21 marzo.
Alba livido-lurida, furore e rancore: quanto stile mi ci vorrà , quanti quintali, di stile? Di nuovo la casa, ma questa notte stranamente conchiusa. Come allenato da migliaia di sogni, cercavo le solite transizioni, gli inaspettabili aditi ad altre porzioni di casa, e poi di caverna, e passerelle sospese, vagoni, ponteggi edilizi donde ancora all’interno, in appartamenti mai visti e però, dopo tre o quattro stanze, fin troppo familiari, contaminandosi i tempi ecco la stanza della zia, al mare, con i contenitori in alluminio per le siringhe, e i batuffoli impregnati di etere per conservare i cervi volanti, o l’Ateucus di Carlo Emilio e di Carlo, il bordòkk! Sacer Linnaei ma pur sempre bordòkk! Di là poi, per esempio, in tipica grotta da visita in gruppo, luminescenti cristalli e quarziti, l’osceno stillicidio che allunga la stalattite, forse però è grotta da apparizione, i santini… Si sale un po’, o si scende, sono a scuola, o nello studio di mio padre, o in una casa che tutto comprende, bimembre, trimembre, sconcia nella sua instabilità , basta andare qualche metro piú a destra e siamo nel corridoio delle biglie, là si apre la porta della stanza della frutta, dove rubavo le cotognate, e dove sempre qualcuno ha rubato qualcosa, mi inseguono, è ovvio, anche perché sono un mostro, ho gettato l’acido addosso al mio amore, amore di tutti fuorché di me, gliel’ho chiesto un’ultima volta e ancora una volta mi ha rivolto quel sorriso malinconico, della malinconia di quando tutto è deciso, cosà corro cercando l’uscita, supero gente in fila e rovino giú per una scaletta antincendio, mi ritrovo in una stanza senza porte, con un camino ad ogni parete, ma era solo un esempio, divagavo mica male qui adesso, invece questa notte la casa era piccola, e affatto metamorfica: ne son sollevato, ma pur anche deluso.
23 marzo, poltrendo nel disgusto universo.
Rileggendo discontinuamente le note degli ultimi anni, mi accorgo che riguardano soprattutto gli spazi e i percorsi, i volumi, gli arredi: diciamo per un buon 80%. Il quinto restante sono persone, quarum mai (e dico mai) il padre mio, molto spesso mia madre. In questo molto spesso il quasi sempre è il suo conato verbale, lo spasmo di articolare parole che escono invece in forma di orrendo risucchio, come rivolte all’interno, sicché un sibilo antichissimo, lovecraftiano, di ultracorpo mentito in umano: che è poi il modo mio, di me ipsissimo me, quando voglio parlare e non posso, esibendomi nella vergogna impotente dell’introverso autosibilante che inghiotte il proprio progetto – misero ahi quanto! – di verbo, o di logos, o di xgr*§!?°
(È noto peraltro che mio padre è al tutto privo di inconscio, come scrive Freud di Leonardo).
p.s.
Fosse poi solo il risucchiarsi i discorsi, ché spesso sono mezzo svestito, la parte di sotto oltretutto, o a piedi nudi, o senza calzoni e mutande, con tutto che ballonzola e me lo vedono in tanti, in metropolitana ad esempio, o per strada, mai che quest’onta mi colga chez moi, nei miei giri per le circonvoluzioni infinite della mia casa-case, a meno che, ecco, un locale sia ampio abbastanza da assimilarsi a una piazza, dove di nuovo, gli scioperati e i curiosi, guatano alle mie vergogne, come l’ultima volta un bidello, uno di mezzo secolo fa, che mi dice: «Ma come, ti vendevo le focaccine a ricreazione, e ora che sei un professore vai in giro cos� Focaccine ahi quanto male impiegate, saperlo le vendevo ad un altro».
(CosÃ, vermignudi, abbiamo un membretto proibito, e mai che lo usiamo: e non abbiamo parola: e non pugno: e anche la canna della pistola si affloscia come un sedano marcio: e la sola cosa che funga sono le gambe, che vanno inesauste di stanza in stanza, di casa in casa senza portarci mai fuori dalla Casa).
26 marzo.
[Disegno (piantina)] [Altro disegno (assonometria volumetrica)].
Ho ricostruito la casa di questa notte. Guardo i disegni e ancora una volta mi sdegno: possibile che io debba cedere sempre alla tentazione di citare qui Piranesi, là Escher? L’onesto non-stile di un geometra, questo ci vuole. Eppure non so, o non voglio. Le bellurie mi lusingano, risarciscono l’incubo. Chissà però cosa sognava Piranesi. Troppo facile dire: quello, sognava, l’opera omnia calcografica sua. Piú probabile sognasse amebe, ectoplasmi, come fors’anche Filarete, o Palladio. Immagino invece un individuo che sogni solo cristalli, algoritmi, strutture formali di altissima rispondenza tecnica, e al mattino trascriva li grumi, i crachats, e questo creda di aver sognato, l’informe.
(L’abnorme).
27 marzo.
Appena ridesto mi applico al registro, ma già solo l’intenzione è come lampada accesa che dilegua i fantasmi: scivolano via, i labentia signa del sogno. Pur qualcosa rimane: nell’onirospecie, la sensazione che le fughe di stanze, i locali, gli ambienti che via via percorro non mi preesistano, ma siano creati illo tempore ipso nel mentre vi giungo, perché, io vi giungo, emanazioni dunque del me, estensioni e contagi. Come in certi cartoni animati d’antan, una natura invernale, defunta (poniamo), e con la sua bacchetta o le stesse sue alucce una piccola fata rinverzica e tinge, ovunque spargendo l’idillio (o viceversa i cristalli, li ghiacci, gli scintillii accompagnati dall’arpa).
(Per via di secreto il mollusco si produce la casa, che concresce cum illo: esoscheletro a me il mio sognare. Ne scende che di nessuna casa sognata sarò mai l’increativo paguro).
28 marzo.
Protocolli di sicurezza: certi sogni (certe case) sono cosà abominevoli che in germe hanno già un meccanismo di autodistruzione: non dico al risveglio, ma al loro stesso finire, per pia profilassi. E altri (altre) sono cosà ma cosà abominevoli, che si spengono al loro stesso esordire.
(Le case che sogno, allora, sarebbero solo un vestibolo, un atrio, l’invito a ben altra capienza). (E forse proprio per questo sono cosà complicate e infinite, perché girano intorno).
1 aprile.
[Una trentina di disegni in bianco e nero, e sei colorati].
Il grosso problema è cogliere il passaggio fra una casa e l’altra. Quand’è che l’appartamento diventa grotta? Quando la cantina vagone? Non colgo bene la soglia, ecco il problema; sovente non la colgo affatto.
M’induco, prima di addormentarmi, un compito ben preciso: varcata la soglia, remeare i miei passi per osservarla e riosservarla nel transito, essa soglia: all’indietro e poi avanti, all’indietro e poi avanti, ma sempre il punctum si sfoca, si nega.
(Inoltre sarebbe un modo per verificare se la casa o parte di casa da cui provengo resti uguale a com’era, ché il sospetto è il contrario: tornato, ricreare, riestendermi nell’infinita virtualità -casualità delle forme per potenzialità regressiva, e dunque perdermi).
(Sognando in effetti non abbiamo la minima idea di dove sia il Nord. C’è solo un di fianco, un di là : e soprattutto un di sotto!)
3 aprile.
Discreta congerie di sogni sentimentali, uno con una mezza promessa sessuale: come al solito, non mi interessa fermarli: essendoci una liquidità , in questi sogni, e un’intensità di emozioni, che scoraggiano a priori qualsiasi velleità di recupero grafico: e plastico. Ma se solo risogno la casa (le case, le incase e concase), oh datemi carta, e pennini! Date, date al geometra, al geografo, date al cartografo!
(L’illusione del quale, evidentemente, è di inverare il sognato: ma se invece trascrivendo e pingendo la si annullasse, l’onirocreatura? La si offendesse? Smaltendola magari, espellendone il lascito ascoso?)
5 aprile.
Oggi R*** ha curiosato fra queste carte: ne ha tratto, dice, l’impressione di un musico che provi il suo strumento senza incominciare a suonare davvero, anzi: proprio per non suonare. Ha quindi aggiunto trattarsi (gli schemi, i disegni, le mappe) di una specie di repertorio stilematico o retorico armamentario. Fosse cosÃ, l’opus mi attende, o lo realizzo già notte dopo notte, sognando? Ipotesi a dir poco atroce: non essere le mie trascrizioni il precipitato analitico e inerte di un’energia che si scatena compiutamente la notte, ma sogni ad occhi aperti sulla cui base io poi nottetempo imbastisco dei sogni. Non il posterius queste carte, dunque, ma il prius… (Perché «atroce», poi?)
7 aprile.
Questa notte c’erano bocche dappertutto, enormi, carnose, irto-grumose di palpi frementi, qualcosa fra la bocca del crostaceo e quella della pianta carnivora. Esalavano un alito infame, ma dentro (dentro) si intravedevano dei ritratti, ovali, seppiati, come le fotografie dei morti sulle lapidi. Su quelle persone dovevo girare un film, e poiché non avevo la minima idea di come fare, tecnicamente intendo, avevo rubato da un magazzino delle vecchie pizze cinematografiche per utilizzarle truffaldinamente e dedurne il mio film: ma orrore! una volta aperti i coperchi d’alluminio le pellicole ne fuoriuscivano in un groviglio inestricabile, oppure si sbriciolavano come mummie al contatto con l’aria, o mi tagliavano le mani con i bordi affilati, e io disperato angosciato mi mettevo a correre lentissimamente, in apnea, sapendo di essere inseguito da quelli che mi inseguono da decenni, le notti, nelle case, su e giú per le scale, o in equilibrio sui respingenti dei vagoni in movimento, fra una stanza e l’altra, sempre con un attimo di ritardo sul distacco, sull’altrui partenza e sui ghigni.
Bando alle ciance! Appena sveglio ho disegnato un po’ di quelle bocche oscene, ma appena ho cercato di inserirvi i ritratti di quei fantasmi non ci sono riuscito; o meglio, non ho voluto, e non ho voluto perché ho capito (avevo nel frattempo capito) che non c’erano mai stati, e che me li ero soltanto immaginati. Chi qui mi leggesse mi prenderebbe per pazzo, giacché tutto il sogno è sempre un’immaginazione, in ogni sua parte: eppure in qualche modo ho sentito, con spaventosa chiarezza, che quei volti mi era sembrato di vederli (m’era piaciuto, vederli, avevo deciso, di vederli, e me n’ero convinto), mentre le bocche no, le bocche le avevo viste davvero. Questo introduce nella natura del sogno una scissura ontologica fra l’apparenza e l’essenza, fra ciò che inventiamo e ciò che, incontrato in una dimensione oggettiva che in qualche modo ci trascende, inveniamo. Come dire, da una parte un trattamento artistico semiautomatico, dall’altra l’immodulabile sostanza del nostro subconscio: ma se del sogno noi siamo gli autori, non ne scende l’autorizzazione di quel medesimo arbitrio formale, nella cui alea si gioca la vera ipnotauromachia? Quei volti dunque, quei volti… Epperò non mi garba punto di disegnarli, anzi tanto piú li sospetto essenziali meno mi garba, a meno che, certo, questo dispetto non abbia efficacia retroattiva: non disegnandoli li retrocedo a belluria e li nego, anche se potrebbe essere un’astuzia per promuoverne l’essenziale inessenzialità , la maniera.
8 aprile.
Sogni sessuali, viscosi. Da ragazzo disegnavo frecce rivolte verso l’alto: i margini dei miei quaderni di liceo e di università ne son pieni. Quando ho letto che si tratta del piú trasparente simbolo fallico non ne ho piú disegnate per anni, finché un giorno mi sono detto: «Oh chi se ne frega»: e ho ripreso. L’unica differenza è che adesso ne disegno anche di orizzontali, rivolte a destra o a sinistra, e perfino qualcuna all’ingiú (piú le oblique). Oppure ne faccio una piuttosto grande, e al termine delle due alucce spioventi ne disegno altre due, e cosà via nella mise en abîme della freccia, cosÃ:
In ogni caso questa storia dei simboli mi ha sempre lasciato perplesso. Per la loro transitività , voglio dire. Un’ellisse è palesemente una vulva, ma è anche un occhio, è anche la mandorla-Cristo. Per Heidegger (famosa prolusione di Marburg), a motivo dei raggi, il sole era fallico (cfr. Iliade I: i raggi del sole sono le frecce di Apollo che sterminano i Greci): ma in tedesco Sonne è femminile.
11 aprile.
Perché non si dà anche un sonnabulismo grafico, che trascriva o disegni i sogni in tempo reale? (Si preverrebbe l’opacità del dopo-sogno, il crassume del risveglio, la distorsione indotta dal trapasso). E però, in tal caso, come escludere che l’atto grafico susciti un senso di controllo e dunque depotenzi la sostanza del sogno? Qualcosa come star naufragando e lÃ, nella furia dei marosi e lo schianto del legname, dipingere un pittoresco naufragio.
12 aprile.
Ci si avvicinerebbe di piú al mistero del sogno scrivendone, e alla scrittura aggiungere qualche piccolo schizzo, o disegnandone, e nei disegni inserire qualche piccola chiosa?
(Adolf Wölfli scrisse la propria autobiografia in cinquantamila pagine e migliaia di disegni che ora si insinuan...