Veniva da Dublino.
In quella città affollata, aveva lavorato in una merceria e vegliato sulla lenta morte di sua madre, ma poi aveva scoperto dentro di sé un desiderio inatteso di lasciare l’Irlanda e vedere il mondo. Si chiamava Clorinda Morrissey e quando arrivò nella città inglese di Bath aveva trentotto anni. Era il 1865. Non era bella, ma aveva un sorriso che esprimeva grande dolcezza e una voce lieve, capace di lenire e calmare l’anima.
Clorinda sapeva che Bath non era esattamente «il mondo». Ma le avevano detto che era costruita su sette colli, proprio come Roma, e che in primavera e in autunno ospitava «serate di gala e luminarie», tutte cose che nella sua mente avevano assunto contorni di splendore. Era anche un luogo, cosà aveva sentito, dove molti ricchi si ritrovavano per fare le cure termali o semplicemente per svagarsi, e dove si riunivano i ricchi c’era sempre da guadagnarci qualcosa.
Dal suo primo, misero alloggio su Arvon Street ai piedi della cittadina, dove i canali di scolo erano intasati di rifiuti e decine di maiali grufolavano di giorno e dormivano di notte, distesi nella propria confortevole lordura, Clorinda Morrissey cominciò il suo soggiorno a Bath lavorando come assistente di una modista, nel freddo scantinato di un negozio su Milsom Street. Era un lavoro deleterio per le mani. Pur rammentando a se stessa che le consentiva di «vivere», presto si rese conto che quel vivere non era poi cosà diverso dal «morire», e il pensiero di aver lasciato Dublino per ritrovarsi a soffrire di sfinimento e depressione la mandava su tutte le furie. Si ripromise di cambiare al piú presto il proprio destino, prima che le venisse meno l’entusiasmo.
Il suo unico oggetto di valore era una collana di rubini. Un esemplare di rara bellezza: venti gemme rosso sangue che si susseguivano su un delicato filo d’oro, come d’oro era anche il fermaglio di chiusura. Clorinda ne era venuta in possesso di recente, alla morte di sua madre, che a sua volta l’aveva ricevuta dalla propria madre defunta e cosà via, in un monotono avvicendamento. Per una lunga serie di anni, la collana era passata da una custodia all’altra. Le sue proprietarie l’avevano a malapena indossata, cosà si era piuttosto cristallizzata nella condizione di cimelio di famiglia, conservata in una scatola foderata di seta, immersa una volta ogni tanto nello spirito metilato per pulirla ed esporre all’aria la sua lucentezza. Per lunghi intervalli di tempo era stata dimenticata del tutto, come non fosse mai esistita.
Tra una generazione e l’altra si era insinuata la voce che la bisnonna l’avesse ottenuta «con mezzi disonorevoli», una voce che semmai invogliava ancora di piú la destinataria successiva a tenersela stretta. Tutte erano convinte che un giorno la collana di rubini avrebbe «trovato il suo vero scopo». Ma quale potesse essere questo scopo, nonostante le varie ipotesi, non fu mai stabilito. La collana rimase nascosta in luoghi curiosi: sotto le assi del pavimento, dentro una pendola rotta, nello scomparto segreto di un pensile vuoto, dove i bulbi di giacinto venivano accuditi in vaso nel buio dell’inverno.
Ma ora, mentre si affaticava a confezionare rigide cuffie per signora e fiori di tessuto da cucirci sopra, nel suo freddo seminterrato Clorinda Morrissey prese una drastica decisione riguardo alla collana di rubini. L’avrebbe venduta.
Alla voce interiore che protestava perché stava tradendo il ruolo della collana in quanto cimelio di famiglia da tramandarsi alle generazioni future, Clorinda rispose che lei non aveva figli, e quindi non c’erano «generazioni future» a cui tramandarla. L’idea che, per diritto morale, avrebbe dovuto lasciarla a una delle figlie di suo fratello, a Dublino, la prese sà e no in considerazione. Queste due nipoti, Maire e Aisling, non rappresentavano nulla per lei. Le trovava ragazze ottuse e cupe, e probabilmente neanche sapevano dell’esistenza della collana. E i rubini, si rendeva conto ora con una lucidità senza precedenti, non avevano alcun valore per nessuno, fintanto che quel valore non veniva quantificato e realizzato. Di sicuro, dopo che tutte quelle generazioni silenziose erano vissute e poi morte, era arrivato il momento che qualcuno li mettesse a frutto, giusto?
Per prima cosa portò la collana a un banco dei pegni. L’anziano proprietario si avvicinò all’occhio un oggetto a forma di tazza e con quello studiò attentamente i rubini. Mentre Clorinda Morrissey lo osservava con sguardo acuto, gli vide sfuggire dalla bocca un sottile rivolo di saliva che gli colò sul mento. Non si sbagliava nell’interpretare la reazione dell’uomo, quella di chi ha compreso all’istante che tra la paccottiglia di oro finto, ottone, vetro, avorio e peltro che di solito gli veniva offerta, finalmente aveva davanti a sé un oggetto di rara bellezza e valore. Mise via la lente a forma di tazza, si asciugò le labbra con un fazzoletto floscio, si schiarà la gola e fece a Clorinda un’offerta.
Ma non era abbastanza. Mrs Morrissey era fermamente decisa a cambiare la sua vita. Sapeva che quanto le veniva proposto, benché superasse di gran lunga ciò che avrebbe guadagnato in sei mesi di lavoro dalla modista, era comunque una miseria. Le risalà nel petto un odio violento verso quel cinico prestasoldi, un veleno rosso e spietato come le gemme stesse. Non si mise a litigare con quell’uomo spregevole. Gli strappò di mano la collana, la ripose nella sua scatola e si preparò a uscire dal negozio senza aggiungere una parola. Arrivata alla porta, sentà l’anziano che la richiamava per offrirle una cifra appena piú alta, ma lei proseguà oltre.
Il giorno seguente, pagò sei pence alla modista per avere in prestito una cuffia elegante, la indossò aggiustandosi con cura i capelli, infilò il suo cappotto migliore e scarpe pulite e si diresse a Camden Street, per recarsi in una gioielleria che serviva clienti dell’alta società . Il suo ingresso nel negozio fu segnalato dal melodioso tintinnio di una campanella sopra la porta, che Clorinda interpretò come un benvenuto.
La somma che Clorinda Morrissey ricevette per i rubini, pagata in sterline d’oro, siglata per ricevuta su un Atto di Vendita stampato a sbalzo e firmato con la sua migliore calligrafia, le suscitò uno stato d’animo di «assoluta risolutezza». Non chiuse occhio. Cucà le sterline dentro l’orlo di una sottogonna di cambrÃ. Volle convincersi che i suoi trentotto anni di vita erano trascorsi in una sorta di semioscurità , ma che d’ora in poi avrebbe camminato verso la luce. E sapeva esattamente dove voleva che quella luce si posasse.
Piú avanti lungo Camden Street c’era un locale commerciale in disuso. In precedenza aveva ospitato un’impresa di pompe funebri costretta a chiudere i battenti, cosà le dissero, «per via dell’insufficiente numero di morti in città ». Le spiegarono che sebbene Bath avesse una numerosa popolazione di persone malate e sofferenti, si trattava perlopiú di forestieri «importati in città », che arrivavano con la speranza di essere curati dalle acque termali e che di fatto guarivano – oppure tornavano a morire a casa loro. Le ripide colline tutto intorno alla città mantenevano forte e sano il cuore della popolazione. L’aria che si respirava – almeno nella parte piú alta della città – era molto pura, in confronto a quella di Londra e di molte altre località . Svaghi e intrattenimenti di ogni genere tenevano a bada angosce e afflizioni. Di motivi per morire ce n’erano effettivamente pochi.
Il locale delle pompe funebri, a ogni modo, era spazioso: un bell’ufficio sul davanti, con esposti diversi modelli di bare, ancora imbullonati alla parete. Le due stanze sul retro, un tempo adornate da costosi mazzi di fiori freschi e mantenute a temperatura quanto piú fredda possibile – grazie a un sistema di condotte di ferro che sfiatavano in un buio vicolo secondario – erano servite da «sale di veglia» per quei familiari in lutto che riuscivano a sopportare la vista e il tanfo di un cadavere imbalsamato.
Mrs Morrissey percorse avanti e indietro quei due spazi, cosà disposti per assecondare le consuetudini dei funerali inglesi. E capà subito che il suo spirito irlandese poteva adattarli in modo piú che soddisfacente alle sue necessità , a quella che mentalmente si raffigurava come la propria resurrezione. Si fermò davanti alla finestra che affacciava su Camden Street e rimase a osservare i numerosi passanti elegantemente abbigliati. Ripensò alla collana di rubini. Quasi si aspettava di vederla ornare il collo incartapecorito di qualche vedova facoltosa, ma poi rifletté sul fatto che non era esattamente il tipo di gioiello da indossarsi di giorno: andava piuttosto riservato per una di quelle «serate di gala» che nella sua mente sfavillavano di splendore e di cui tuttavia aveva sentito parlare ben poco, da quando era arrivata a Bath. A ogni modo la collana non era piú lo stesso oggetto. Si trovava sull’orlo vertiginoso di una profonda trasformazione.
Una volta firmato il contratto d’affitto e dopo aver ingaggiato degli operai per ristrutturare i locali, scrisse un cartello che attaccò con della colla per cappelli sulla porta d’ingresso del negozio. Recitava cosÃ: Prossima apertura in questo locale. L’Elegante Sala da Tè di Mrs Morrissey.
Ciò che Clorinda Morrissey voleva dalla sua impresa commerciale non era solo la possibilità di vivere in un modo che non assomigliasse affatto al «morire», ma anche di renderla famosa – un punto di riferimento, un’attrazione, una meta per i visitatori. Benché avesse avuto tanti amici a Dublino, le era sempre parso che nella grande vita della città lei non rivestisse la minima importanza. Era invisibile persino nel negozio di merceria dove lavorava.
Nelle taverne dove, una pinta di birra dopo l’altra, riusciva a stare al passo con gli uomini, nessuno la degnava di particolari attenzioni. Aveva avuto un pretendente, una volta, un ragazzo pel di carota che aveva attraversato la strada soprappensiero ed era stato investito da una carrozza postale del servizio notturno. In seguito, aveva ricevuto una proposta di matrimonio da un marinaio norvegese, e per un po’ si era chiesta se non le sarebbe piaciuto essere stretta da braccia cosà forti e straniere, cosà abituate al freddo. Alla fine, aveva deciso di no. Il giovane pel di carota era morto con lo sguardo rivolto al cielo; il norvegese sarebbe probabilmente caduto in mare e annegato. E allora si disse che dopo tutto non voleva veramente vivere con un uomo – o almeno non ancora, non finché non avesse trovato qualcuno dallo sguardo fermo e con i piedi ben piantati per terra. Voleva vivere per se stessa, viaggiare sulla propria strada. Quando si era imbarcata per l’Inghilterra aveva già deciso di reinventarsi come vedova, perché nella società inglese le vedove venivano considerate molto meglio delle zitelle – o cosà le avevano detto.
E ora avrebbe avuto il suo nome scritto in lettere d’oro sopra il negozio: L’Elegante Sala da Tè di Mrs Morrissey. Il futuro profumava di marmellata di lamponi, scones appena sfornati e fragrante torta al limone. Con un lattaio di Carter Street concordò un ordine importante per una fornitura, due volte a settimana, di panna del Devon.
Che fosse per la sua ottima posizione su Camden Street o perché gli operai di Mrs Morrissey avevano riesumato, da dietro l’esposizione di bare, un grazioso camino con canna fumaria funzionante dove poter accendere un fuoco di carbone per scaldare i clienti nei freddi pomeriggi autunnali, in breve tempo la sala da tè cominciò ad attirare un numero ragguardevole di persone.
In giro per Bath si sparse inoltre la voce che Clorinda Morrissey serviva una Victoria Sponge leggera come un cuscino di piume d’oca, che il suo tè era sempre Assam di primissima qualità , senza aggiunte di scarto, e che l’atmosfera della sala era tale da far sentire le persone come fuori dal tempo, in un’oasi o un’isola odorosa, un posto tra le cui pareti non poteva accadere loro nulla di male.
Questo grazie non solo al carbone che ardeva vivace e alle ottime torte, ma alla personalità della padrona di casa, Clorinda Morrissey, alla delicatezza con cui si muoveva tra i clienti e alla sua dolce voce irlandese, che permeava l’aria come una melodia confortante. Che si trattasse di una duchessa o della figlia di un commerciante, di un baronetto o del baritono del coro locale, Mrs Morrissey accoglieva la sua clientela sempre con un sorriso di squisita cortesia e comprensione, come se conoscesse quegli estranei in tutti i risvolti delle loro vite.
Ma non solo: con il passare del tempo notò con soddisfazione che alcune persone avevano iniziato a fare della sua sala da tè il luogo prescelto per conversazioni di grande intensità o per confessioni di importanza capitale. Osservando dal bancone, da dietro la seducente varietà di crostate alla marmellata, frittelle, panini glassati e muffin alla frutta, vedeva i clienti scansare l’alzata che posava sempre al centro del tavolo per protendersi l’uno verso l’altro, tanto che le teste quasi si toccavano. Li vedeva togliersi i guanti, prendersi le mani. Sentiva sospiri e risate e talvolta scorgeva lacrime che scorrevano su visi d’alabastro per poi cadere in una tazza di Assam. Tutto questo le riempiva il cuore di profonda gratitudine. Era finalmente qualcuno. Era Mrs Morrissey di Camden Street e l’umanità accorreva a cercare protezione nel suo grembo accogliente.
In quel particolare pomeriggio, arrivò per primo l’uomo.
Mrs Morrissey sapeva che si trattava del dottor Valentine Ross, uno dei tanti uomini di medicina che si guadagnavano un buon tenore di vita grazie alla processione di invalidi che andavano a Bath per le cure termali e che, per guarire dai loro acciacchi, volevano essere incoraggiati a seguire quella o quell’altra cura da medici le cui vertiginose parcelle finivano con l’essere rassicuranti.
Era sulla trentina, forte d’aspetto, di statura media, e con capelli neri che cominciavano appena a diradarsi. Forse gli affilati occhi azzurri tradivano una punta di crudeltà , ma nei confronti di Mrs Morrissey aveva sempre usato maniere impeccabili. Spesso si era recato nel locale da solo, non per mangiare, ma solo per sorseggiare del tè e fumare un sigaro, e con l’aria di chi, dietro la piú convenzionale delle apparenze, intrattiene di nascosto pensieri complicati o ribelli. Talvolta aveva intrapreso educate conversazioni con Clorinda Morrissey, chiedendole di Dublino, delle sue gioie e dolori, della sua ricchezza e povertà . Ascoltava sempre con attenzione e una volta le disse che «si vergognava» di quanto poco conoscesse il mondo al di fuori di Bath.
Suo fratello minore, le raccontò, era un esploratore nel campo delle scienze naturali, e al momento si trovava a lavorare sull’isola del Borneo, nell’arcipelago malese. Questa sua indole straordinariamente avventurosa faceva sentire Valentine Ross «un provinciale», o almeno cosà ammetteva, aggiungendo però che non poteva farci nulla. Non era il genere d’uomo che bramava vedere diluvi torrenziali e foreste pluviali impenetrabili alla luce. E non riusciva neanche a comprendere del tutto – cosà disse a Clorinda Morrissey – il desiderio dell’uomo bianco di scoprire «tribú sperdute» in parti del mondo che nessuno aveva ancora disegnato su una mappa, mentre era piú propenso a credere che quei popoli fossero felici nella loro «sperdutezza» e appagati della vita che conducevano.
– Sono assolutamente certa che abbiate ragione! – aveva risposto Mrs Morrissey. – Quanto a me, mi piace il clamore della città . Ma quando ero bambina, mia madre ci...