Oliva Denaro
eBook - ePub

Oliva Denaro

  1. 312 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Oliva Denaro

Informazioni su questo libro

«Io non lo so se sono favorevole al matrimonio. Per questo in strada vado sempre di corsa: il respiro dei maschi è come il soffio di un mantice che ha mani e può arrivare a toccare le carni».

È il 1960, Oliva Denaro ha quindici anni, abita in un paesino della Sicilia e fin da piccola sa - glielo ripete ossessivamente la madre - che «la femmina è una brocca, chi la rompe se la piglia». Le piace studiare e imparare parole difficili, correre «a scattafiato», copiare di nascosto su un quaderno i volti delle stelle del cinema (anche se i film non può andare a vederli, perché «fanno venire i grilli per la testa»), cercare le lumache con il padre, tirare pietre con la fionda a chi schernisce il suo amico Saro. Non le piace invece l'idea di avere «il marchese», perché da quel momento in poi queste cose non potrà piú farle, e dovrà difendersi dai maschi per arrivare intatta al matrimonio. Quando il tacito sistema di oppressione femminile in cui vive la costringe ad accettare un abuso, Oliva si ribella e oppone il proprio diritto di scelta, pagando il prezzo di quel no. Viola Ardone sa trasformare magnificamente la Storia in storia raccontando le contraddizioni dell'amore, tra padri e figlie, tra madri e figlie, e l'ambiguità del desiderio, che lusinga e spaventa, soprattutto se è imposto con la forza. La sua scrittura scandaglia la violenza dei ruoli sociali, che riguarda tutti, uomini compresi. Se Oliva Denaro è un personaggio indimenticabile, quel suo padre silenzioso, che la lascia decidere, con tutto lo smarrimento che dover decidere implica per lei, è una delle figure maschili piú toccanti della recente narrativa italiana.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
Print ISBN
9788806247973

Parte seconda

20.

Lo trovarono per strada. Accasciato in un angolo, il cappello era caduto a terra, la camicia era slacciata, lui si teneva il braccio. In paese si disse che stava andando da Paternò per farsi onore, ma armi addosso non ne aveva. Secondo il dottore Provenzano, si era fatto appena in tempo e dovevamo ringraziare la Madonna dei miracoli. Io sono favorevole ai miracoli.
Mia madre, quando lo vide nel letto dell’ospedale, scosse la testa: – Non ce lo fare piú, – lo rimproverò, e gli mise una mano nei capelli. Io non l’avevo mai vista toccargli una parte del corpo e capii che lui stava per morire.
A metà autunno però era ancora a letto. Parlava poco, come al solito, sempre guardava fuori dalla finestra verso il suo campo mentre io e Cosimino ci occupavamo delle galline, della capra e delle verdure. Andavo per lumache, mio fratello per rane. Quando tornava, ci mettevamo in tre attorno al secchio, mia madre, Cosimino e io, con i coltelli in mano. Accostavamo le sedie in camera di mio padre per fargli compagnia. Cosimino iniziava col tagliare la testa, che era la cosa piú pietosa, perciò lo aveva fatto sempre mio padre, prima di avere l’infarto. Colava molto sangue, che cadeva nel secchio. Allora la passava a me, e io tagliavo la punta delle zampe, alla meschina, e la consegnavo a mia madre, che cavava le interiora. Questo lavoro era faticoso ma valeva la pena, perché al mercato le rane già sistemate ce le pagavano di piú. Cosimino per tirarci fuori una risata incominciava con la storiella del processo, che aveva sentito raccontare fuori dal bar. Noi eravamo gli imputati davanti al giudice e ognuno si prendeva la sua pena. A me un anno, che avevo solamente troncato le zampe. A mia madre quindici anni, perché aveva inferto lesioni gravi. E a lui l’ergastolo, poiché dava il colpo mortale alle povere bestie. Il giudice però ci assolveva tutti per legittima difesa perché, se non ammazzavamo noi le rane, la fame ci ammazzava a noi. Si finiva a ridere, mentre nel secchio si ammucchiavano le zampe tagliate e le viscere rosse. Cosimino spiava mio padre con la coda dell’occhio per capire se lo faceva divertire, ma lui aveva la testa in un altro luogo, un po’ fissava le frattaglie delle bestie, un po’ allontanava lo sguardo, oltre i vetri, fino al punto in cui avevo seppellito il mio vestito, cosí mi sembrava.
Al mercato ci andava mio fratello, e quando tornava a casa i soldi li lasciava in un canestro di vimini sul comodino di mio padre, perché era lui il capofamiglia.
Una volta alla settimana veniva il dottore Provenzano e lo trovava bene, gli dava uno sciroppo. Io sono favorevole agli sciroppi: quando ero piccola mi venne l’irritazione ai bronchi e me ne somministrarono uno che sapeva di ciliegia. Finí che durante la notte scovai la bottiglia e me lo bevvi tutto. A forza di vomito me lo fecero rigettare, per il mal di pancia che ne ebbi.
Un giorno il dottore disse che mio padre era guarito e se ancora non si alzava era per un difetto di volontà. – E che significa? – chiese mia madre sospettosa. – Dopo un infarto può succedere, una specie di stanchezza di spirito, bisogna pazientare, – rispose. – La volontà non ce l’ha mai avuta, – disse mia madre. – Quanto ci vuole a farlo tornare come prima?
Provenzano si sfilò le lenti e sfregò gli occhi con le nocche come se volesse cancellarli. – Bisogna pazientare, – ripeté, poi non venne piú.

21.

Le prime settimane c’era stata la fila fuori dalla porta: uno usciva e l’altro entrava. Don Ignazio, Nellina, i contadini delle terre intorno e poi qualche curioso che voleva sapere come era andato il fatto. Debolezza di cuore, diceva mia madre, quelli annuivano pietosi ma si voltavano a guardare me. Con permesso mi ritiravo in camera, aprivo i libri di scuola e immaginavo di preparare l’interrogazione di latino per il giorno dopo, anche se ormai per me la scuola era finita: dopo l’incidente di mio padre mi avevano ritirata.
«Una ragazza perbene non ha bisogno di nessun diploma», aveva detto mia madre mettendo via il grembiule nero.
Fa niente, avevo pensato, tanto ormai mi andava troppo stretto.
Honesta puella laetitia familiae est, leggevo dal manuale del primo anno, e sfogliavo il vocabolario per ignorare le chiacchiere in cucina. «La fanciulla onesta è la gioia della famiglia», scrivevo in bella grafia sul mio quaderno. Avevano ragione loro, la debolezza nel cuore di mio padre ce l’avevo infilata io.
Delle Scibetta venne soltanto Mena, la figlia sottile. Disse che sua madre si scusava tanto, ma lei e la sorella erano state vittime di un cattivo raffreddore e adesso che si erano alzate non volevano prendere la ricaduta. La Scibetta sottile, da sola, era meno secca di come sembrava vicino alle altre due. Era poco piú grande di me, ma il timore di sua madre che rimanesse senza marito l’aveva già trasformata in zitella. Vale per tutte, finiamo per diventare come le nostre madri ci vedono.
– Cosimino non c’è? – chiese sistemandosi una forcina nei capelli. – È al mercato, tranquilla, – risposi immaginando la sua timidezza. – Siediti, Mena, – aggiunsi, e mi sistemai il grembiule sui fianchi, – gradisci un poco di caffè o acqua e menta?
– Ti ringrazio, Oliva, ma non ti devi disturbare, – rispose con una complicità che prima non mi aveva manifestato. – Vieniti a sedere qua, vicino a me.
Le volte che ero andata da loro per il rosario mai mi avevano invitata sul divano, come se fossimo state cose separate. Io, mia madre e Miluzza da un lato, e loro tre dall’altro. Mi sistemai accanto a lei. Mena mi prese la mano e se la mise in grembo. – Allora, come fu? – Le mie dita sfioravano la stoffa della sua gonna, impreziosita dal ricamo che io stessa avevo contribuito a eseguire giusto un anno prima. Su quel lavoro avevo faticato tanto e adesso non mi apparteneva piú, mi dava imbarazzo toccarlo.
– Fu infarto, – risposi io. – Lo trovò Cosimino lungo lo stradone…
– A me puoi dirlo, Oliva – mi interruppe lei, – che ti potrei essere sorella e ci sta confidenza.
Pensai che nemmeno con Fortunata, che sorella mi era davvero, ci eravamo mai tenute mano e mano. – Non so, Mena. Che vuoi che ti dica.
Mena si fece rossa nel viso, che sembrò ancora piú affilato. Gli occhi le brillavano come se stesse per piangere, ma non era addolorata.
– Il bacio, – disse poi in un soffio.
– Che bacio, Mena? – risposi confusa.
– Con me ti puoi svelare, Oliva. Resta solo tra di noi.
Ritirai di scatto la mano, sentii la stoffa scivolarmi sotto le dita, come quando l’avevo ricamata, punto dopo punto.
– Ti sei fidanzata e adesso ti senti superiore. E io che sempre ti diedi amicizia! – Mena iniziò a torcersi le mani, lacrime vere le si stavano formando tra le palpebre sporgenti.
– Niente bacio, niente fidanzamento, – dissi. – Non è persona che conosco. Né io né la mia famiglia.
Mena sembrò delusa, ma anche un po’ sollevata. Subito riprese la solita aria di superbia, scostò la sedia e mi guardò con malizia. – Se ne andò dal paese che era un ragazzo ed è tornato uomo fatto. Tutte dicono che è bello. A te non pare?
Sentii un’oppressione in petto, guardai verso mia madre per capire se ci stesse ascoltando e incrociai le braccia sul grembiule. – L’ho visto sí e no due volte, – risposi. – Non ci ho mai pensato.
– Ti invitò a ballare…
– Mi scambiò per un’altra, – tagliai corto.
– Dice mia madre che in questi anni è stato a vivere in città da uno zio che ha un’attività ben avviata perché la vita di paese non gli dava soddisfazione.
– Buon per lui, – borbottai.
Mena mi si accostò di nuovo per bisbigliarmi all’orecchio: – Pare che se ne è dovuto scappare in una notte per una questione di onore, – disse, tutta accalorata. Mi alzai bruscamente, rovesciando la sedia. Anche Mena si mise in piedi e mia madre si affacciò nella stanza per appurare cosa fosse successo. – Niente, donna Amalia, sto andando via, – balbettò Mena e si affrettò verso l’uscita. – Mamma vi aspetta a casa venerdí per il rosario. – Ti ringrazio, Mena, – rispose lei, – ma come vedi non mi posso muovere, con mio marito malato.
Feci un sospiro di sollievo. L’ultima volta ero uscita da casa loro scappando come se mi avessero scoperta a rubare qualcosa. Mi tornò tutto in mente: il sole che batteva, la piazza vuota, il succo rosso dell’arancia che macchiava i pantaloni bianchi e il sangue sulle mie gambe.
Mena lasciò i saluti per mio padre e andò via. Restammo io e mia madre in cucina a preparare la cena, tenendoci a distanza, come due che non vogliono contagiarsi l’una con l’altra.

22.

A messa stamattina ci vado da sola perché mia madre è andata a consegnare le lenzuola ricamate per il matrimonio di Tindara, la nipote di Nellina, la perpetua, che ha un anno piú di me e si sposa bene. Le regole della chiesa sono: alzati quando il prete dice «in piedi», siediti quando dice «seduti» e non staccare l’ostia dal palato con la lingua dopo aver preso la comunione.
Entro in chiesa col velo bianco in testa, mi segno e raggiungo la panca dove sono le altre. C’è anche Tindara, con le scarpe nuove e i capelli accrocchiati sulla testa, a sedici anni già sembra signora. Quando la funzione finisce, facciamo tutte capannello intorno a lei e Crocifissa la sommerge di domande. – E allora, com’è il marito tuo, a quale attore assomiglia?
Tindara si stringe nelle braccia. – Non lo so…
– Non lo sai se è bello o brutto? – insiste Crocifissa.
Lei abbassa la testa vergognosa e non risponde subito. – Io lo sposo non l’ho visto. Ha combinato tutto mia zia, – confessa infine.
Noi ragazze rimaniamo confuse. Credevamo che il matrimonio allo scuro fosse usanza dei tempi antichi. – Io porto in dono la mia purezza, – si giustifica Tindara, – e lui mi darà una posizione, – aggiunge ripetendo a pappagallo le parole che deve averle insegnato la perpetua. – È questo il fondamento di un matrimonio felice.
Noi non sappiamo che cosa rispondere, solo Crocifissa ha la prontezza di dire quello che tutte avevamo sulla lingua. – Non sai neanche come è fatto?
– Certamente, cosa credi? Mi ha mandato il suo ritratto a figura intera, – risponde Tindara con un tremore nella voce. – Ho controllato: niente gli manca.
– E che cos’è? Un colpo di fulmine per corrispondenza? – scherza Crocifissa.
– Ma almeno è sostanzioso? – si informa Rosalina sfregando pollice e indice come se sfogliasse banconote.
– Fa il rappresentante di commercio, – si pavoneggia Tindara. – È un uomo solido, – ci informa, e batte il dorso della mano destra sul palmo della sinistra, come a dimostrarne la robustezza.
– E se poi, – chiedo con timidezza, – quando lo incontri di persona non senti un trasporto, una gioia nel cuore? Tra una settimana dovrai stare nella stessa casa con lui giorno e notte…
Tindara si oscura e mi guarda con gli occhi ridotti a fessure. – Senti chi parla! Mica siamo tutte come te! – Le compagne intorno si zittiscono. – Tu il fidanzato lo scegli per strada, lo fai venire sotto casa a farti la serenata, ti fai baciare in piazza, davanti a tutti, a costo della salute di tuo padre! Il mio futuro marito è persona onorata e per non dare adito a pettegolezzi ha preferito che nemmeno ci incontrassimo, perché vuole che il mio candore risalti in faccia a tutti.
– Ma io non volevo dire…
– Tu invece ti sei messa in bocca alla gente. Ognuno in paese conosce Pino Paternò.
A udire il suo nome sento di nuovo quelle mani strette intorno ai fianchi, l’odore della pelle, e sono ingoiata dalla vergogna.
Le altre ragazze si dispongono a cerchio, come quando i maschi scommettono sui galli in combattimento: le bestie in mezzo all’arena e loro intorno a vederle scornare, solo che al centro del piazzale davanti alla chiesa ci siamo io e Tindara, due galline di pollaio.
– Sbrigugnàta la sorella e sbrigugnàta pure lei, – mormora Tindara tra i denti, e se ne va, seguita da Rosalina e Crocifissa. Resto nella piazza come un bottone spaiato e inizio a correre a scattafiato verso casa, anche se mi è stato proibito, i piedi vanno da soli mentre in testa mi ripeto: Rosa, rosae, rosae… Solo questo funziona per contrastare le maleforbici: correre forte e salmodiare in latino.
Quando arrivo, mi affaccio in camera da letto: mio padre non c’è, le lenzuola sono vuote, perfettamente lisce e rimboccate negli angoli. – Pà, – chiamo prima piano e poi ad alta voce, faccio il giro della casa, torno nella sua stanza, mi siedo sul materasso, i pugni sulle ginocchia, vorrei precipitarmi fuori a cercarlo, ma improvvisamente mi sento stanca, come se la mancanza di volontà di mio padre si fosse travasata dentro di me. Mi stendo, poggio la testa sul cuscino, dove per mesi l’ha tenuta lui, e inspiro il suo odore. Poi con grande sforzo mi rialzo e vado fuori nell’aia. Tra il pacciame ai piedi dell’ulivo, un contadino è chino sulle piante, con il cappello calcato sulla fronte, cava acqua dal pozzo per darla ai germogli. Gli corro incontro e gli getto le braccia al collo, mi aggrappo a lui come l’oliva acerba al ramo.
– Ho visto dalla finestra una pianta che aveva bisogno di un sostegno, – mi spiega con naturalezza. – Cosí mi sono alzato.

23.

Le sue mani dopo tanti mesi di inattività sono tornate lisce come quelle di un giovane. Assicura il fusto ancora verde a un paletto che ha fissato nel terreno, strappa alcune erbe cattive che crescevano intorno alla pianta togliendole nutrimento, sfiora le foglioline giovani tra pollice e indice. – Sono stato in casa troppi giorni, – dice mentre si solleva su un ginocchio. – Vieni, andiamo.
– Dove? – chiedo confusa.
– Metti il vestito buono.
Il vestito buono si trova sotto terra, a pochi metri da noi, vicino all’ulivo, avvolto nella vecchia borsa per i quaderni, non ho il coraggio di dirglielo. Lui si avvia verso casa, il sole è alto e non sembra piú autunno, sembra primavera. Dopo una mezz’oretta esce con l’abito della domenica, sbarbato e pettinato, è di nuovo forte e grande come gli dèi greci illustrati sui libri della maestra Rosaria. Solleva la stoffa dei pantaloni sulle ginocchia, si siede accanto alla porta e aspetta. Io corro in camera e tiro fuori dall’armadio la gonna gialla di mia madre che abbiamo rivoltato insieme per adattarla a me, non l’avevo ancora mai messa. Arrivo sulla soglia, lui si alza e mi prende sotto braccio.
Percorriamo lo sterrato fino allo stradone, mio padre cammina a testa alta e saluta ogni persona che incontriamo come se fosse tornato ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Oliva Denaro
  4. Parte prima. 1960
  5. Parte seconda
  6. Parte terza
  7. Parte quarta. 1981
  8. Nota.
  9. Il libro
  10. L’autrice
  11. Della stessa autrice
  12. Copyright