Spazio Musica era un locale che aveva segnato la sua vita, Giulio ci aveva fatto il barista per un breve periodo e, quand’era all’università , le sue serate finivano lÃ. Quella sera ci andò con Tania. Il posto non era cambiato, forse trent’anni prima era piú politico – ricordava la bandiera rossa sotto la TV in attesa dell’esito delle elezioni – con uno studio di registrazione dove passavano tante band in fase di lancio. Oggi le band erano piú pop, con serate di cover e di improvvisazione, ma le stanze erano quelle: l’odore di chiuso, il palchetto basso in fondo e le birre alla spina all’ingresso. I ragazzi, compreso Ale, ci andavano spesso, in serate di musica indie o di nuovi gruppi dedicati a loro, ma non solo, facevano anche incursioni nei revival di De André, Led Zeppelin, Neil Young. Là le generazioni si mescolavano. Se Ale vedeva entrare suo padre gli sollevava il bicchiere di birra in lontananza, in un brindisi ideale, poi i tavoli dei ventenni e dei cinquantenni rimanevano distanti e la musica, la stessa musica, copriva discorsi diversi e umori sulla vita inconciliabili.
– Vado a prendere qualcosa da mangiare. Volete un tagliere? – Tania si alzò gridando a Giulio e Sabrina seduti al tavolo per superare l’assolo di batteria.
Sabrina era stata la compagna di stanza di Tania quando erano sbarcate da Sondrio insieme alla facoltà di Lettere, da allora era rimasta l’amica di coppia, la zia dei bambini e il loro sostegno prima delle verifiche a scuola quando erano diventati piú grandi. Insegnava Italiano al classico al mattino e in carcere ai detenuti al pomeriggio. Studiosa appassionata dell’Ariosto, fumava come una turca e imprecava come un camionista. Fatta fuori anni prima dalla carriera universitaria, single incallita, non aveva nessuno a cui rendere conto.
– Grazie, – rispose Sabrina.
Stavano facendo una cover dei Genesis. Il lunedà c’era la jam session, ognuno saliva sul palco alla rinfusa. Giulio non impazziva per quella confusione di pezzi, generi e capacità , ma Tania aveva insistito e alla fine aveva capitolato.
– Scusami, non sono di compagnia.
Sabrina si portò alla bocca la bottiglia di Corona, come per dire che lei compagnia l’aveva già .
– Come stanno i ragazzi?
– Fammi dare un sorso.
Lei gli allungò la bottiglia.
– Sono incazzati con me.
– Perché?
– Ale perché sono il mostro che ha leso i suoi principî sul mondo giusto.
– E Chiara?
– Perché sono il mostro che ha rotto la pace dentro casa.
– Esageri.
– Non credo. Ale mi urla contro. Chiara abbassa gli occhi e si chiude in stanza. In tutto questo Leonardo, il fidanzato di Chiara, che normalmente ha il pregio di parlare poco e di non prendere posizione, non ha trovato niente di meglio da fare che farsi spaccare il naso dai manifestanti che ho davanti al cancello, cosà ho pure lui sulla coscienza.
Sabrina scoppiò a ridere. Fragorosamente.
Giulio, spiazzato, la seguÃ.
Poi, con la sua voce bassa, raspa di fumo, Sabrina commentò: – Mi sembra tutto a posto. Fanno il loro dovere.
Giulio diede ancora una sorsata.
– Ma sÃ. Forse sÃ.
– I manifestanti cosa manifestano?
– Contro la Chandra. Contro l’azienda. Contro di me. Contro l’idea che in un programma informatico ci possa essere una sequenza che eviti un disastro peggiore se qualcuno si butta sotto una macchina spuntando dal nulla.
– Molto cattolico.
– Cattolico?
– Solo Dio può decidere qualcosa che riguarda la vita, – declamò ironica.
– Ma no, sono ragazzotti a favore dell’ambiente, contro l’uomo che manipola la natura.
Potevano parlare a voce alta, la musica copriva tutto. Giulio si accorse di provare piacere ad alzare i decibel, a buttare fuori la voce. Era stufo di bisbigliare e nascondersi.
– Sono stanco.
– Dagli tempo. Devono abituarsi all’idea. Camus ci ha messo tutta la vita a capirlo.
– Ti prego, filosofia no. Sono stanco.
– «Non amerò mai la creazione di un mondo in cui un bambino innocente muore», è lo scacco dell’umanità da sempre, lo dice Camus nella Peste1. Temo che i tuoi algoritmi ci siano andati a sbattere contro… insomma qualcuno devono incolpare.
– Lo stesso discorso del mio avvocato.
– Ma lui sarà uno stronzo e te lo dice per soldi. Io te lo dico gratis, – rispose distratta.
– Ti prego parlami d’altro. Di qualsiasi cosa. Questo gruppo suona da schifo.
Giulio diede un’occhiata ancora ai ragazzi sul palco. Indossavano una maglietta bianca con una palla rossa stampata sul petto, come delle bandiere del Giappone viventi. Cosa c’entrava il Giappone con i Genesis?
– Lo bocceresti un ragazzo che le prende da suo padre?
– Scusa?
Sabrina si avvicinò per farsi sentire meglio, perché il ritmo del basso copriva le sue parole.
– Non pensi mica di essere l’unico ad avere problemi morali. Questa mattina ho scoperto che un ragazzo del terz’anno, che con me ha tutti quattro, le prende dal padre che torna ubriaco dal turno di notte.
– Beh ma se ha quattro…
– Ho pensato di interrogarlo e alzargli la media… non lo voglio sulla coscienza.
– Come l’hai scoperto?
– È venuto a scuola con lo scaldacollo da sci, è la terza volta, ma oggi c’erano trenta gradi e gli ho detto di toglierselo, lui ha obbedito e gli ho visto i lividi. È diventato rosso e si è appoggiato al muro per non farsi vedere dagli altri e non sapevo se dirgli di rimetterselo o se cosà facevo peggio. Alla fine dell’ora gli ho chiesto di fermarsi ed è scoppiato a piangere come un bambino.
Giulio guardò sotto il palco un tavolo di liceali, potevano avere l’età di quel ragazzo. Ridevano tutti. Forse anche quel ragazzo veniva là e si metteva sotto il palco a ridere.
– Non barare. È piú triste la mia storia, – le disse sorridendo.
Tania tornò col tagliere e due birre.
– Meno male. Tuo marito ha finito la mia.
Si mise a sedere accanto a loro. Indossava i jeans e una maglietta, un fisico da ragazzina. I capelli, anche se raccolti con la spilla d’oro di una qualche prozia, non sembravano da signora, era come se li avesse fermati un attimo prima per essere libera di ballare, per non sentire il caldo che veniva da tutta la gente in piedi intorno ai tavolini.
– Di cosa parlavate?
– Di scaldacolli, – chiuse Giulio.
Tania alzò le spalle, senza chiedersi perché preferissero cambiare discorso.
– Mi sono arrivati i libri per il carcere. Posso portarteli domani, – rilanciò all’amica.
– Romanzi e fumetti.
A Tania piaceva dare una mano con i detenuti: procurava i libri omaggio dalle case editrici, organizzava gli incontri con gli scrittori all’interno del carcere. Era impazzita per convincere la sua biblioteca ad offrire un lavoro part-time a un ragazzo albanese in semilibertà e ce l’aveva fatta.
– Ti sembra il caso di tirare fuori il carcere?
Giulio si sentà uno stronzo per averlo detto. La possibilità che lui fosse arrestato si stava allontanando, e Tania gli era stata sempre vicina, aveva soffocato ogni giudizio, retto il timone nella comunicazione coi figli. Per la prima volta dopo giorni non si parlava dei suoi guai col processo ma del lavoro di sua moglie in biblioteca, qualcosa che avevano sempre condiviso insieme come cosa giusta. Allora perché era scattato? Non certo perché era uscito dai riflettori, sognava di potersi mettere in un angolo a guardare, e allora perché?
– Giulio non rompere, – tagliò corto Tania senza astio.
Non gli andava di assistere ai cuori belli, alla solidarietà continua, e Tania e Sabrina erano due campionesse in entrambe le cose. Gli piacevano entrambe, una se l’era sposata e all’altra aveva sempre voluto bene proprio per il suo essere una dura di cuore.
– Giulio, guarda il lato positivo: se ti arrestano avrai qualcosa da leggere –. Aveva sempre apprezzato l’umorismo ruvido, non ipocrita di Sabrina. Ma quella sera no.
– Vaffanculo anche tu.
Sabrina incassò.
Tania non disse niente, loro tre si conoscevano da troppo tempo, era inutile intervenire. Giulio e Sabrina avevano un rapporto loro, avevano litigato decine di volte, si erano confidati fino all’alba quando lei era stata sganciata da qualche fidanzato, insomma, se la cavavano da soli.
– Va bene. Non sono di buonumore, – si scusò Giulio.
Sabrina si buttò sul tagliere come se nulla fosse successo.
– Giulio, tu devi uscire. Fatti una partita a calcetto, vai al cinema, se non ti s...