1. «Vada avanti, coraggio».
«Vada avanti, coraggio». Le parole dell’anziano pontefice suscitarono in me sorpresa insieme ad ammirazione. Giovanni Paolo II non era neppure riuscito a leggere per intero il breve discorso preparato in occasione dell’udienza (aprile 2002) per i quindicimila aclisti pervenuti da tutta Italia e radunati nell’aula Paolo VI in Vaticano.
Eppure, in quel corpo ormai minato dalla malattia, albergava una forza indomita e una volontà di colpire l’interlocutore con poche parole capaci però di lasciare un segno.
Ero giunto al quarto anno di presidenza delle Acli e quelle parole furono come un risentire, in chiave personale, il suo messaggio iniziale: quel «Non abbiate paura» con cui si rivolse alla folla convenuta in piazza San Pietro nel giorno della sua elezione.
Che cosa volevano dire per me quelle parole? Perché un papa, che a mala pena si reggeva sulla sedia, che ormai faticava a parlare, che sembrava a tratti assente, mi spingeva a non temere di allargare i confini dell’azione sociale dell’organizzazione di cui avevo la responsabilità?
Quella frase mi è tornata in mente piú volte, specialmente nei momenti piú difficili, quando devi scegliere la strada da imboccare e nel decidere ti ritrovi necessariamente solo con la tua responsabilità.
Le parole di Giovanni Paolo II diventavano cosí una stella polare, un monito a non aver paura, a osare, ad affermare senza timore la radicalità e l’integralità della proposta cristiana.
In questo tempo cosí carico di incertezze e di spaesamento, è riemersa un’espressione cara a Romano Guardini: «il distintivo cristiano». So che evocando il «distintivo cristiano» molti sono subito tentati dal prendere le distanze, evocando il pericolo di un cristianesimo separato dal mondo, chiuso nella sua roccaforte, incapace di dialogare con tutti. Cosí non è. Ricordo che nel Congresso delle Acli dell’aprile 2004, un paragrafo della mia relazione aveva come titolo Il noi cattolico. Subito, dall’interno dell’associazione e da interlocutori esterni, piovvero critiche di neointegralismo, di voglia di rivincita cattolica, di un voler schierare i cattolici contro il resto del mondo. Forse l’espressione poteva contenere qualche ambivalenza, ma il genere delle reazioni – ve ne furono peraltro anche di molto positive – mi convinse della necessità di insistere.
La questione si è ripresentata piú volte: quando nel 2001 diedi vita, insieme ad altri, a un collegamento tra realtà associative di cristiani denominato Retinopera; nelle manifestazioni per la pace dal 2001 al 2004; nel referendum sulla procreazione assistita del 2005; nell’aprile del 2006, quando mi sono candidato nelle liste della Margherita; e infine in occasione della risoluzione del Senato del 19 luglio 2006 sul finanziamento europeo della ricerca sulle cellule staminali.
Fatti e situazioni alquanto diversi che presentano però alcune costanti, sia perché portano in emersione problemi nuovi nel rapporto tra valori e politica, sia perché ridefiniscono la collocazione dei cattolici nei vari schieramenti politici.
Quando abbiamo chiamato a raccolta i movimenti cattolici a Genova nel 2001, criticando una deriva pericolosa delle manifestazioni antiG8, sono stato attaccato perché avevo evidenziato un profilo distintivo dei cattolici nella critica ai processi di globalizzazione. Da lí nacque un termine che ha avuto fortuna – new global – che segnalava un’originale presenza dei cattolici tra i movimenti per la pace e no global.
Quando è stata creata Retinopera, subito molti, a sinistra, hanno paventato il rischio di una possibile rinascita della Dc o il ritorno di una voglia di «grande centro».
Quando le Acli si sono schierate, con chiarezza e senza infingimenti, per l’astensione nel referendum sulla legge 40 nel giugno del 2005, ci hanno appioppato l’etichetta di «brigate» agli ordini del cardinal Ruini.
Quando con Paola Binetti, in occasione delle elezioni politiche del 9-10 aprile 2006, abbiamo inviato a tanti elettori credenti una lettera dove indicavamo gli impegni che intendevamo assumerci candidandoci con la Margherita, siamo stati accusati di voler fare i supercattolici, il braccio armato della Cei nel centrosinistra e via enumerando.
Insomma, sia sul versante sociale che su quello politico, piú volte è emersa una certa allergia al fatto che dei cattolici, pur nella loro autonoma responsabilità laicale, si esprimano insieme su temi politici, sociali o istituzionali, anche in quanto cattolici.
Ricordo a questo proposito che, nell’autunno del 2005, mi chiamò il presidente Scalfaro, per sollecitare un impegno delle Acli nella raccolta delle firme per richiedere il referendum popolare sulla riforma costituzionale varata dal governo Berlusconi. Vedendomi titubante, prima Scalfaro fece leva sul fatto che nel Comitato ci dovesse essere almeno una grande realtà associativa cattolica; poi sul dovere, per un credente impegnato nel sociale, di non dimenticare la grande lezione dei padri costituenti. Infine spazzò via i miei ultimi dubbi con questa inequivocabile affermazione: «Se nella mia vita politica avessi combattuto solo le battaglie che sulla carta apparivano vincenti, probabilmente sarei rimasto in poltrona ad aspettare quasi sempre!» Come a dirmi che le buone battaglie vanno combattute in ogni caso, ancorché perdenti. E ciò per dei cristiani associati è quasi un dovere.
Piú in generale, finito il tempo della Dc – partito che raccoglieva il consenso di molti elettori cattolici – è emersa una specie di riflesso condizionato, una paura a vedere riuniti dei cattolici per qualche obiettivo politico e sociale. E tale allergia è tanto piú estesa a sinistra per una duplice ragione: perché sui temi progressisti – la pace, la solidarietà, la lotta alla povertà – si ritiene di avere quasi un’esclusiva; e invece sui temi considerati di destra – la famiglia, la vita, la scuola – i cattolici dovrebbero semplicemente adeguarsi al «dogma» dei diritti individuali, eretti a principio assoluto e intangibile, a criterio etico che non può essere sottoposto ad alcuna possibilità di critica.
A destra, invece, il prurito scatta quando dei cattolici vogliono tentare un lavoro comune su temi delicati e decisivi per il nostro domani; qualsiasi compromesso o mediazione viene bollato come cedimento, tradimento, svendita, incoerenza con i «principî non negoziabili». Quando c’è invece da schierarsi su temi di «sinistra», il mutismo di questi cattolici è quasi assoluto, come se i credenti dovessero pronunciarsi in pubblico solo in alcune occasioni e l’ancoraggio alla propria cultura, ai propri valori dovesse essere evocato in modo selettivo.
Chi fa politica ha il dovere di conseguire un risultato che sia all’insegna del bene comune possibile in quel determinato momento, salvaguardando altresí quei principî nei quali ritrova le ragioni del proprio operare. La sua responsabilità non è semplicemente di proclamarli ma, attraverso la mediazione della politica, di farli vivere nelle leggi dello Stato. Mediazione senza la quale la politica semplicemente scompare, non esiste piú come possibilità di ricercare soluzioni condivise pur partendo da posizioni diverse.
2. Due derive: moderatismo e fondamentalismo.
C’è un nuovo conflitto attorno al tema della laicità. Si invoca Cavour – «libera Chiesa in libero Stato» –, si alimentano campagne che ricordano un anticlericalismo che si pensava defunto.
È una laicità di combattimento quella espressa dalle correnti laiciste ben presenti nel nostro Paese. Non una laicità di distinzione e di rispetto, ma una vera e propria ideologia, quasi una nuova religione con i propri assunti indiscutibili.
Lo Stato certo deve essere laico, cioè non sposare alcuna confessione religiosa o dettame etico. Ma la società civile invece è il luogo dove trovano espressione le diverse culture, convinzioni, confessioni. È dal dialogo tra queste che può nascere un ethos civile condiviso. Non dal loro ignorarsi o dall’essere confinate unicamente nello spazio privato nella coscienza dei singoli.
Di fronte a questa insorgenza culturale vi sono due evidenti derive tra i cattolici che hanno responsabilità pubbliche.
La prima è quella che identifica e riduce la presenza dei cattolici alla categoria del «moderatismo». Il cattolico in politica è per definizione moderato; la sua presenza tende a scolorirsi, a diventare non solo irrilevante, ma soprattutto insignificante. L’involucro del moderatismo lo avvolge fino a ingessarlo, fino a renderlo marginale nella forza politica o nella coalizione in cui opera.
Già nel 1999 e nel 2000, sia il cardinale Martini che il presidente della Conferenza episcopale, Camillo Ruini, avevano chiaramente identificato questo pericolo.
Martini, nel discorso di Sant’Ambrogio del 1999, diceva:
Tra queste forme pericolose di adulazione sta anche la persuasione o meglio il pregiudizio diffuso che chi opera in politica ispirato dalla fede debba distinguersi sempre e quasi unicamente per la sua moderazione. C’è certamente una moderazione buona, che è il rispetto dell’avversario, lo sforzo di comprendere le sue istanze giuste, e anche la relativizzazione dell’enfasi salvifica della politica. Ma per quanto riguarda le proposte, le encicliche sociali vedono il cristiano come depositario di iniziative coraggiose e d’avanguardia. […] C’è nella dottrina sociale della Chiesa la vocazione a una socialità avanzata. Essa ha caratteri diversi da quella, attualmente in auge, di tipo radical-individualistico-libertario-fautore dei soli diritti individuali – nella quale per lo piú viene fatto risiedere il progressismo. Quella cattolica è piuttosto una socialità di tipo relazionale, che punta sui diritti della persona, delle comunità a cominciare dalla famiglia, dei gruppi sociali e infine dello Stato di tutti: una socialità che non scollega mai la libertà dalla responsabilità verso l’altro. Dentro questo disegno, il credente dovrebbe tendere a prendere parte politicamente per il valore umano piú a rischio, che è di solito marginale.
E, in modo ancor piú esplicito, il cardinale Camillo Ruini, introducendo la 43sima Settimana sociale dei cattolici italiani, tenutasi a Napoli nell’anno 2000, affermava che un «pluralismo indifferente» rischia di condurre i cattolici verso un «indifferentismo etico». Ruini, seppur partendo da un presupposto diverso, affonda il dito nella piaga. Quell’involucro del moderatismo si traduce per lui nel «rimanere prigionieri di una sindrome di subalternità o di un semplice gioco di difesa o reazione».
Come mai quel vasto e plurale mondo di opere educative, caritative e sociali – che ancora caratterizza la presenza dei cattolici in Italia – non è in grado di generare pensiero e cultura politica, di contribuire a dare forma in modo significativo alle istituzioni della nostra comunità?
Come mai i cattolici stanno diventando sterili nella capacità di influenzare gli orientamenti del costume sociale e dei modi di sentire piú diffusi nel Paese?
Non viviamo piú in una società di cristianità; l’Italia è da tempo Paese profondamente secolarizzato nei riti, nei miti e negli stili di vita; se non si fa esplodere la comoda e consolante rappresentazione di cattolici come componente «moderata» degli schieramenti politici, si finisce per costringere al soffocamento e alla sterilità culturale il pensiero sociale della Chiesa e la sua straordinaria carica di senso e novità. Come diceva Paolo VI, i cristiani devono essere degli «scompaginatori della stagnazione» e non dei condannati alla moderazione.
Se la prima deriva va sotto il nome di moderatismo, la seconda potrebbe essere catalogata come fondamentalismo. Una corrente culturale che mutua stile e contenuti dalla piú nota corrente conservatrice molto influente negli Usa, che è stata denominata teocon.
Gli assertori nostrani di questa posizione assumono la difesa dei valori cristiani e dell’Occidente come una bandiera politica. Facendo coincidere cristianesimo e Occidente compiono però un’operazione discutibile non solo sul piano storico – il cristianesimo è nato in Oriente – ma anche sul piano dottrinale. Cattolico significa infatti universale, e la Chiesa mai potrà essere ridotta dentro l’involucro di una sola cultura. Siamo di fronte a un uso della religione a fini politici, per ridare a un Paese incerto e confuso un’identità che è venuta meno. Il leader dell’opposizione, Silvio Berlusconi, al Meeting di Rimini del 2006, ha a questo proposito evocato «l’Italia cattolica e degli italiani». Un’espressione che richiama il bisogno di radici, di appartenenza, di comunità, di identità. Bisogno che si cerca di soddisfare attraverso una fede ridotta a semplice religione, sovrapponendo a pratiche di vita secolarizzata un richiamo ambiguo alla tradizione, a una religione d’ordine piuttosto che a una scelta personale capace di cambiare la propria vita e quella degli altri.
Non di meno gli «atei devoti» – come ha scritto Andrea Riccardi – hanno sfidato i cattolici con una domanda vera.
Non dobbiamo dar loro lezioni come parroci di seconda categoria, dicendo che non si può parlare di ruolo del cristianesimo senza la fede. Quando negli anni Sessanta-Settanta c’erano i comunisti devoti, molti si scioglievano per un complimento alla Chiesa che la assolvesse dalla sua collusione con il capitalismo. Giuliano Ferrara ha capito bene che il tessuto italiano non tiene senza il cristianesimo. Il problema è che nel centrosinistra il discorso sul ruolo del cristianesimo è bloccato da pudori che sono figli di una cultura passata.
Una frase dello storico francese Rémi Brague riassume in modo mirabile la condizione paradossale del cristiano tenendolo ben lontano dalle sirene del fondamentalismo.
Noi siamo degli alberi piantati al contrario. Le nostre radici non sono nella terra ma in cielo. Noi siamo radicati in ciò che come il cielo non si può afferrare, sfugge a ogni possesso. Non si possono piantare bandiere su una nuvola.
Come a dire: il cristianesimo non è sequestrabile. Da nessuno, neppure dai teocon.
3. Bipolarismo politico o bipolarismo etico?
Le due derive prima indicate portano alla ribalta i valori come sorgente necessaria della politica, come radice etica del vivere civile.
La deriva del moderatismo conduce a un esito di rassegnazione. Si dice: i valori sono materia infiammabile, bisogna maneggiarli con cura. Altrimenti esplode tutto. Questo eccesso di prudenza ha un esito scontato: una sostanziale irrilevanza dei valori nell’azione politica.
L’altra deriva – quella fondamentalista – coglie una novità; nella società postsecolare, i valori sono rilevanti nella vita delle persone, proprio in quanto ...