Guardai fuori dal finestrino l’elica sull’ala dell’aereo da quaranta posti. Sotto di noi, lambita dal mare e dal sole, si stendeva un’isola color deserto. Nessuna vegetazione visibile, solo calcare giallo chiaro. Kalymnos.
Il comandante ci avvertí che forse l’atterraggio sarebbe stato turbolento. Chiusi gli occhi e mi appoggiai allo schienale. Fin da quando ero piccolo, ho sempre saputo che sarei morto precipitando. O, piú esattamente: precipitando dal cielo in mare per infine morire annegato. Ricordo addirittura il giorno in cui avevo avuto questa certezza.
Mio padre era uno dei vicedirettori dell’azienda di famiglia di cui il fratello maggiore, Hector, era il comandante in capo. Noi bambini adoravamo Hector perché ci portava sempre dei regali e ci faceva salire sulla sua auto, che era l’unica Rolls-Royce cabriolet di tutta Atene. Di solito papà rincasava dall’ufficio che io dormivo già, ma quella sera era tornato presto. Aveva l’aria stanca, e dopo cena aveva parlato a lungo al telefono con il nonno nello studio. Dalla sua voce avevo capito che era arrabbiato. Quando ero andato a letto lui era venuto a sedersi sulla sponda; gli avevo chiesto di raccontarmi una favola: lui aveva riflettuto un po’ e poi raccontato di Icaro e di suo padre. Abitavano ad Atene, ma si trovavano sull’isola di Creta quando il padre, un artigiano ricco e famoso, costruí un paio di ali con penne e cera per volare in cielo. La gente era fuori di sé dall’entusiasmo per quella prestazione, e il padre e l’intera famiglia godevano di grande rispetto ovunque. Un giorno diede le ali al figlio Icaro, raccomandandogli di fare esattamente come lui, di seguire la stessa rotta, e allora tutto sarebbe andato bene. Ma Icaro voleva volare altrove e ancora piú in alto del padre. E non appena si fu librato in aria, inebriato di trovarsi a un’altezza vertiginosa da terra e dalle persone, Icaro dimenticò che non si trovava lassú grazie al potere sovraumano di volare, ma alle ali che il padre gli aveva dato. Allora, spinto dalla baldanza, volò piú in alto del padre e si avvicinò troppo al sole, il quale sciolse la cera che teneva insieme le ali. E cosí, Icaro precipitò in mare. E annegò.
Da ragazzo ero convinto che la versione leggermente riveduta e corretta di papà del mito di Icaro fosse un avvertimento precoce diretto a me. Poiché Hector non aveva figli, sembrava logico che quando papà si fosse ritirato saremmo stati io e mio fratello maggiore a dirigere l’azienda. Solo una volta diventato adulto venni a sapere che all’epoca l’azienda aveva rischiato di fallire per colpa delle scriteriate scommesse sulle quotazioni dell’oro di Hector, che nonno gli aveva dato il benservito, ma per salvare le apparenze gli aveva lasciato tenere il titolo e l’ufficio. In pratica era stato mio padre a prendere in mano le redini dell’azienda. Non seppi mai se la storia della buonanotte che mi aveva raccontato fosse diretta a me oppure a zio Hector, ma deve aver lasciato il segno, perché da allora ho sempre avuto questo incubo: di precipitare e annegare. Ossia, certe notti il sogno prende la forma di qualcosa di caldo e piacevole, un sonno in cui tutte le cose brutte finiscono. Chi l’ha detto che non si può sognare di morire?
L’aereo vibrò e udii i passeggeri ansimare quando incappammo in due cosiddetti vuoti d’aria. Per qualche istante ebbi la sensazione di essere senza peso, e che fosse arrivato il momento, ma ovviamente non era cosí.
La bandiera greca si tendeva dritta dall’asta accanto al piccolo terminal quando scendemmo dall’aereo. Mentre superavo la cabina di pilotaggio udii uno dei piloti dire alla hostess che l’aeroporto stava per chiudere e che sicuramente non sarebbero potuti tornare ad Atene.
Seguii gli altri passeggeri che sfilavano in direzione del terminal. Un signore in divisa da poliziotto blu con le braccia conserte ci scrutava accanto al nastro trasportatore dei bagagli. Mi diressi verso di lui. L’uomo mi guardò con espressione interrogativa e io annuii in segno di conferma.
– Georgos Kostopoulos, – si presentò tendendomi una manona dal dorso coperto di lunghi peli neri. La stretta era ferma, ma non esagerata, come invece succede a volte quando un collega di provincia pensa di dover misurare le forze con la capitale.
– Grazie di essere venuto con un preavviso cosí breve, signor Balli.
– Diamoci del tu, chiamami pure Nikos.
– Scusa se non ti ho riconosciuto, ma esistono solo poche foto tue, e credevo fossi… ehm, piú vecchio.
Mi era toccato in sorte – probabilmente da parte di mia madre – quel genere di aspetto che non si deteriora con l’età. I capelli erano grigi e i ricci spariti, ma per il resto era intatto, e avevo mantenuto il peso forma di settantacinque chili, benché con una certa riduzione della massa muscolare.
– Cinquantanove anni non sono abbastanza, secondo te?
– Sí, certo! – Impostò la voce assumendo un timbro che immaginai fosse un po’ piú profondo di quello naturale, e mi rivolse un sorriso sghembo sotto un paio di baffi del tipo che gli uomini di Atene si erano tolti vent’anni prima. Però il suo sguardo era mite. Georgos Kostopoulos non mi avrebbe dato problemi.
– Forse è soltanto perché sento parlare di te da quando frequentavo l’accademia di polizia, e mi sembra sia passato parecchio tempo. Hai altri bagagli che posso aiutarti a portare?
Guardò la borsa che stringevo nella mano. Tuttavia, per un attimo pensai che si riferisse non solo a quello che avevo con me fisicamente. Non che avrei potuto rispondergli. Forse viaggio con un bagaglio piú pesante della maggioranza, ma è del genere che bisogna portare da soli.
– Solo questo, a mano, – risposi.
– Abbiamo trattenuto alla stazione di Pothia Franz Schmid, il fratello gemello dello scomparso, – disse Georgos mentre uscivamo dal terminal, diretti verso una piccola Fiat coperta di polvere e con il parabrezza macchiato. Immaginai che avesse parcheggiato sotto qualche pino per ripararla dal sole e l’avesse poi ritrovata sporca della dura resina che alla fine bisogna grattare via con un coltello. Cosí è. Se alzi la guardia per proteggerti il viso scopri il cuore. E viceversa.
– Ho letto il rapporto in aereo, – dissi mettendo la borsa sul sedile posteriore. – Ha detto altro?
– No, insiste sulla sua versione. Il fratello Julian ha lasciato la loro stanza alle sei del mattino e non è piú tornato.
– C’è scritto che era andato a fare una nuotata.
– Cosí sostiene Franz.
– Ma tu non gli credi?
– No.
– Immagino che le morti per annegamento non siano tanto insolite su un’isola turistica come Kalymnos.
– No. E avrei creduto a Franz se non fosse per il fatto che la sera prima si erano azzuffati in presenza di testimoni.
– Sí, l’ho letto.
Scendemmo serpeggiando giú per una stretta via piena di buche verso la valle, dove ulivi nodosi e casette bianche in pietra fiancheggiavano quella che doveva essere la strada principale.
– Hanno appena chiuso l’aeroporto, – dissi. – Suppongo che l’abbiano fatto a causa del vento.
– Succede in continuazione, – disse Georgos. – È lo svantaggio di costruire un aeroporto nel punto piú alto di un’isola.
Capii quello che intendeva: non appena ci ritrovammo tra le colline, vidi che le bandiere pendevano flosce lungo le aste.
– Per fortuna il volo che prendo al ritorno parte da Kos, – dissi.
La nostra segretaria della sezione Omicidi aveva controllato l’itinerario prima che il mio capo mi autorizzasse a partire. Nonostante la precedenza concessa ai rarissimi casi riguardanti turisti stranieri, mi aveva dato il benestare a condizione che gli dedicassi un solo giorno lavorativo. Perfino io, il leggendario agente investigativo Balli, che di solito avevo carta bianca, dovevo tener conto dei tagli al budget. E come aveva riassunto il capo: nel caso in questione non c’erano né un cadavere, né pubblicità mediatica, né tantomeno buoni motivi per sospettare un omicidio.
Anche se l’aeroporto fosse stato aperto, da Kalymnos non ci sarebbero stati voli per rientrare in serata, però ce n’erano dall’aeroporto internazionale di Kos, che distava quaranta minuti di traghetto, perciò lui aveva grugnito un sí. Si era limitato a ricordarmi che i rimborsi pasti erano stati ridotti e che avrei dovuto evitare i ristoranti turistici con prezzi maggiorati se non fossi stato disposto a pagare di tasca mia.
– Temo che neanche i traghetti per Kos facciano servizio, con questo tempo, – disse Georgos.
– In che senso, con questo tempo? Il sole splende e non c’è quasi vento, a parte lassú.
– Lo so, visto da qui sembra innocuo, ma prima di arrivare a Kos c’è un tratto di mare aperto, e là ci sono stati parecchi naufragi con un sole come questo. Ti prenoteremo una stanza in albergo. Chissà, magari domani si calma.
Capii da quel «magari domani si calma» – invece del piú tipico, ottimistico per eccesso, «sicuramente si calma» – che le previsioni meteo non erano a mio favore, né a favore del mio capo. Pensai scoraggiato al contenuto insufficiente della mia borsa, e un po’ meno scoraggiato al mio capo. Forse sarei riuscito a riposare un po’, ne avevo proprio bisogno. Sono il tipo a cui le ferie vanno imposte anche quando mi ci vorrebbero. Forse perché non avendo né moglie né figli sono poco allenato a fare le vacanze, che mi sembrano tempo sprecato e accentuano una solitudine peraltro scelta.
– Che cos’è? – domandai indicando la collina sul lato opposto. Completamente circondato da dirupi, s’ergeva quello che sembrava un paesino, ma non c’era segno di vita, pareva un modellino che qualcuno aveva scavato nella roccia grigia, un gruppo di casette di Lego, tutto cinto da un muro, tutto dello stesso monotono colore grigio.
– È Paleochora, – rispose Georgos. – Dodicesimo secolo, i Bizantini. Se vedevano avvicinarsi una nave ostile, gli abitanti di Kalymnos fuggivano lassú e si trinceravano. E c’è stato chi ci si è nascosto sia nel 1912, all’arrivo degli italiani, sia sotto i bombardamenti degli alleati, quando Kalymnos era una base dei tedeschi durante la Seconda guerra mondiale.
– Sembra una cosa da vedere, – dissi, evitando di aggiungere che né le case né le fortificazioni avevano un aspetto particolarmente bizantino.
– Be’, – disse Georgos, – è piú bello visto da lontano. L’ultima ristrutturazione risale al Sedicesimo secolo, a opera dei cavalieri ospitalieri. Inselvatichisce, si riempie di spazzatura, di capre, e perfino le cappelle vengono usate come gabinetti. Ci si arriva per le scale di pietra, ammesso che si riesca a salirle, ma poco tempo fa c’è stata una frana che rende il percorso ancora piú faticoso. Se ti interessa davvero, posso procurarti una guida in qualsiasi momento. Avrai un paesino di pietra tutto per te, questo è poco ma sicuro.
Naturalmente ero tentato, però scossi il capo. Sono sempre tentato dalle cose che mi respingono. Le versioni inattendibili. Le donne. I problemi di logica. Il comportamento umano. I casi di omicidio. Tutte le cose che non capisco. Sono un uomo con un intelletto limitato, ma una curiosità illimitata. Purtroppo, è una combinazione frustrante.
Come scoprii, Pothia era un vivace labirinto di case basse, di sensi unici stretti e di vicoli. Anche se la stagione turistica era finita da un bel po’ e novembre era alle porte, per le strade si vedeva parecchia gente.
Parcheggiammo davanti a un edificio a due piani nel porto, dove pescherecci e yacht non troppo costosi erano ormeggiati fianco a fianco. Un piccolo traghetto per passeggeri e auto e un altro veloce, con sedili sia sul ponte che in coperta, erano attraccati al molo. Piú verso l’interno del molo un gruppo di persone, evidentemente straniere, discuteva con un uomo che indossava una divisa marittima di qualche specie. Alcuni turisti avevano degli zaini con corde arrotolate che spuntavano da entrambi i lati della patta: avevo notato lo stesso particolare in qualche passeggero arrivato con il mio volo. Arrampicatori. Negli ultimi quindici anni, da isola balneare Kalymnos era diventata meta di arrampicatori sportivi da tutta l’Europa, ma era successo dopo che avevo appeso le scarpette al chiodo. L’uomo vestito alla marinara allargò le braccia come per spiegare che poteva fare ben poco e indicò il mare....