Si potrebbe andare tutti al mio funerale
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Si potrebbe andare tutti al mio funerale

  1. 152 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Si potrebbe andare tutti al mio funerale

Informazioni su questo libro

Accade tutto in una villa in Romagna, un posto dove parenti, amici e colleghi sono riuniti per dare l'ultimo saluto a Diego Abatantuono e dove ogni cosa sembra possibile. Enzo Jannacci fa iniezioni a base alcolica, Paolo Villaggio trascina un carrello coi bolliti, Ugo Conti spinge un'altalena, i Gatti di Vicolo Miracoli si radunano intorno a una piscina. Tra gli spettri amati del passato e gli affetti ancora vivi e presenti, Diego si muove incerto: è vivo anche lui o è morto davvero? Nell'arco di una serata immersa in un'atmosfera onirica dal sapore felliniano, ogni incontro diventa il pretesto per scavare nella memoria. Il risultato è un racconto corale in cui, con passione e ironia, si rievocano difficoltà, successi, lunghi sodalizi e momenti di intimità mai rivelati prima. «Sono morto.
È un sogno, vero? Un sogno che comincia dalla fine. La mia.
Un fatto eccezionale, parlandone da vivo.
No, dico, siamo sicuri che sia vivo?
Siedo sul letto. La stanza adesso è deserta, ci sono io soltanto. Mi vedo. Oppure vedo uno seduto sul letto che mi somiglia da matti. Alzo il braccio. Lo alza anche lui. Mi tocco il naso. Lo fa anche lui. Sembro dentro una comica di Stanlio e Ollio. Oddio, piú Ollio, dato il girovita».
Una veglia funebre si trasforma in una grande festa, un'occasione unica per celebrare l'amore e i legami di una vita. Ricordi, visioni e confessioni di un attore che ha saputo fare del divertimento un'arte, sotto i riflettori come nel privato.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2022
Print ISBN
9788806248116

1.

Il capo Apache somiglia a mia zia. Sta ritto, impettito, di fianco al letto. Le braccia incrociate, la pelle color cuoio. Indossa una pelliccia. Una pelliccia di coniglio col collo di polenta, di un bel giallo vivo, anche se mia zia è morta da un pezzo.
Mi guarda con la severità tipica dell’Apache che scruta un viso pallido. Penso: viso pallido cosa, che sono abbronzato. Dico: – Buonasera –. Niente. Forse dovrei dire «Augh».
Mi viene da ridere. Zia, come ti sei conciata?
Sono sdraiato sotto un lenzuolo candido, ho gli occhi chiusi ma ci vedo benissimo. Vedo e sento. Rumori indistinti, provengono da fuori, dal giardino. Sarà la tribú accampata in attesa del Geronimo, qui, che non accenna un segnale, anche perché non fuma, al contrario di mia zia, la sigaretta sempre in bocca.
La luce che filtra tra le persiane mi fa pensare al tramonto e io, in questa fase del giorno, fine pomeriggio, a letto mai e poi mai. È una porzione magica della giornata, farcita di pozioni alcoliche possibilmente, magiche anche loro. Acqua di fuoco, butto lí al «Gero», che comunque non fa una piega. Mah.
Due linee di febbre? Due litri di vino? Forse è stato quello, a stomaco vuoto mi sa, magari chiedo al grande capo un po’ di polenta, sempre che non si offenda. Mi sono buttato giú un attimo per riprendermi e adesso va meglio, avvolto in un tepore da lettone, come sospeso in un limbo, in una pace.
Da quanto sono messo cosí? Un minuto, dieci, mezz’oretta. Abbastanza per far partire lo sceneggiato. Di che genere è presto per dirlo, spero non sia un western, con tutto il rispetto per gli apache e per John Wayne.
Non è un western. C’è mia madre Rosa, adesso, nella stanza. Sorride, tiene in mano un vasetto, lo apre e subito si diffonde un odore inconfondibile, l’odore del Vicks. Rosa si china, le dita impregnate di pomata. Comincia a spalmarla sul mio petto, i gesti sono lenti, sono carezze che riconosco, identiche a quelle ricevute da bambino, quando bastava un colpo di tosse per scoperchiare il vasetto del Vicks e far circolare nell’aria quel profumo che alludeva a un’ipotesi probabilissima: domani a casa, niente scuola. Colpo doppio e massimo: a casa da scuola durante la settimana della Fiera Campionaria e, in aggiunta, film trasmessi in televisione ogni mattina. Toast e aranciata Sanpellegrino sul divano.
È seria, tutta presa, continua a strofinare, la mia mamma. Geronimo, che poi sarebbe sua sorella, fa dei gesti con le mani, le braccia tese, neanche fosse una estrema unzione, mentre io viaggio, torno là, in un tempo remoto, in un’altra casa, la nostra al Giambellino. Ho tre anni. Niente film in tv. C’è Padre Mariano, il frate cappuccino senza schiuma. «Pace e bene a tutti», dice. Un predicatore indefesso, alla tele tutti i santi giorni. Parla di Gesú, sorride, si direbbe che a una estrema unzione non pensi affatto, meno male.
In quanto ecclesiastico sta sulle balle a mio nonno, un bestemmiatore professionista. Bestemmia infatti, con l’idea di scandalizzare il frate, certo di essere ascoltato. Padre Mariano non reagisce, porge l’altra guancia.
Il nonno sta seduto, la schiena rivolta alla stufa che caccia un caldo infernale, zampilli incandescenti scappano fuori dalla feritoia, non tutti intrappolati dal parafuoco. Qualcuno becca la guancia del Mariano – cosí impara –, altri finiscono tra le scapole del nonno e nessuno può dire se le bestemmie, a questo punto, siano dovute al cappuccino inteso come saio o alla temperatura corporea, superiore ai 75-78 gradi. Il suo viso è di un rosso fonderia, ricorda il rosso sfuso da imbottigliare in cantina, ciuccia tu che ciuccio io, ciucchi entrambi, nonno e nipote cioè io. «Guarda Diego come è tranquillo quando sta col nonno».
Ho caldo. Per via del Vicks che sprigiona di brutto, per via della stufa. Non so se mettere il termometro sotto l’ascella o sulla schiena del nonno per garantirmi il futuro prossimo ed extrascolastico, mentre mia madre estrae magicamente il panno azzurro e lo stende sul mio petto.
Ma pensa te, il panno azzurro. Eccolo qui, chissà dove era finito. Di lana, un’angora, un cachemire. Forse un maglione, in origine, consegnato alla Rosa dalla sua mamma che l’aveva ereditato da sua mamma. È un reperto di famiglia, passato di torace in torace nei secoli. La procedura, immutabile. Pomata che riscalda, riscaldata dal panno azzurro, una specie di tramezzino miracoloso. Deve rimanere sul petto per l’intera notte, niente a che vedere con la maglia di lana da indossare estate e inverno anche se pizzica, punge, un fastidio tremendo.
Mi sento meglio, mi sento a posto, sono in una casa fatta di tante case, mattoni come ricordi, i colori dell’intonaco mischiati nella memoria, gli affetti conservati uno per uno. Stanze colme. Facce, parole, gesti, una ressa. Riconosco qualche voce proveniente dall’esterno. Dài che mi alzo, mi tiro su.
Due passi e sono in piedi davanti allo specchio, mi vedo a figura intera. Ho i miei anni, che sono cinque, quindici, cinquanta, di piú. Sono gli anni che ho oggi, ma certo, sí. Infilo una camicia, i pantaloni neri di una tuta, il panno azzurro trasformato in una sciarpa. Sono curioso di vedere chi c’è di là.
Alt, un attimo. Lieve giramento di testa. Torna a letto, Diego, che con una bella dormita passa tutto, anche il cancro, come diceva Jannacci.
– Sí ma non è che se uno butta lí delle frasi per far bella figura con una canzone c’è da dargli retta. In momenti come questo per giunta.
Ah, Enzo, ciao, stavo appunto pensando a te.
– Bene… febbre?
Non direi.
– Vedere le tonsille? Dica ahhh.
Ahhh.
– Tocca fare l’iniezione. Penicillina, Campari soda, due gocce di limone. Zitto, perché le dosi sono tutto.
Niente oliva?
– No che sei allergico, va’ che faccia da allergico all’oliva.
Ma come fai a essere qui?
– È una questione di cellule, di transumanza, abbassare il pantalone per cortesia.
Rilasso il gluteo?
– A piacere.
Non ho sentito niente.
– Non l’ho ancora fatta.
Rilasso…
– Fatta.
Che tocco!
– Per forza, ho fatto le prove.
Con la siringa?
– Col Campari.
Posso andare?
– Vai, che ti aspettano, siamo tutti qui per te.
Quando sei arrivato?
– Il 29 marzo 2013.
Non dire cazzate.
– Non dico cazzate, è che non capisci l’antifona. Del resto, i neofiti, tutti cosí.
A proposito di cazzate, mi è sembrato di vedere un Apache.
– Ma no, è tua zia. Somiglia a Geronimo ma è tua zia.
Vado?
– Vai.
Ma tu resti, vero?
– Per forza, devo cantare la tua canzone preferita.
Ti te se no.
– Quella dopo, casomai. Piuttosto: Vengo anch’io…
No, tu no.
– Piú adatta.
Non è la mia preferita.
– Per cortesia! Non creiamo complicazioni.
Vado?
– Vai.
Apro la porta, mi trovo in una specie di anticamera buia. Mi blocco. Sento due voci, si avvicinano, le riconosco, sono quelle dei miei figli, Matteo e Marco. Faccio dietro front. Torno nella stanza, altro che andare… andare dove?
Jannacci: scomparso. Lo chiamo: Enzo! Macché. Il letto: invitante. Mi sdraio di nuovo, sopra le coperte, completamente vestito. Fingo di dormire, sento aprire la porta. Matteo sta parlando.
– Ma sí, alle Maldive, era il 2004, appena dopo Natale, il 26 dicembre, ti ricordi? Avevo nove anni, tu solo sette.
– Certo che ricordo, – dice Marco. – Lo tsunami, l’onda in arrivo, papà che preparava le valigie: abiti, cibo, acqua, tutto dentro.
– Ho sempre in mente quell’immagine là, – ancora Matteo. – Era agitatissimo. Come se fosse possibile partire dall’isoletta in balia degli eventi.
– Pensava di metterci in salvo salendo sul tetto dell’unico edificio esistente, figurati un po’.
– Era una scena frenetica e inquietante allora, è comica a ripensarla ora. Ma è anche una fotografia tipica. Era il suo modo di reagire in qualche modo, di rassicurarci, adesso facciamo i bagagli e ce ne andiamo via. Povero papà.
Mi viene da piangere, mi accorgo di non aver mai sentito i miei figli parlare di me. E comunque, povero papà cosa?
A parte il fatto che non andò cosí… e poi mi piacerebbe sapere cosa avreste fatto… ragazzi, sto parlando con voi…
Niente, non ascoltano. Matteo! Marco! Finitela, dài… Che faccia fate? Facce da funerale. Cos’è, uno scherzo?
– In queste ore continuo a pensare a Vittorio Gassman. Papà raccontò che alla notizia della morte rimase molto colpito, un turbamento che era durato giorni.
– Sí, non fu soltanto dispiacere. Dolore e paura.
È vero, ragazzi, fu uno shock, ne parlammo tempo dopo…
Allora, Vittorio, mi tranquillizzasti proprio tu.
Gassman annuisce, seduto nella piccola poltrona sotto la finestra. Non mi ero accorto del suo arrivo. Tiene un libro tra le mani, sorride: – La morte, caro Diego, fa sempre paura. Tormenta i vivi, poi passa. È un attimo. Ai morti, della morte non importa un accidente.
Be’, un attimo, mica tanto. Dipende.
– Come ti senti adesso?
Bene. Insomma, abbastanza bene.
– Vedi?
È che i miei figli, qui, mi fanno un po’ incazzare, parlo e fanno finta di non sentirmi.
– Non possono sentirti.
Sí, certo, e allora com’è che noi parliamo normalmente?
– Perché ormai siamo dalla stessa parte.
Dalla stessa parte?
– Ma sí. Vivi e morti. Non è la stessa cosa, ti pare?
Aspetta… fammi capire.
– Oh, insomma, i vivi parlano con i vivi, vanno in vacanza, fanno l’amore, discutono, mangiano, bevono… i morti parlano con i morti. C’è da divertirsi comunque.
Stai dicendo…
– Hai appena parlato con Jannacci, no?
M...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Si potrebbe andare tutti al mio funerale
  4. 1.
  5. 2.
  6. 3.
  7. 4.
  8. 5.
  9. 6.
  10. 7.
  11. 8.
  12. 9.
  13. 10.
  14. Nota al testo.
  15. Ringraziamenti.
  16. Il libro
  17. L’autore
  18. Copyright