Io accolgo il bambino quando nasce, lo sollevo da terra e lo mostro al mondo
Per poter morire, l’uomo deve prima nascere.
È quasi mezzogiorno quando infine schiarisce nella notte artica e la sfera di fuoco si solleva, ma con fatica, oltre l’orizzonte, e una striscia rosa si intrufola attraverso una fessura delle tende nella sala parto, a malapena piú larga di un pettine in una tasca, e si posa sulla donna che giace sul letto e soffre, alza il braccio, apre il palmo e afferra la luce, poi lo lascia ricadere. Ha mezzo kiwi, pieno di semi, tatuato sul ventre teso, come se il frutto fosse stato affettato in due con un coltello affilato, ma sono apparse delle screpolature nell’inchiostro e anche l’iscrizione sotto la figura si è espansa, T u ap e rs e m p r e. Nato il bambino, il frutto irsuto si riassesterà.
Mi metto la mascherina e indosso il camice protettivo.
Ci siamo.
La piú ardua esperienza umana.
Nascere.
Emerge la testa e poco dopo reggo un viscido corpicino sanguinolento.
Un maschio.
Non sa chi è, né chi lo ha messo al mondo, né che cosa è, questo mondo.
Il padre deve mettere via il cellulare per poter tagliare il cordone ombelicale, gli tremano le mani, quando recide il filo che lega madre e figlio.
La madre volta la testa da un lato e osserva.
– Respira?
– Respira.
E penso:
Da adesso in poi respirerà ventitremila volte al giorno.
Poso sulla bilancia il fagotto di carne urlante. Il bimbo agita le braccia, non c’è piú nessuna parete, nessun confine, niente che delimiti il mondo, diventato una distesa sconosciuta, una vastità infinita, una landa inesplorata. Il piccolo precipita in caduta libera, poi si calma, ha la faccia rugosa, trasfigurata d’angoscia.
Il termometro fuori, sul davanzale della finestra, segna meno quattro gradi e il piú inerme fra gli animali della terra giace sulla bilancia, nudo e indifeso, non ha né piume né pelliccia per proteggersi, non ha squame né peli, solo una lanugine soffice sulla sommità del capo che la fluorescente luce azzurra illumina da parte a parte.
Il bimbo apre gli occhi per la prima volta.
E vede la luce.
Non sa di essere nato.
Dico: benvenuto, signorino.
Asciugo il capo bagnato e avvolgo il bimbo in un asciugamano, poi lo poso in braccio al padre che indossa una maglietta con su scritto Il papà migliore del mondo.
È sconvolto e piange. È finita. La madre è esausta e piange anche lei.
L’uomo si china con il neonato e lo depone delicatamente nel letto vicino alla donna. Il bimbo volta la testa verso la madre e la guarda, gli occhi ancora pieni di buio dalle profondità della terra.
Non sa ancora che lei è sua madre.
Lei guarda il bimbo e gli accarezza una guancia con un dito. Lui apre la bocca. Non sa perché si trovi qui, qui anziché altrove.
– Ha i capelli rossi come mia madre, – sento dire dalla donna.
È il loro terzo figlio.
– Sono nati tutti in dicembre, – dice il padre.
Io accolgo il bambino quando nasce, lo sollevo da terra e lo mostro al mondo. Io sono l’ostetrica. Sono la parola piú bella della nostra lingua – ljósmóðir, «madre della luce».
Tre minuti
Dopo aver messo due punti di sutura concedo ai genitori il permesso di rimanere soli con il bimbo per un po’. Se non c’è troppo vento e si può aprire la porta in fondo al corridoio, a volte tra un parto e l’altro scappo di fuori, sul terrazzino che si affaccia sulla Miklabraut. Ci sono nove sale parto in ostetricia e io di solito seguo un parto al giorno, ma possono anche essere tre. Nei picchi stagionali capita che i bambini nascano nella caffetteria, nella sala d’attesa, o anche nell’ascensore che sale su in reparto. Una volta sono corsa giú nel parcheggio per far nascere il figlio di due giovani genitori in preda al panico, sul sedile del passeggero di una vecchia Volvo. Terminata la lunga giornata di lavoro tra carne e sangue, provo gratitudine per la volta celeste.
Inspiro profondamente e riempio i polmoni di aria fredda.
– Sta prendendo una boccata d’aria, – dicono le mie colleghe.
Nelle ultime settimane il tempo è stato molto variabile.
Nella prima parte del mese, sul termometro si sono viste temperature a due cifre sopra lo zero, la natura si è risvegliata, sugli alberi sono comparse le gemme. Il quattro dicembre, la stazione meteorologica piú a nord del Paese ha registrato diciannove gradi, poi è arrivato il freddo all’improvviso, la temperatura si è abbassata di venti gradi nel giro di ventiquattr’ore e ha cominciato a nevicare abbondantemente, tanto che i mezzi spazzaneve hanno avuto difficoltà nello sgomberare i cumuli che si sono formati, il cielo era pieno di neve e per il suo peso cedevano i rami degli alberi, sotto lo spesso fardello bianco scomparivano le macchine e nella neve fino al ginocchio bisognava farsi strada a fatica per arrivare fino ai cassonetti della spazzatura. Quindi ha cominciato a piovere, provocando uno scioglimento repentino, e una poltiglia fangosa si è formata nei fiumi, che hanno cambiato il loro corso e invaso strade e campi, lasciandosi dietro melma e pietre. Solo pochi giorni fa al telegiornale hanno dato notizia di venti cavalli salvati a stento dall’alluvione che ha colpito le regioni del Sud del Paese. Le immagini del servizio mostravano fattorie che emergevano come isole fuori dalle acque e cavalli stremati; un allevatore raccontava di averli raggiunti nel pascolo con un’imbarcazione e di averli spronati a nuotare fino alla terraferma. Ancora non si sapeva cosa si sarebbe trovato una volta defluite le acque, forse altre bestie.
– Niente è piú come dovrebbe essere, – aveva detto l’allevatore intervistato dal giornalista.
La stessa cosa dice mia sorella, meteorologa.
– Si spera solo che presto tutto torni alla normalità, – diceva l’allevatore.
Negli edifici sulla Ljósvallagata, le grondaie non sono state in grado di convogliare l’acqua durante la tempesta e si sono allagate diverse cantine. Quando sono andata a constatare i danni nella mia, ho trovato un albero di Natale artificiale e una scatola piena di addobbi natalizi, di proprietà della mia prozia. Li ho presi e portati con me al terzo piano. In seguito è sceso un forte gelo su tutto il Paese, si sono formate lastre di ghiaccio e questa settimana hanno partorito due donne con un braccio ingessato perché erano scivolate. L’unica cosa rimasta costante per tutto il mese è il vento. E il buio. È buio quando esco di casa per andare al lavoro ed è buio quando torno a casa dal lavoro.
Al mio rientro, il neopadre è uscito dalla stanza e sta vicino al distributore del caffè nel corridoio. Mi fa cenno, vuole parlarmi. È una coppia di ingegneri elettrici; come notava una mia collega, sono in aumento i partner che appartengono alla stessa categoria lavorativa: due veterinari, due commentatori di notizie sportive, due preti, due poliziotti, due allenatori di portieri, due poeti. Mentre l’ingegnere sceglie il tipo di caffè, spiega che il piccolo sarebbe in realtà dovuto nascere il dodici-dodici, giorno del compleanno del suo nonno paterno, ma si è fatto attendere piú di una settimana.
Sorseggia il caffè e tiene lo sguardo basso sul linoleum e io sento che c’è qualcosa che gli preme dirmi. Quando finisce di bere, accenna all’ora della nascita e domanda in che modo esattamente venga fatto il calcolo.
– Si considera il momento in cui il bambino esce, – dico io.
– Non quando si taglia il cordone ombelicale? O quando il bambino piange?
– No, – dico, e penso: non tutti i bambini piangono. O respirano.
– No, il fatto è che mi chiedevo se fosse possibile scrivere sul certificato di nascita che è nato alle dodici e dodici e non alle dodici e nove. La differenza è di tre minuti.
Lo osservo.
Sono arrivati in maternità questa notte e lui non ha dormito molto.
– Compenserebbe il mancato dodici-dodici, – aggiunge accartocciando il bicchierino di carta.
Rifletto.
L’uomo vorrebbe che nei primi tre minuti della sua vita il bambino risultasse non nato.
– Mi farebbe davvero molto piacere, – conclude.
– Potrei aver controllato male l’orologio, – dico io.
Getta il bicchierino nel cestino e insieme ci avviamo nella stanza dove madre e figlio attendono.
Lui indugia sulla porta.
– Io so che Gerður voleva una femminuccia, anche se non lo dà a vedere. Le donne vogliono avere figlie femmine.
Esita, poi dice che lui e la sua compagna avevano letto un articolo su come si dovesse fare per ottenere il sesso desiderato, ma ormai era troppo tardi.
– È andata com’è andata, – dice e mi porge la mano ringraziandomi per l’aiuto. – A pensarci, – aggiunge da appassionato di statistica, – venti milioni di esseri umani hanno il compleanno lo stesso giorno di mio figlio.
Per una donna con la mia esperienza non c’è quasi niente di nuovo sotto il sole. A parte forse l’essere umano
Non è insolito che la professione di ostetrica si tramandi con la parentela, di donna in donna, e io stessa discendo da quattro generazioni di ostetriche. La mia bisnonna è stata ostetrica nel Nord del Paese nella prima metà del Novecento e la sorella di mia nonna, la mia prozia, la zia Fífa, ha esercitato per quasi cinquant’anni, in maternità. E la sorella di mia madre fa l’ostetrica in un paesino dello Jutland. I documenti riportano anche di un nostro antenato maschio, un ostetrico che ha fatto nascere duecento bambini. Si dice che Gísli Raymond Guðrúnarson, chiamato Nonni, non possedesse solo due mani d’oro, ma fosse anche un fabbro abilissimo e che creasse forcipi e diversi altri strumenti utili.
Lo spirito di mia zia Fífa aleggiava ancora nell’aria, quando io ho cominciato a lavorare nel reparto maternità, sedici anni fa. Le ostetriche piú anziane se la ricordano bene, anche se tra quelle che hanno lavorato con lei ne rimangono poche. Però circolano ancora storie su di lei, persino tra chi non l’ha mai conosciuta. Era famosa per i vari commenti che si lasciava sfuggire, del tipo: «Qualsiasi imbecille può avere un bambino». Ma sembrava piú che parlasse tra sé e sé, si diceva. Una sua collega sosteneva però che non usasse parole tanto forti, e che dicesse invece: «Non è da tutti, avere un bambino», o piuttosto: «Non tutti sono fatti per diventare genitori». Un’altra affermava che si esprimesse in modo diverso, dicendo che «una persona difficile non smette di essere difficile nonostante faccia un bambino». Un’altra diceva che mia zia non parlava di persone difficili ma «difettose» e che per lei il peggiore di tutti i difetti era l’autocommiserazione. Mi dicono che si mettesse a cercarli, i segnali di autocommiserazione nei genitori, e che dicesse che «l’autocommiserazione può essere visibile o nascosta, ma giace nel profondo della natura umana».
Si raccontava anche che predicesse il futuro nelle relazioni di coppia. Si sedeva, sollevava una tazzina di caffè piena a metà tenendo una zolletta di zucchero fra le labbra, poi agitava la mano in modo che si formassero increspature nel liquido e diceva: «Quelli avranno un altro figlio e poi divorzieranno».
A volte i messaggi erano piú enigmatici, del tipo: «È bizzarra, quella trama che chiamano famiglia». Le sue colleghe dicevano che non credeva nelle relazioni e men che meno al matrimonio. Una di loro, per la verità, si era spinta un po’ piú in là, sostenendo che...