La geometria delle coppie
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La geometria delle coppie

  1. 416 pagine
  2. Italian
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La geometria delle coppie

Informazioni su questo libro

Sullo sfondo della storica vittoria di Obama del 2008 con tutto il suo carico di sogni e speranze, due coppie londinesi riflettono sui desideri raggiunti e le aspettative deluse. E in un gioco di tradimenti e perdono, di fughe e incontri, esplorano la fragile architettura dell'amore. «Un libro raffinato, intelligentissimo che getta uno sguardo splendido e poetico sul matrimonio».
David Nicholls «La maestria con cui Diana Evans intreccia pubblico e privato, epico e mondano, fa pensare a Tolstoj».
The New Yorker «Una scrittura magnifica, ironica e commovente».
The Guardian Tra i migliori libri dell'anno per New Yorker, Financial Times e New Statesman. Michael non si sente piú desiderato, ma vuole salvare il proprio matrimonio perché ama ancora Melissa, come tredici anni fa. Melissa vorrebbe tornare a essere la donna che era prima di sposarsi e ha paura di essersi persa, dopo due bambini. Damian ha un lavoro frustrante e sogna di fare lo scrittore, di conquistare Melissa, di scappare dalla provincia. Stephanie, sua moglie, vorrebbe soltanto vivere con serenità la sua esistenza di casalinga e madre.
Sono due coppie come tante che passeranno un anno ad avvicinarsi e allontanarsi, soffrire e amarsi. «Insieme, esibivano una bellezza comune e fugace: potevano indurre qualcuno a voltarsi, ma visti da vicino i loro volti rivelavano ombre. Eppure perseveravano nella propria giovinezza. La trattenevano con entrambe le mani».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
Print ISBN
9788806247751
eBook ISBN
9788858437162
1.

M&M

Per festeggiare l’elezione di Obama, i fratelli Wiley diedero un party a casa loro, nella zona di Crystal Palace. Abitavano vicino al parco, dove la torre per le telecomunicazioni incombeva, innalzata verso il cielo, come una Torre Eiffel in tono minore, austera e metallica di giorno, rossa e illuminata di notte, dominando i quartieri circostanti di Londra e le contee limitrofe, e proteggendo, nella distesa verde ai suoi piedi, quanto restava del tramontato regno di cristallo: il lago, il labirinto, le statue greche spezzate, i leoni di pietra erosi dal tempo e i dinosauri ricostruiti da una scienza invecchiata.
In precedenza i fratelli Wiley vivevano a nord del fiume: si erano trasferiti nel Sud della città per la sua energia creativa e il carisma della sua povertà (consapevoli dei loro privilegi, volevano dare l’impressione di esserne usciti spiritualmente indenni). Bruce, il maggiore, era un noto fotografo: sul retro della casa c’era il suo studio, un dedalo di luci e oscurità. Gabriele faceva l’economista. Malgrado fossero l’uno l’opposto dell’altro in ogni senso – Bruce aveva una corporatura robusta, Gabriele era magro; Bruce beveva, Gabriele no; Bruce non possedeva nemmeno un completo, Gabriele non portava altro – organizzarono la festa con comune impegno e unità di intenti. In primo luogo compilarono la lista degli invitati, in cui figuravano tutte le persone importanti, di successo e ricche che conoscevano: avvocati, giornalisti, attori e politici. A seconda delle dimensioni dell’evento, gli ospiti di minor riguardo venivano scelti con criteri variabili in base a posizione sociale, conoscenze, aspetto e personalità, esaminati dai due fratelli nella veranda dove si svolgeva la maggior parte delle loro conversazioni serali. In quella particolare occasione invitarono piú ospiti del solito, perché volevano una festa grandiosa. Completato l’elenco, Gabriele fece girare un sms.
Poi si occuparono entrambi dei tre ingredienti essenziali di un party, le bevande, il cibo e la musica. Avendo fissato la data per il sabato successivo alle elezioni, non avevano molto tempo. Comprarono bottiglie di champagne, noci di macadamia, ali di pollo, olive farcite al peperone, rievocando dall’inizio alla fine i momenti salienti della loro notte insonne di martedí, quando avevano guardato gli Stati blu mangiarsi quelli rossi e visto le lacrime di Jesse James a Grant Park e la vittoriosa avanzata dei quattro Obama verso il palco a prova di proiettile; inoltre parlarono del tempo del giorno successivo, cosí luminoso e azzurro per essere novembre, e della gente, degli sconosciuti, cordiali e sorridenti, che si scambiavano il buongiorno, a Londra! Immaginarono, mentre preparavano la playlist da passare al dj, le note di Jill Scott, Al Green e Jay-Z che fluttuavano fuori dalle finestre della Casa Bianca. Per migliorare l’isolamento acustico ed evitare danni, schermarono con pannelli di truciolato gli scaffali metallici del soggiorno e stesero vecchie stuoie sui pavimenti di noce. Lasciarono il Chris Ofili sulla parete centrale, con un divano sotto il quadro e alcuni cuscini sparsi qua e là, ma tolsero gran parte dei mobili. Gabriele sistemò un avviso sullo specchio del bagno, invitando tutti a rispettare il fatto che si trovavano in una casa privata e non in un locale notturno.
Poi arrivarono gli ospiti. Arrivarono da ogni parte, dai quartieri al di là del fiume e dai caseggiati intorno alla A205, dai sobborghi piú periferici e dalle strade vicine. Arrivarono in pellicce sintetiche e jeans attillati, con lustri sandali luccicanti comprati a Oxford Circus e camicie variopinte. Anche loro erano rimasti svegli martedí notte a guardare i blu che divoravano i rossi; e le figlie di Obama che salivano elettrizzate sul palco nei loro abitini ben tagliati avevano rammentato a molti le quattro bambine uccise quarantacinque anni prima dalle bombe del Ku Klux Klan in una chiesa dell’Alabama. Era stato quel ricordo, forse, a far piangere Jesse James, il pensiero che le giovani Obama stessero camminando sulle loro ceneri, per cui adesso era impossibile assistere a questo nuovo progresso della storia senza pensare all’episodio terribile del passato, senza che la festa diventasse allo stesso tempo un possente lamento. C’erano party in tutta la città, quella notte, a Dalston, a Kilburn, a Brixton e a Bow. Il traffico sfrecciava su e giú attraverso il Tamigi, tanto che visto dall’alto il fiume era una striscia di tenebre intersecata da precipitosi flussi di luce. Le pettinature afro furono lucidate con il gloss, i pizzetti vennero spuntati con cura. Nuvole di lacca e di deodorante, ormai semidissolte, aleggiavano abbandonate contro i soffitti delle stanze da letto mentre gli ospiti arrivavano, mentre parcheggiavano la macchina all’ombra della torre, mentre sbattevano sul lettore il biglietto elettronico per superare i tornelli della stazione di Crystal Palace e si avviavano verso la casa, reggendo bottiglie di Malbec, Merlot, whisky e rum che Gabriele, nell’alveare della cucina illuminata dai faretti, accettava con entrambe le mani smilze. Toccava a Bruce stare sulla porta, un compito che svolse finché non si dedicò anche lui ai piaceri dell’alcol. Gli ospiti continuarono ad arrivare, uomini di buon umore in scarpe da ginnastica ineccepibili, donne con varie quantità di capelli posticci a scendere lungo la schiena in cascate di riccioli, trecce o lunghe chiome lisce man mano che entravano nella musica come altrettante Beyoncé.
Tra gli invitati c’era una coppia: Melissa e Michael, giunti a bordo di una berlina rossa della Toyota. Avevano conosciuto i due fratelli nel mondo dei media; Michael aveva incontrato Bruce al dipartimento di studi orientali africani. Mascella sottile velata dalla barba corta e begli occhi, Michael era alto e robusto; i capelli, rasati al punto da sparire quasi del tutto, erano naturalmente folti e lucidi per via di una lontana traccia di India tra i suoi antenati. Portava jeans neri non attillati con un’elegante camicia grigia, un paio di scarpe sportive all’ultima moda la cui suola bianca appariva e spariva nel lieve saltellare del suo passo e una giacca di pelle color castagna. Melissa indossava un abito di seta malva dal lampeggiante orlo irregolare in stile zingaresco, sandali intrecciati verde lime con la zeppa e un cappotto di velluto nero dal collo ampio; si era pettinata la parte davanti della capigliatura afro in una serie di treccine diagonali, lasciando il resto sciolto, ma dopo averlo domato con una manciata di gel S-Curl. Incorniciata dall’acconciatura, la sua espressione appariva infantile, fronte alta e occhi maliziosamente vulnerabili. Insieme, esibivano una bellezza comune e fugace: potevano indurre qualcuno a voltarsi, ma visti da vicino i loro volti rivelavano ombre, denti offuscati e imperfetti, le prime rughe. Si trovavano sulla sponda piú lontana della gioventú, nella fase della vita in cui comincia a manifestarsi la graduale discesa nella vecchiaia, l’accelerazione del tempo, l’accumularsi degli anni. Perseveravano nella propria giovinezza. La reggevano con entrambe le mani.
Entrarono nella folla di casa Wiley, dove la fidanzata incinta di Gabriele, Helen, prese i loro cappotti e li affidò a due nipoti adolescenti in pantaloni con la piega perché li trasferissero in una camera da letto al piano di sopra. Gli Obama avevano ridato valore al saluto con il cinque, perciò l’aria echeggiava di manate. Ci furono pugni camerateschi sulle spalle e baci sulle guance, molteplici racconti sulla notte di martedí e sui giorni successivi, su come adesso il mondo fosse diverso pur essendo rimasto lo stesso. Nel frattempo la musica pulsava a tutto volume dalla pista da ballo, Love Like This di Faith Evans, Breathe and Stop di Q-Tip. Spesso si può misurare il successo di una festa dall’impatto di Jump, dei Kris Kross, dai salti durante il ritornello e dalla loro durata. Lí si saltava dal principio alla fine, e il dj incoraggiava il pubblico a seguire l’invito della canzone oppure ad agitare l’accendino quando un altro brano esortava a farne scattare la fiamma, esclamando di tanto in tanto «Obama!» a ritmo con la musica. La cosa si trasformò in un gioco di botta e risposta, per cui il nome del neopresidente veniva ripetuto da tutti ogni volta che lo si udiva pronunciare, e se il dj si sentiva ispirato, poteva dirlo di nuovo, o magari aggiungere semplicemente «Barack!», scatenando cosí un’altra reazione collettiva sulla pista. Al di sotto di tutto questo serpeggiava una debole sensazione di anticlimax, il contrasto tra la gloria del momento e i problemi della realtà, perché là fuori c’erano giovani che in un contesto diverso avrebbero potuto seguire le orme di Obama, e invece si sparavano a vicenda, e ragazze che avrebbero potuto diventare come Michelle.
La temperatura salí con l’avanzare della notte. Corpi pencolavano gli uni sugli altri in preda a un calore incontrollabile, e sembrava non esistere niente a parte quell’oscurità in movimento, quella musica. Una canzone iniziò con una risata di Mariah Carey e uno scambio con Jay-Z su dove cominciare; seguí una seconda conversazione nella quale Amy Winehouse si scusava con Mark Ronson per il ritardo. Poi arrivò Michael Jackson, gli strilli reiterati di Thriller, i toni mielati di P.Y.T., e a quel punto i ballerini sincronizzarono le mosse in un passo doppio che cambiava direzione tre volte per poi tornare alla prima posizione con il sollevarsi del piede sinistro. Quello fu il culmine della serata. Alla fine la musica avrebbe cambiato velocità e rallentato il ritmo, la ressa avrebbe iniziato a sfoltirsi, lasciando spazio a danze piú ariose, a ritmi interiori accanto alle pareti. I nipoti si sarebbero messi a salire le scale per portare i cappotti nella direzione opposta. In un lungo esodo notturno, la gente avrebbe fatto ritorno in città, le voci roche a forza di gridare, la pelle umida di sudore, l’udito smorzato dai bassi. Piano piano la casa si sarebbe svuotata, e Bruce avrebbe continuato a bere finché a un certo punto, prima dell’alba, si sarebbe accorto all’improvviso di aver bisogno di coricarsi subito, finendo per assopirsi sul pavimento della cucina o sul divano sotto l’Ofili, e Gabriele, se fosse sceso la mattina presto a prendere un bicchier d’acqua per Helen, gli avrebbe infilato un cuscino sotto la testa e disteso una coperta addosso, per poi sferrargli un calcetto, ansioso di parlare dei momenti piú memorabili della festa e di chi sarebbe sicuramente rimasto sulla lista degli invitati.
*
Cos’è una festa ben riuscita se non l’opportunità di fare l’amore nelle prime ore del giorno? Amore atteso da troppo tempo. Baci e carezze quasi del tutto abbandonati a causa dei doveri genitoriali, tra i frequenti risvegli di un lattante e le richieste irragionevoli della sorellina che pretende latte e cereali a ore antelucane. Quali altri impegni pressanti possono esserci quando la casa è finalmente vuota per una notte intera, per gentile concessione di nonni benevoli che abitano dalla parte opposta del fiume, se non quello di copulare, con fervore e frenesia, per ricordarsi a vicenda di non essere solo compagni nel senso piú noioso della parola, ma ancora amanti, forse, ancora innamorati? L’urgenza di questo bisogno gravava con un peso considerevole nell’atmosfera della Toyota rossa mentre l’automobile si allontanava dalla torre, dal giubilo pro Obama e percorreva Westwood Hill in direzione di Bell Green. Guidava Melissa. Michael, un po’ ubriaco, sedeva al posto del passeggero, le ginocchia che toccavano il bordo inferiore del cruscotto e la mano destra posata speranzosamente sulla coscia di Melissa. Melissa gli permetteva di tenerla lí, anche se Michael non aveva ballato con lei alla festa e non svuotava mai lo scolapiatti prima di lavare le stoviglie, lasciando che quelle asciutte si bagnassero di nuovo: un’abitudine che la faceva impazzire. All’interno dell’automobile rimanevano resti rivelatori di un’orribile tappezzeria a motivi di foglie verde spento e viola, sulla quale erano scesi a un compromesso quando avevano comprato la Toyota, perché costava poco. Solo i sedili si salvavano da tanta bruttezza grazie alle fodere grigie con cui li avevano rinnovati, ormai scolorite e logorate dalla continua pressione delle schiene di Melissa e Michael che vi si appoggiavano fianco a fianco.
A bordo di quella macchina, nella primavera di quell’anno, con la dolce liberazione di aprile che si riversava nell’abitacolo attraverso il tettuccio apribile, avevano attraversato il Tamigi da nord a sud sul ponte di Vauxhall, diretti alla loro prima casa indipendente. Melissa era incinta di sei mesi, e guidava anche allora, perché adorava guidare: il brivido della strada che si apriva davanti a lei, la velocità dell’aria; e comunque non c’era altro modo di trasportare l’enorme spatifillo cresciuto con la foga di un fagiolo magico nel soggiorno dell’appartamento che stavano lasciando se non piazzandolo in grembo a Michael, libero com’era da intralcianti protuberanze. Michael reggeva la pianta saldamente perché non si rovesciasse, le grandi foglie verdi e gli alti fiori bianchi a forma di lacrima che sfioravano il soffitto e il finestrino e gli solleticavano la faccia. Tutto lo spazio disponibile era occupato dalle loro cose: le scatole piene di libri, le musicassette e i dischi, i vestiti, la caffettiera cubana e la marionetta della Repubblica Ceca, un dipinto color indaco di danzatori al crepuscolo, un altro di uccelli della Tanzania, la maschera d’ebano del mercato di Lekki a Lagos, le bambole russe, il vaso olandese, la poltrona rotonda di vimini, le foto incorniciate di Cassandra Wilson, Erykah Badu, Fela Kuti e altri personaggi famosi, la lampada da tavolo a zigzag, gli utensili da cucina e anche la figlia Ria, che dormiva mentre diamanti di luce rimbalzavano sul fiume, ignara della momentanea transitorietà acquea delle loro vite. Volavano via sul fiume, ascoltando una lunga canzone di Isaac Hayes. L’acqua ondeggiava e si agitava sotto le loro ali rosse cariche di masserizie, ribolliva e s’increspava nel tumulto della marea, scuotendo il dorso d’argento e tremando tra le silenziose arcate dei ponti.
Piú o meno centocinquantasei anni prima, non a bordo di un’automobile, ma su un gran numero di carri trainati dai cavalli, anche il Palazzo di Cristallo, insieme a quanto conteneva, aveva attraversato il fiume provenendo da Hyde Park per raggiungere la sua nuova sede in mezzo a un bosco di querce sulla cima panoramica di Sydenham Hill. La grande mostra del 1851 era finita. Non c’era piú bisogno di quell’appariscente regno di vetro nel principale spazio verde del cuore di Londra, e cosí l’avevano spedito a Sud, a risplendere e fare bella mostra di sé ai margini della città, dove la gente sarebbe venuta da chilometri e chilometri di distanza, attraversando addirittura oceani, per vedere meraviglie quali i colossi di Abu Simbel e la tomba di Beni Hasan, le acrobazie aeree di Leona Dare sospesa alla sua mongolfiera e le mercanzie esotiche giunte da terre remote. Sul fiume erano passate mummie. L’avevano varcato velluti, canape e merletti del Belgio. Letti arrivati da Vienna, maioliche, terrecotte e favolosi lingotti d’oro del Galles. E poi navi da guerra, fucili militari, curiosi ceppi e manette, champagne di rabarbaro. Tutto ciò era arrivato lentamente, superando il fiume su carri tirati dai cavalli, per poi scendere attraverso Lambeth, inoltrarsi a Lewisham, inerpicarsi sulle alture meridionali e infine fermarsi nella vasta distesa di verde elettrico divenuta nota sotto il nome di Crystal Palace Park, le cui cime lontane stavano scomparendo dal lunotto posteriore della Toyota rossa.
Michael sperava che lo aspettasse una notte simile a quella di tredici anni prima, quando lui e Melissa, insieme da pochi mesi, erano rientrati da un altro party e, dimentichi del giorno incipiente e del bisogno di dormire, avevano fatto continuare la musica nel morbido silenzio delle lenzuola, mentre fuori la bruma andava dissolvendosi, la luce aumentava e gli uccelli levavano il loro canto. Sarebbero arrivati nella casa deserta. Si sarebbero tolti scarpe e cappotti e magari avrebbero parlato un po’, quindi sarebbero saliti in camera da letto mano nella mano, e là avrebbero ricominciato, cauti all’inizio, esitanti, per poi accelerare il ritmo. Gemme e diamanti non perdono il loro splendore. Sarebbe stato come scartare un gioiello polveroso e trascurato e scoprire che brillava ancora. Michael continuava a lasciare la mano posata sulla coscia di Melissa per rimanere aggrappato con lei a quel fulgore, per quanto offuscato dal fatto che sembravano incapaci di trovare qualcosa di cui parlare («Ti sei divertita?» «Sí, e tu?» «Sí, è stato forte. Sei stanca?» «Sí, tu?» «No»). Melissa teneva la gamba perfettamente immobile, senza incoraggiarlo né respingerlo. Guidò lungo Westwood Hill verso la rotonda di Cobb’s Corner, in posizione dominante sulla strada principale: là, direttamente davanti a loro, c’era il negozio di abiti da sposa, che occhieggiava nell’oscurità con i suoi sparuti manichini dai vestiti fuori moda e sembrava esortarli a un’unione attesa a lungo. Tredici anni prima, nei mesi iniziali del loro amore, in uno slancio di euforia Michael aveva chiesto a Melissa di diventare sua moglie e lei aveva accettato, ma fino a quel momento non c’era stato alcun matrimonio. La cerimonia si era persa da qualche parte, dapprima nell’apatia dei preparativi, poi in quel raffreddarsi dell’entusiasmo che in generale si verifica dopo tre anni, secondo le ricerche sull’argomento, e piú tardi tra le macerie della vita domestica che assediano la passione quando arriva un bambino e la vita adulta si rivela in pieno, abbigliata con una floscia vestaglia grigia. Forse poteva ancora esserci un matrimonio, immaginava a volte Melissa. In tal caso, l’avrebbero celebrato in una sala dal soffitto a volta nel vecchio edificio coloniale dell’università di Greenwich, lei in abito blu elettrico senza spalline e con lo strascico, lui in completo bianco, e dopo la cerimonia avrebbero camminato verso il fiume da marito e moglie, e si sarebbero fermati di fronte alla ringhiera a guardare la danza dell’acqua con il sole. Al momento, però, non sembrava probabile.
In quel lontano giorno di primavera erano scesi a Sud con tutte le loro cose, il bambino non ancora nato che scalciava e una foglia di spatifillo che giocherellava con le narici di Michael. Oltre il negozio di abiti da sposa, intorno alla rotonda, oltre Station Approach, in mezzo a una serie di altri negozi dove il traffico li costringeva continuamente a fermarsi. Lungo la strada principale c’erano sei parrucchieri, cinque rivendite di pollo da asporto, quattro magazzini in cui ogni articolo costava una sterlina, cinque e...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La geometria delle coppie
  4. 1. M&M
  5. 2. Damian
  6. 3. La signora Jackson
  7. 4. I can make your zoom zoom go boom boom
  8. 5. Nel frattempo
  9. 6. Multiculturalismo
  10. 7. Desdemona
  11. 8. Natale
  12. 9. Confessione
  13. 10. A volte nevica in febbraio
  14. 11. L’iniziazione
  15. 12. Dalle parti di Torremolinos
  16. 13. This is it
  17. 14. La cosa peggiore
  18. 15. Sull’altra riva del fiume
  19. Ringraziamenti.
  20. Nota.
  21. Il libro
  22. L’autrice
  23. Copyright