L'altra casa
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L'altra casa

  1. 384 pagine
  2. Italian
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L'altra casa

Informazioni su questo libro

Una villa del Settecento in mezzo alla pianura. E un quartetto di personaggi in crisi, ossessionati dal fallimento e dal bisogno di soldi. La casa li avvolge e li sconvolge, per metterli definitivamente di fronte al proprio destino.«Immaginò che da qualche parte potesse esserci l'ingresso di un tunnel segreto che conduceva alle viscere della Terra, in una caverna oscura che conteneva il cuore grasso e pulsante della casa. Un cuore enorme, un cuore tripartito come quello dei rettili e collegato alle vene e ai capillari vegetali che percorrevano muri e tetto».A cosa siamo disposti a rinunciare per seguire le nostre passioni? E quanto delle nostre passioni siamo pronti a trasformare in merce, per il denaro e la posizione sociale? Maura ha rinunciato a quasi tutto per la musica, ma adesso non sa se riuscirà piú a cantare come prima: è un soprano piuttosto famoso che ha appena subito un intervento alla tiroide, e ha pure smesso di credere nel legame sentimentale con Fred, il suo agente. Tuttavia ha accettato lo stesso di partecipare all'evento culturale che lui e Marco stanno organizzando in una villa alle porte di Bologna, evento in cui lei dovrà interpretare i cavalli di battaglia di Giuseppina Pasqua, la cantante lirica amatissima da Verdi alla quale era appartenuta la casa assieme al suo misterioso giardino. Ad aiutarla a prepararsi sarà Ursula, la moglie di Marco: è nata in Russia e sarebbe diventata una pianista classica se la sua infanzia non fosse stata segnata dall'abbandono. Presto nella villa cominciano ad accadere fatti inquietanti e senza spiegazione, che trascinano prima le due donne poi anche gli uomini in una spirale di allucinato sospetto. Indagando in modo originale il rapporto tra passione e sacrificio, ma anche le ombre della maternità, la ferocia e l'urgenza delle relazioni umane, e l'affascinante mistero del tempo, Simona Vinci racconta il momento in cui, davanti a tutte le nostre mancanze, siamo costretti a decidere della nostra vita. E lo fa con una costruzione narrativa che ci incanta e imprigiona come la villa in cui è ambientata.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
Print ISBN
9788806244828
eBook ISBN
9788858437988
Parte prima

Il rintocco della mezzanotte

Apparendomi dopo mezzanotte, quando i sogni son veri.
ORAZIO, Satire

1.

maggio 2019.
Non aveva voluto vedere le fotografie della casa.
– Mi fido, – gli aveva detto, – va bene tutto, andrà bene comunque.
Non lo aveva ascoltato mentre le raccontava del piano inferiore e di quello superiore della villa, collegati da una scala di marmo a due rampe, degli ambienti – quattordici in tutto, tra cui cinque camere da letto – che si aprivano su due maestose logge passanti con il pavimento a scacchi, color crema e rosso scuro al piano terra e crema e grigio al piano nobile. Gli ambienti, «È una cosa romantica, dovrebbe piacerti», prendevano il nome dai colori degli intonaci di pareti e soffitti. Lo studio rosso, la sala da musica verde, la camera blu e la camera gialla, il bagno rosa e la stanza celeste degli armadi a muro. Aveva continuato a descriverle il salottino rosa al piano superiore, unito tramite una porta segreta, quasi invisibile, alla camera da letto blu, una stanza doppia con un muro ad arco nel centro, le cui finestre affacciavano sul parco, «Un giardino all’italiana o all’inglese? O, piuttosto, d’ispirazione francese?» Non se ne intendeva, lui, di giardini, si scusò. Però sapeva che c’era una fontana di pietra dalla quale emergeva una figura di donna: il corpo drappeggiato in una tunica, i capelli ondulati raccolti sulla nuca; da una brocca versava acqua sulla testa di carpe giapponesi, rane e ninfee rosa e bianche.
Lei non voleva sapere niente, non le serviva, e mentre gli indicava i bagagli ai piedi del letto, pensò con fastidio che, comunque, una traccia di tutte quelle parole, di tutti quei dettagli, la sua memoria l’avrebbe di certo trattenuta.
Le valigie erano quattro: due trolley con le ruote consunte e la superficie coperta di polvere e due sacche da palestra.
Maura aveva continuato a mettere e togliere per giorni, come se con il reiterato spostamento lo spazio per magia potesse aumentare. L’unica valigia davvero buona e capiente l’aveva distrutta e buttata alla fine dell’ultima tournée in Grecia, nel dicembre scorso, e adesso non aveva nessuna voglia di andare a comprarne una. Non era portata, per i bagagli, vestiti troppo leggeri o troppo pesanti, scarpe sbagliate per la stagione o per le occasioni. Sotto le dita scorrevano le stoffe a buon mercato – pile, nylon, viscosa – dei suoi abiti quotidiani. Maglioni sbiaditi con le palline di lana infeltrita, calze pesanti ruvide all’interno, mutande macchiate di vecchio e indelebile sangue mestruale. Non era brava neanche con le lavatrici. Avrebbe dovuto buttare tutto, ma il solo pensiero di dover poi sostituire quella roba con qualcos’altro la stremava. Uscire, provare, mettere e togliere.
Le butterò al mio ritorno, pensava, verrà un giorno che mi ci metterò d’impegno: svuoterò ogni cassetto dell’armadio, appaierò i calzini, farò un grande sacco con tutte le cose ormai inutilizzabili e lo porterò al cassonetto per la raccolta degli abiti usati.
Maura non aveva mai avuto una passione o un interesse particolari nei confronti dei vestiti, neanche da bambina. I costumi di scena, invece, erano un’altra cosa. Erano, come aveva detto qualcuno che non ricordava piú chi fosse – probabilmente uno scenografo o un costumista –, scorze e bucce che racchiudevano il frutto e facevano solo presagire sentimenti, inclinazioni, profumi, sapori. Gli abiti della vita quotidiana secondo lei non dovevano raccontare storie, semmai nasconderle; perché quando non cantava Maura voleva essere invisibile, non lasciar indovinare niente di sé. Indumenti senza carattere, faccia anonima, lineamenti banali, confusi tra centomila altri. Forse era stata la sua volontà precisa di insignificanza a permetterle di essere, in scena, tante donne diverse. Aveva sempre desiderato soltanto questo, da un certo punto in avanti: vivere nei volti di altre, nei loro gesti, nelle loro parole, nelle note. Nessun essere umano può essere piú reale di un personaggio. Attraverso la voce, Maura aveva desiderato incarnare donne che, al contrario di lei, fossero splendide e immortali.
La realtà è sulla scena e in nessun altro posto.
Ogni volta che il sipario si chiudeva e le luci in teatro si riaccendevano, mentre gli applausi scemavano fino a estinguersi e la gente cominciava ad alzarsi per andare a riprendere soprabiti e cappotti, lei scivolava lontano. Aveva di nuovo una storia banale, un nome non amato, una faccia ordinaria, un corpo utile ma senza eccellenze, e le mancava la parte da recitare, il carattere giusto, il destino giusto. Spogliata di parte, carattere e destino era una lumaca nuda, una gola rosea e dotata, che a quel punto però non aveva piú alcuna funzione. Lasciava cadere l’ultimo capo di scena e si ritrovava faccia a faccia con le magliette di lycra consunte, gli stivali sbucciati in punta: sé stessa, la brava bambina, la studentessa modello, la cantante capace ma non eccelsa, la figlia e l’amica devota, l’amante premurosa. Maura Veronesi. Un nome impresso su carte di credito e debito, un indirizzo e-mail, una vecchia pagella impeccabile, un codice fiscale, un conto corrente intestato, un nome vergato a mano con una penna a sfera su una cartolina da Rimini o Milano Marittima, «Bacioni dalla zia!», una cassetta della posta in un bilocale in affitto all’ultimo piano di un palazzo nel centro di Bologna, zona Saragozza.
Si mise seduta sul bordo del letto davanti al trolley che vomitava stracci. Di fronte c’era la parte di armadio che usava Fred quando passava da casa sua – due camicie bianche stirate nelle buste di plastica della lavanderia, un completo giacca e pantalone, un sacchetto di biancheria pulita e un paio di scarpe nere lucide con la punta squadrata – e le ante a specchio semiaperte riflettevano pezzi di lei. Un ginocchio nudo e screpolato. Un avambraccio con i peli troppo scuri. Da quant’era che non li sbiondiva? Gennaio? Forse febbraio, addirittura. Marzo.
Non marzo, no, era impossibile.
La linea di demarcazione, la crepa, il taglio, lo strappo definitivo stavano proprio lí, a cavallo tra il mese di febbraio e quello di marzo.
Adesso era la fine di maggio.
Fred entrò nella stanza e le si piantò davanti.
– Allora?
Allora cosa, pensò Maura, però non disse niente.
– Ancora qui, stiamo, a fare le valigie? Tra poco andiamo, abbiamo detto, no? Io poi nel pomeriggio devo ripartirmene con la signora, lo sai. Le medicine le hai prese? Ti ho ritirato la scorta ieri, le avevo lasciate in cucina.
Frugò, senza la minima discrezione, nelle buste di plastica con i cosmetici e la roba da bagno: shampoo, balsamo, olio per il corpo, dozzine di campioncini di creme snellenti e scrub che Maura non avrebbe mai usato e che probabilmente erano già scaduti.
– Vabbe’, a quelle ci penso io, ché è meglio. Qui non ci sono. Sicuro come l’oro che stanno ancora dove lo ho messe.
Maura non lo ascoltava. L’anta dell’armadio a specchio era piú interessante. Oltre a una porzione della gamba sinistra e al braccio, adesso vedeva anche una porzione di volto: i capelli scuri attorcigliati dietro l’orecchio, un livido sulla mascella che non ricordava di avere. La cicatrice orizzontale che le tagliava in due il collo alla base, ancora rossa e slabbrata. Pensò di chiedergli se le aveva comprato anche i cerotti per cicatrici, quelli all’acido ialuronico che le aveva prescritto il chirurgo, ma di sicuro lo aveva fatto, erano sulla lista delle medicine. – E tu?
La voce di Maura bloccò Fred mentre usciva dalla stanza, la sua figura alta e massiccia copriva quasi per intero il telaio della porta.
– Io, cosa?
– Qui ci verrai, ogni tanto?
Lui si girò a guardarla, appoggiato allo stipite.
– Se è per la casa, non ti devi preoccupare, la donna di servizio verrà una volta a settimana a controllare che ogni cosa sia in ordine, a bagnare le piante e a prendere la posta. E, tra l’altro, se un giorno ti serve proprio di tornare puoi farlo, no? C’è il trenino, vieni e te ne rivai.
– Non è per la casa.
– Hai paura?
Non gli rispose, tanto Fred era già in cucina, e comunque lui non si aspettava mai una vera risposta.
Paura? E di cosa?
Si buttò all’indietro sul letto, con un braccio coprí gli occhi e all’improvviso tutto il bianco di tende, lenzuola, pareti, soffitto divenne buio. Un nero violaceo sotto le palpebre. Quiete. Silenzio.
Di colpo immaginò l’altra casa, quella che l’aspettava.
Le finestre come occhi spalancati, la porta, una bocca gentile, senza denti, che la risucchiava.
La immaginò di mattoni rosa, ricoperta d’edera vellutata, con lunghe tende color porpora a difendere gli interni dal sole troppo intenso dell’estate in pianura.
Era la fine di maggio, e dopo un inizio di primavera incostante e un freddo prolungato, faceva già molto caldo. In che modo avrebbe trascorso quelle ore odiose del primo pomeriggio che erano state segnate sulla tabella di marcia giornaliera con la dicitura «riposo»? Soprattutto, come avrebbe fatto a dormire la notte in quel posto estraneo? Con le sue ansie, le manie, i rumori, e il materasso, e la luce che filtra dalle persiane, la polvere, gli insetti. Come avrebbe potuto, la casa – una casa che da tanto tempo non ospitava nessuno –, corrispondere ai suoi bisogni, aderirle, quasi fosse una pellicola protettiva? Non aveva voluto dire niente a Fred di queste perplessità perché sapeva benissimo com’era fatto lui: dormiva ovunque, mangiava di tutto, andava di corpo regolarmente e non sopportava lagne e musi lunghi.
Aveva accettato, e adesso non poteva tirarsi indietro.
La villa, che era appartenuta a una famosa cantante lirica della seconda metà dell’Ottocento, Giuseppina Pasqua – intima amica del maestro Verdi –, era disabitata da parecchio. La proprietaria desiderava far tornare a vivere quel posto con tutto il suo carico di storia. Fred, tenendo conto del periodo di ferma di Maura, aveva preso al balzo l’opportunità, con l’idea di ricavarne un business. Aveva coinvolto un imprenditore che conosceva e sua moglie, una pianista russa. Gli eventi d’apertura erano previsti per settembre e avrebbero dovuto incentrarsi sul repertorio della Pasqua legato a Verdi; ci sarebbe stato il concerto di un importante quartetto d’archi che avrebbe eseguito il Quartetto in Mi Minore, e nel corso della seconda serata Maura avrebbe dovuto cantare qualche aria, accompagnata dalla pianista.
Cantare, adesso. Settembre non è lontano come sembra.
Nel tentativo di calmare la marea di pensieri ansiogeni, Maura visualizzò le carpe cui Fred aveva fatto cenno. Le pareva di ricordare che si chiamassero Koi. Una volta ne aveva vista una gigantesca, a Venezia, in Ca’ Rezzonico. Da poco c’era stato il terremoto delle Marche e Maura aveva ancora paura. Mentre beveva un bicchiere di champagne in compagnia del vicesindaco di Venezia e del sovrintendente del teatro la Fenice, sotto un lampadario a foglia d’oro, le era parso di vederlo oscillare un po’ troppo, aveva temuto che si schiantasse su di loro e le era risalito il liquido in gola. Aveva infilato lo scalone di corsa, senza dare spiegazioni a nessuno, scendendo in equilibrio instabile su un paio di tacchi altissimi. Si era sentita ridicola e sciocca, ma era stato piú forte di lei, e quando era arrivata giú, nel piccolo giardinetto davanti al palazzo, si era seduta sul bordo di una vasca di pietra giusto in tempo per farsi riprendere da un custode in divisa che le aveva intimato di alzarsi subito.
«Non si fuma, non si posano bicchieri sul bordo e non ci si siede sulla vasca di pietra, per cortesia».
Maura non aveva fatto in tempo a dire nulla e neanche a pensarci, a cosa avrebbe potuto dire a sua discolpa – tra l’altro lei neanche fumava –, ma d’istinto aveva abbassato gli occhi, come una bambina timida, e aveva incontrato il muso della carpa Koi. Era grande quasi quanto un viso umano, le labbra prominenti spinte in fuori come per un bacio. L’antica fontana con lo zampillo che la conteneva doveva essere diventata per lei un incubo angusto, date le dimensioni raggiunte. Gli occhi erano due globi opachi sormontati da palpebre gonfie, e ai lati della bocca aveva due bargigli di carne che dondolavano nell’acqua.
Il custode si era avvicinato, lo sguardo era diventato meno severo.
«Dicono che abbia piú di settant’anni».
Maura lo aveva fissato in silenzio.
«Settant’anni dentro quella vasca di pietra? Perché vivere cosí a lungo?» le era poi scappato con un fil di voce.
L’uomo aveva finto di non sentire o forse non aveva sentito per davvero, si era passato il palmo delle mani sul bavero della giacca.
«Quando c’è l’alta marea e arriva l’acqua salata dobbiamo toglierla e metterla al sicuro: le carpe sopportano il freddo, il ghiaccio, tutto, ma l’acqua salata no. Sono pesci d’acqua dolce».
Le scaglie dorate e bronzee della carpa luccicavano sotto la luce del lampione.
Perché costringere un pesce d’acqua dolce in una vasca di pietra collocata proprio in una città in mezzo alla laguna?
«Va ghiotta di piselli e anguria».
Gli occhi dell’uomo adesso erano lucidi, commossi. Era evidente: gli importava piú della carpa che di molte altre cose. Il mondo in effetti è pieno di persone imperscrutabili, capaci di mostrarsi feroci e inflessibili con i propri simili e di riversare strane dosi d’amore segreto sulle bestie. Impeti vergognosi e umidi di gerarchi nazisti che baciano in bocca i loro cani e megere che si annusano il dito con voluttà dopo averlo passato sul buco del culo di un gatto persiano.
Cosí lei aveva preso fiato e si era decisa a risalire le scale e a tornare al suo aperitivo col sovrintendente e il vicesindaco. La gonna di taffettà si era sfilacciata in un punto dell’orlo tutto sommato abbastanza nascosto, doveva reggere ancora mezz’ora al massimo, poi Maura avrebbe potuto farsi riportare in hotel da uno dei motoscafi agganciati al pontile a pochi metri da lí, che aspettavano la spola degli ospiti. Ma i tacchi, la gonna con lo strascico, la fatica. Senza contare che Fred non avrebbe approvato.
Di quella due giorni veneziana di tre anni prima non avrebbe mai potuto immaginare che si sarebbe ricordata della carpa Koi nella fontana piú che del resto. E dire che era stato il preludio al suo ruolo migliore e alla serie di recite che le aveva regalato, oltre alla notorietà, anche una discreta tranquillità economica, almeno per un anno.
Gli ultimi abiti che Maura aveva indossato in scena erano stati proprio quelli di Amneris, l’anno prima alla Fenice. Tra prove e recite, aveva visto Aida e Radamès morire decine di volte: inghiottiti dalla terra, schiacciati, sepolti vivi dalla pietra fatale. Le bocche spalancate per ingoiare l’ultimo sorso d’aria e lasciarlo defluire insieme al canto. Traditori. Maledetti. Infami. Eppure aveva invocato pietà, per loro. E pace, per tutti.
La portiera della macchina si era chiusa in via D’Azeglio, quel giorno dell’ottobre scorso, e Maura li aveva guardati, stringendo la busta della farmacia con i risultati delle analisi del sangue.
La donna saliva veloce, con la sua ridicola stola di pelliccia argentata, in una mattina d’autunno ancora tiepido, i tacchi alti e sottili, le calze velate.
Maura l’aveva spiata dal marciapiede, stretta nel vecchio simil eskimo blu, i jeans stinti con le ginocchia strappate e gli anfibi sporchi di fango, il cappuccio sollevato sulla testa e tirato sopra la frangia. Loro non l’avevano vista.
Anche a lei Fred aveva consigliato scarpe eleganti, e gliene aveva pure regalato un paio, sandali dorati con le fascette e il tacco dodici, finito dentro un baule di plastica insieme a tutte le altre calzature che non metteva mai, le suole ancora intonse, le fibbie lucide, le stringhe ben annodate in un fiocco preciso, da esposizione in vetrina.
Loro non erano stati inghiottiti dalla terra: la portiera si era chiusa, Fred aveva messo in moto...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’altra casa
  4. Parte prima. Il rintocco della mezzanotte
  5. Parte seconda. Il nero cacciatore
  6. Parte terza
  7. Il diario del plastico
  8. Il saggio di Maura
  9. Ah! Di che fulgor, che musiche. di Maura Veronesi
  10. Nota dell’autrice.
  11. Ringraziamenti.
  12. Nota al testo.
  13. Il libro
  14. L’autrice
  15. Della stessa autrice
  16. Copyright