
- 256 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Informazioni su questo libro
C'è in questo libro l'invenzione di una forma, felicissima e leggera: il racconto in fiore, dove ogni uomo si staglia come un albero, a braccia aperte sotto il cielo. Una ramificazione di storie, intrecciate come l'edera, antiche come il grano, contorte e nodose e belle come i tronchi di olivo. Imparando a leggere le piante forse si scorgono le donne e gli uomini cosí come sono, nel ciclo spontaneo della loro natura, contraddittoria e vitale. Entrate sotto l'ombra dei rami in fiore: qui ci siete voi.
Cosa racconta questo libro? Di un uomo che piú vive piú dimentica, piú desidera piú si abbatte, piú legge e apprende, piú si ritrova confuso e impaurito: un po' come tutti. Per questo cerca qualcosa di stabile, dei punti di orientamento ben visibili. Solo che lui, a differenza di tanti, si rivolge alle piante, costruendo una sorta di romanzo atipico, in cui ogni puntata è come un viaggio (nell'infanzia, nel tempo, con le donne). In fondo, queste magnifiche creature sono qui da molto prima di noi e saranno le ultime a morire. Le piante sono dei fari, racchiudono simboli millenari, essenziali, nitidi. Riescono a sfidare le avversità e quindi ci offrono un modello di resistenza, perché con tenacia mettono in mostra la potenza delle contraddizioni: il desiderio di vivere e amare (espresso dal ciliegio) che può procurare frustrazione e insicurezza; la forza (della quercia) che ci può abbandonare all'istante, buttandoci nello sconforto; la democrazia come processo di adattamento tra profondità e superficie (l'olivo); la necessità di un rito di passaggio (grano), di un viaggio che comprenda una morte per rinascere. Questo libro è un oroscopo, un sismografo, una macchina del tempo, oltre che una sorta di botanica dei sentimenti. D'altra parte le piante sono uno strumento d'eccezione per affrontare la nostra misteriosa, divertente, intricata natura: somigliano a noi piú di quanto avremmo mai creduto. Al mondo esistono gli esperti di piante ed esistono gli scrittori: poi esiste Antonio Pascale, appassionato conoscitore della natura, uno dei narratori piú apprezzati della sua generazione. Come nessun altro sa interrogare gli alberi, ascoltandone la storia e l'intrinseca bellezza.
Cosa racconta questo libro? Di un uomo che piú vive piú dimentica, piú desidera piú si abbatte, piú legge e apprende, piú si ritrova confuso e impaurito: un po' come tutti. Per questo cerca qualcosa di stabile, dei punti di orientamento ben visibili. Solo che lui, a differenza di tanti, si rivolge alle piante, costruendo una sorta di romanzo atipico, in cui ogni puntata è come un viaggio (nell'infanzia, nel tempo, con le donne). In fondo, queste magnifiche creature sono qui da molto prima di noi e saranno le ultime a morire. Le piante sono dei fari, racchiudono simboli millenari, essenziali, nitidi. Riescono a sfidare le avversità e quindi ci offrono un modello di resistenza, perché con tenacia mettono in mostra la potenza delle contraddizioni: il desiderio di vivere e amare (espresso dal ciliegio) che può procurare frustrazione e insicurezza; la forza (della quercia) che ci può abbandonare all'istante, buttandoci nello sconforto; la democrazia come processo di adattamento tra profondità e superficie (l'olivo); la necessità di un rito di passaggio (grano), di un viaggio che comprenda una morte per rinascere. Questo libro è un oroscopo, un sismografo, una macchina del tempo, oltre che una sorta di botanica dei sentimenti. D'altra parte le piante sono uno strumento d'eccezione per affrontare la nostra misteriosa, divertente, intricata natura: somigliano a noi piú di quanto avremmo mai creduto. Al mondo esistono gli esperti di piante ed esistono gli scrittori: poi esiste Antonio Pascale, appassionato conoscitore della natura, uno dei narratori piú apprezzati della sua generazione. Come nessun altro sa interrogare gli alberi, ascoltandone la storia e l'intrinseca bellezza.
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Informazioni
Il cactus
Le donne spinose

Comunque Sara era contenta. La Copiapoa cinerea che le avevo regalato era la pianta adatta a lei – da quando eravamo fidanzati, era il primo regalo che apprezzava – e poi stavamo per partire.
Si rigirava tra le mani il vaso: – Che meravigliose spine –. Lo erano eccome: aculei neri affilati, arroganti, prepotenti.
Sí, era contenta, amava partire, anzi, forse mi amava solo quando partivamo.
Piaceva anche a me partire, certo con moderazione. Sulla strada, avevamo l’impressione di essere una coppia fatta per viaggiare, per godere delle sfumature dell’orizzonte, pianure e colline, ombre e luci, sprazzi di cielo e temporali, i nostri sguardi sempre concentrati su qualcosa: nuvole burrascose, campi di grano, ciliegi in fiore, faggi in foliage, pagine di libro e coccinelle. Quegli sguardi – diceva lei – erano cosí intensi che potevano scoppiare e illuminare il cielo: – Hai presente le onde magnetiche, le aurore boreali, hai presente?
No, non avevo presente, ma eravamo contenti: la Copiapoa cinerea, la città già svuotata, la macchina pronta, olio controllato, due settimane in giro con la mia Citroën 10, da Caserta a Roma, poi da lí Flaminia, gola del Furlo, Marche, Romagna e chissà dove. Era il 10 agosto 1987. Nel giro di pochi giorni avremmo avuto un litigio di quelli insanabili, e infatti dopo un mesetto ci saremmo lasciati. Quando successe, per come successe, pensai: che situazione kafkiana, anche se all’epoca avevo letto, sí e no, due cose di Kafka.
Giorni prima mi trovavo con Antonino in laboratorio per un’esercitazione di Chimica. L’avevo conosciuto nel momento esatto in cui mi ero iscritto ad Agraria, a Portici, ex reggia borbonica diventata sede della facoltà. Antonino era davanti a me in fila per pagare la prima rata. Ridemmo un po’ dei nostri nomi, Antonio e Antonino. Non fummo i soli. Nel corso degli anni, tutti i professori ci accoppiavano, Antonino e Antonio: facevano ’sta battuta scema, come se fossero sempre i primi a farla, ridevano e poi, appunto, ci accoppiavano per l’esercitazione.
Avevo (ho) incredibili difficoltà con la chimica e studiare il ciclo di Krebs con le otto reazioni che permettono alle cellule di utilizzare ossigeno e avviare la respirazione cellulare era una tortura, mi tornava la balbuzie di cui avevo sofferto da piccolo, e vallo a ripetere all’esame, senza inciampare, il ciclo degli acidi tricarbossilici, piú i vari ATP, NADH e FADH2, insomma tutti i passaggi del ciclo scoperto da sir Hans Adolf Krebs. Accadeva dunque, a proposito di respirazione, vuoi per la chimica, vuoi per la balbuzie, che mi sentivo soffocare, avevo bisogno d’aria, e Antonino mi accompagnava fuori. Io respiravo, lui fumava una sigaretta, si guardava intorno e qualche volta diceva: – Oh! ’Amma fa’ ’na cazzata?
Era un ragazzo bizzarro, un giorno si presentava a una festa in collina sciatto, ubriaco e barbone, un’altra volta in giacca e cravatta, lucido e raffinato. Una volta leggeva «il manifesto», un’altra volta «il Giornale».
Spesso con le ragazze era sopra le righe, faceva scherzi scemi, le prendeva in braccio e le buttava nei cespugli di mirto, perché si dovevano fortificare, erano mollicce; altre volte appariva serissimo, ascoltava con attenzione i loro problemi.
Poi ogni tanto diceva: – Oh! ’Amma fa’ ’na cazzata?
Una volta rubammo la mano di una statua borbonica alla sede di Agraria, staccatasi per le intemperie e caduta ai piedi della statua stessa; un’altra volta si prese degli alambicchi e distillò vari liquori; durante un’esercitazione di Botanica sistematica sottrasse semi di canapa, e nella sua stanza mise su una collezione di piante illuminate e riscaldate a dovere, pompate di azoto (pure quello, diciamo cosí, preso in prestito), che lussureggiavano che era una bellezza.
Comunque quel giorno dell’esercitazione di Chimica, durante la pausa, mi disse: – Oh! ’Amma fa’ ’na cazzata?
– Eh.
– Ci rubiamo una pianta?
– Ma dove? – chiesi.
– Al vivaio, ci stanno piante che non tiene nessuno.
– Ma quale vivaio?
– Ma come quale, vieni appresso a me.
– E come ce la portiamo? – chiesi ancora.
– Prima andiamo a vedere, – disse, – poi capiamo come: se no, che cazzata è?
Io pensai: ma sí, magari trovo una pianta per Sara.
Sara era una ragazza spinosa, non c’è dubbio. Sembrava non avesse niente da dire, mentre parlavi ti fissava e alzava il sopracciglio sinistro. Porca puttana, pensavi, sto facendo colpo, questa pende dalle mie labbra.
Non pendeva proprio per niente. Assorbiva, invece, tantissimo. Passavano infatti due giorni e ti diceva: – A proposito di quel discorso, – quale? non mi ricordavo mica, – cioè, non è cosí, non è come hai detto tu.
Non le piacevano le persone. E non si piaceva nemmeno lei. Soffriva l’immobilità, per certi versi. I divani, per esempio, la spaventavano. – Qua mi ingolfo, – diceva. – Qua ci muoio, divento brutta –. Era scocciata dai sabati sera: – Sempre gli stessi: non ce la faccio.
Poi però mi diceva anche: – Lo sai come vivono i casertani? Per strada: bar, locali, locali e bar, poi in macchina. A che serve la macchina? A stare per strada tutto il giorno e fermarsi, in doppia fila, davanti a bar, locali, locali e bar. Se proprio sei anticonformista prendi la macchina e da Caserta vai in un locale a Napoli, se sei pure avventuroso, allora vai in un locale a Roma, dal quale poi, verso le tre di notte, se sei proprio pazzo vai sempre in macchina a Firenze per prendere un caffè al bar, poi torni, in tempo per l’aperitivo in piazza a Caserta. Sai fra vent’anni cosa ricorderò della mia giovinezza? Io che stendo gli abiti fuori perché sono impregnati di fumo, quello assorbito nei bar, nei locali, nei locali e nei bar, in macchina, in doppia fila o tornando da Firenze.
Non sopportava il buio completo, quando dormivamo insieme dovevo tenere la serranda un po’ alzata. – Dài, ma come fai a dormire in una tomba? – mi diceva.
Ora aveva fame e mangiava di tutto, ora le veniva da vomitare perché aveva mangiato di tutto, poi giurava che era diventata anoressica, poi un attimo dopo giurava che no, con «anoressica» non intendeva dire esattamente «anoressica».
Mi ricordo dei dialoghi cosí:
– Mi viene da vomitare…
– Certo, – dicevo, – ti sei mangiata uno stinco di maiale intero.
– E ora mi viene da vomitare.
– Per forza.
Passava mezz’ora e diceva:
– Ho fame.
– Ma non ti veniva da vomitare?
– Se non mangio subito mi viene da vomitare, sento un vuoto allo stomaco.
Altre volte le dicevo:
– Ti amo!
– E di’, perché? Spiega.
– Ma che cazzo devo spiegare, non ti basta che ti amo? È una forza che sento, la sento solo con te, non ti basta?
– Ma che ti incazzi, – mi rispondeva, – sei un maschio umorale, prima dici che mi ami e poi ti incazzi, ma che hai, il ciclo? Comunque ho fame, sento un vuoto.
Ora era lasciva e ti sussurrava certe frasi sconce all’orecchio, ora era distante. – Non voglio scopare mai piú, – diceva, – mai piú nell’intera vita.
Una sera, stesa sul letto, mi disse all’improvviso con tono molto serio: – Penso di essere incinta, mi deve arrivare il ciclo e non lo sento, per niente, proprio per niente.
– Come? – dissi, e intanto mi strozzai con la mia stessa saliva. – Non è possibile.
– E mi sa di sí, – rispose, poi si alzò dal letto, si toccò la pancia: – Cazzo, mi sento il ciclo, – e di nuovo mi strozzai con la mia stessa saliva.
Detestava i cantautori, amava solo i Cure e i Jesus and Mary Chain, Bowie e Madonna, se proprio vogliamo parlare di pop di qualità. – Mi piace la musica, – diceva, – mica i lamenti dei cantautori italiani. C’è una tipologia di donna che per essere riconosciuta e accettata nei club progressisti deve amare i cantautori. Ma per me è un fatto estetico: sono brutti i cantautori, proprio brutti, e poi sono moralisti, tu vuoi spiccare il volo e loro ti dicono che non hai le ali.
I miei amici trovavano le donne divertenti poco sexy: è l’uomo che deve far ridere, secondo i ferrei dettami del maschio meridionale.
Ma Sara mi faceva ridere e piú ridevo piú la trovavo eccitante. Era convinta che in me vivessero piú persone, li chiamava i miei fratelli. Oltre ad Antonio c’era Hitler, un maschilista che amava comandare. – Cioè, – mi diceva al telefono la sera raccontandomi com’era andata la giornata, – incredibile, oggi pomeriggio ha bussato Antonio, ero cosí contenta, ma quando ho aperto davanti a me c’era Hitler. Cazzo, ma avvisami quando viene Hitler, mi ero preparata per uscire con Antonio: ho bisogno di saperlo in anticipo, anche per decidere cosa mettermi –. Poi c’era il camorrista, uno sbruffone, spendaccione, arrogante che amava andare nei bar, nei locali, nei locali e nei bar, spesso in macchina, fermandosi in doppia fila. – Ti giuro, ero uscita con Antonio, stavamo in villa con gli amici di Antonio, parlavamo di libri e di musica, stavamo benissimo e all’improvviso è arrivato il camorrista, ha detto a tutti: andiamo a prenderci un caffè a Firenze? E tutti: sííí. Mi è toccato andare fino a Firenze –. C’era anche il fratello stupratore, che era uno capace di indovinare il momento adatto per essere passionale, bravo a intuire quando i nostri corpi desideravano la stessa cosa, e a prendersela. – Ma mi spieghi perché l’unico fratello che sa scopare non viene mai? Solo una volta è venuto. Se lo senti digli di venire piú spesso.
– Ma perché invece di Scienze politiche non fai l’attrice comica?
Avevo un metodo con le ragazze. Fingevo indifferenza per tutta la serata, poi d’improvviso, come colpito da qualcosa, guardavo una e le dicevo: – Come sei bella! – Suscitavo interesse, cosí. Come se mi dedicassi solo a lei: nel grigiore della serata, c’era solo un colore. La ragazza in genere mi ringraziava ma si schermiva: – Non sono bella –. E io ne approfittavo per elencare una serie di particolari che solo io avevo notato.
Avevo fatto cosí anche con Sara, una sera, a Napoli, in una pizzeria di Fuorigrotta, tanta gente attorno a un tavolo. Lei si annoiava, era capitata lí per caso, trasportata da quelli della mia associazione, era la seconda volta che la vedevo: aveva gli stessi miei occhi, verdi con ampie gradazioni che dipendevano, avrei scoperto, oltre che dalla luce dai suoi umori.
Cosí le avevo detto: – Come sei bella, – e lei aveva alzato il sopracciglio sinistro e porca puttana, avevo pensato, è fatta, e invece solo quando finimmo di mangiare mi disse: – Sono bella sí, ma in che senso? Spiega, in che senso bella? Spiega, dài.
E che vuoi spiegare, aveva rotto il mio giochino, mi tornò la balbuzie.
Forse era questo che rendeva bella Sara: la continua ricerca di senso, come se la sua vita poggiasse su qualcosa di labile, di scivoloso. E il senso dunque era un sostegno, un conforto, un obiettivo, una necessità fondamentale. Una volta l’avevo portata a Marechiaro, al ristorante ’A Fenestella. Veranda sul mare, ricordo ancora la luce, cielo e mare vicinissimi, gli occhi di Sara come onde allegre di quelle che aspettano i bambini. – Hai visto? – mi disse. – A volte il camorrista è capace di belle sorprese –. Parlammo a ruota libera e finimmo a discutere di pessimismo e ottimismo. Le dissi che un mio collega di università, Antonino, era fissato con Kafka. Come lo scrittore, anche lui pensava che è tutto assurdo, la vita soprattutto, e tuttavia io credevo che sí, è vero, è tutto assurdo e insensato, ma proprio questa insensatezza rende la vita piú affascinante. Mi ricordo le nuvole, certi cumulonembi grigi e pesanti come incudini. Sara cambiò completamente umore: si alzò dal tavolo, cominciò a camminare su e giú per il ristorante, i lineamenti erano cosí tirati che ebbi paura si potessero lacerare.
– Non puoi rinunciare a cercare il senso nella vita, – disse, – mi fai incazzare, sei cosí arrendevole.
Risposi che non mi ero spiegato bene, e lei concluse: – Ecco, non ti spiegare piú –. La sera mi disse che a pranzo c’era stata una congiunzione astrale orribile, il camorrista insieme a Hitler: – Uno schifo, guarda, non li portare mai piú.
Arrendevole poi, dài. Avevo ventun anni. Facevo un sacco di cose. Per esempio, a metà del secondo anno di Agraria avevo deciso di prenderm...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- La foglia di fico
- Il cactus. Le donne spinose
- Il faggio. La compassione e le anime in pena
- Il ciliegio. Prove tecniche di fioritura
- Il tiglio. L’ombra e il trauma
- Il pino. L’immortalità (tentativi di)
- Gli agrumi. Il mistero del viaggio
- L’olivo. Il tormentato suono della democrazia
- La quercia e il leccio. La forza della vita e la maledizione della forza
- Il fico. L’eredità del desiderio
- Il grano. La natura umana, tra centro e periferia
- L’officina
- Il libro
- L’autore
- Dello stesso autore
- Copyright