avrei voluto farti sin dall’inizio… E stasera inaspettatamente sfuggita. Stasera che ti è venuto in mente di Bryant&May. Ma Anna dice che l’ultima cosa che tutti ricordano è di essersi addormentati. «È cosà allora, è come addormentarsi?» No, non è come. È che di quello che succede fra l’ultimo risveglio e la morte non porti niente con te. Puoi avere dei sospetti, magari, perché eri molto malata, o prima di una battaglia, su una nave in tempesta… Ma nessuna certezza.
Anna dice di essere stata a una parata, poco prima di morire, e di aver pianto.
Davano da mangiare a tutti, in quei giorni, e ti lasciavano dormire; era piú facile piangere. Ma l’ultimo ricordo è come il primo, come fai a essere sicura che non possa, un giorno, spuntarne un altro piú ultimo, o piú primo? C’erano dei cavalli altissimi, intorno alla carrozza dorata del nuovo Re. E nessuno che si chinasse per bastonarti. Cavalli con le gambe sottili, e zoccoli che si sollevavano piú per danzare che per spostarsi. E giovani belli, portati là con le navi dall’India, dal Canada, dall’Australia, dall’Egitto, Giava, Singapore, da ogni angolo dell’Impero. Tutta quella forza, quella gioventú che sfilava senza risparmio, come avessero finalmente trovato il modo di aprire le viscere della terra, e improvvisamente ci fosse abbondanza, e una colata di bellezza che non avevamo incontrato, mai, tantomeno in quella piazza. I turbanti, le divise: rosse, blu, verdi, tutti colori che non ho visto cosà brillanti nemmeno quando sono stata da te, e i passi cadenzati, cosà diversi dai nostri di allora, barcollanti, su quella stessa piazza. I tamburi e, piú forte dei tamburi, la folla, fragorosa come il mare. Ricordo di aver urlato: lunga vita al Re! Abbiamo urlato: che Dio salvi il Re! Piangevamo per il Re, per la felicità che esistesse. Che lo avessero incoronato per noi.
«Quale Re?» Non lo so. «Edoardo VII?»
Perché me lo chiedi?
«Provami di essere esistita».
Dici sul serio?
«No… Sà invece!»
Provamelo tu allora.
«No, tu sei stata qui». Io ho chiuso gli occhi, e quando li ho riaperti ho visto una casa, e abitato un corpo. Ma come faccio a essere certa che fosse davvero il tuo?
È vero. Io pura voce nella testa di Anna.
Anna che ha lavorato da Bryant&May e mangiato la cena dell’incoronazione offerta ai poveri di Londra il 5 luglio 1902, e applaudito la parata del 9 agosto, e forse persino quella del 25 ottobre. Anna rivestita di particolari, io nuda.
Io l’ombra, l’esangue, l’inganno senza nomi, luoghi, date o carestie.
Ann...