La seconda edizione della mia Dottrina pura del diritto rappresenta una rielaborazione totale dei temi trattati nella prima edizione, pubblicata piú di un quarto di secolo fa, ed un considerevole ampliamento del suo argomento. Mentre un tempo mi ero accontentato di formulare i risultati piú propriamente caratteristici di una dottrina pura del diritto, ora ho tentato di risolvere i problemi essenziali di una dottrina generale del diritto secondo i principî della purezza metodologica della conoscenza scientifico-giuridica, cercando in ciò di precisare – piú a fondo di quanto avessi precedentemente fatto – la posizione della scienza giuridica nel sistema delle scienze.
Va da sé che una teoria, il cui primo abbozzo è contenuto nei miei Hauptprobleme der Staatsrechtslehre (pubblicati nel 1911), non poteva restare invariata per un cosí lungo periodo. Alcuni mutamenti sono già rilevabili nel mio General Theory of Law and State (Cambridge Mass., 1945) e nella mia Théorie pure du droit (traduzione francese della Reine Rechtslehre, a cura del professor Henri Thévenaz, Neuchâtel 1953). Nel presente scritto, per mezzo di note ho espressamente richiamato l’attenzione sulle modificazioni piú importanti. Per lo piú, si tratta di una piú conseguente applicazione di principî; in complesso, spero, l’opera è frutto di uno sviluppo che deriva dalle tendenze immanenti alla dottrina stessa, che è restata invariata nelle sue linee essenziali.
A causa della molteplicità continuamente crescente del contenuto degli ordinamenti positivi, nel corso del loro sviluppo, una teoria generale del diritto corre il pericolo di non comprendere tutti i fenomeni giuridici nei concetti giuridici fondamentali da essa elaborati. Alcuni di questi concetti possono rivelarsi troppo limitati, altri troppo ampi. Nel presente tentativo sono conscio di questo pericolo e sarò quindi sinceramente grato per ogni critica che mi verrà rivolta in proposito. Anche la seconda edizione della Dottrina pura del diritto non pretende di essere l’esposizione di risultati definitivi, ma si presenta come un inizio che necessita di un ulteriore sviluppo per mezzo di aggiunte ed altre correzioni. Il suo scopo sarà raggiunto, se altre persone – diverse dall’autore, giunto ormai al termine della sua esistenza – lo riterranno degno di tale ulteriore sviluppo.
Alla seconda edizione ho premesso anche la prefazione della prima. Essa illustra infatti la situazione scientifica e politica in cui sorse la dottrina pura del diritto, nel periodo della Prima guerra mondiale e degli sconvolgimenti sociali da essa provocati, e l’eco che essa suscitò allora nella letteratura. Al riguardo, dopo la Seconda guerra mondiale e gli sconvolgimenti da essa causati, non è mutato molto. Oggi come allora, una scienza del diritto oggettiva, cioè tendente soltanto a descrivere il suo oggetto, si scontra con la resistenza ostinata di tutti coloro che, senza tener conto dei confini fra scienza e politica, credono di poter prescrivere, in nome della scienza, un certo contenuto al diritto, credono cioè di prescrivere un diritto giusto, determinando cosí un criterio di valore per il diritto positivo. È soprattutto la rinata metafisica del diritto naturale che, con questa pretesa, si contrappone al giuspositivismo.
Poiché il problema della giustizia, in quanto problema collegato a valori, sta al di fuori di una teoria giuridica che si limiti ad un’analisi del diritto positivo, inteso come realtà del diritto, poiché tuttavia questo problema è di importanza capitale per la politica del diritto, ho tentato in appendice di enunciare che cosa si debba dire, da un punto di vista scientifico, su ciò e, in particolare, su una dottrina giusnaturalistica1.
Sento il dovere di ringraziare il dottor Rudolf A. Métall per la redazione dell’elenco delle mie opere e per l’intelligente aiuto prestatomi nella revisione delle bozze.
HANS KELSEN
Berkeley, California, aprile 1960.
1. La «purezza».
La dottrina pura del diritto è una teoria del diritto positivo. Del diritto positivo semplicemente, non di un particolare ordinamento giuridico. È teoria generale del diritto, non interpretazione di norme giuridiche particolari, statali o internazionali. Tuttavia offre una teoria dell’interpretazione.
Essa, come teoria, vuole conoscere esclusivamente ed unicamente il suo oggetto. Essa cerca di rispondere alla domanda: che cosa è e come è il diritto; non però alla domanda: come deve essere o come si deve produrre il diritto. È scienza del diritto, non già politica del diritto.
La si definisce dottrina «pura» del diritto perché vorrebbe assicurare una conoscenza rivolta soltanto al diritto e perché vorrebbe eliminare da tale conoscenza tutto ciò che non appartiene all’oggetto esattamente determinato come diritto. Vuole cioè liberare la scienza del diritto da tutti gli elementi che le sono estranei: questo è il suo principio metodologico fondamentale, che di per sé potrebbe sembrare una cosa ovvia. Tuttavia uno sguardo alla scienza tradizionale del diritto, nel suo sviluppo durante il corso dei secoli XIX e XX, rivela chiaramente quanto essa sia ancora lontana dal rispondere a tale esigenza di purezza. In modo del tutto acritico la giurisprudenza è infatti mescolata con la psicologia e la sociologia, con l’etica e la teoria politica. Questa confusione può spiegarsi col fatto che queste scienze si riferiscono a fatti che, senza dubbio, sono strettamente connessi con il diritto. La dottrina pura del diritto si propone di delimitare la conoscenza del diritto nei confronti di queste discipline, non perché ignori o addirittura neghi quella connessione, bensí perché tenta di evitare un sincretismo metodologico che oscura l’essenza della scienza del diritto e cancella i limiti che le sono posti dalla natura del suo oggetto.
2. L’atto e il suo significato giuridico.
Partendo dalla distinzione fra scienze della natura e scienze sociali, e quindi dalla differenza tra la natura e la società come distinti oggetti di queste scienze, si pone anzitutto il problema se il diritto sia una scienza della natura o una scienza sociale, se cioè il diritto sia un fenomeno naturale o sociale. Questa contrapposizione fra natura e società non è però senz’altro possibile, perché la società, intesa come concreta coesistenza di persone, può essere considerata un elemento della vita stessa e, quindi, un elemento costitutivo della natura; ed anche perché il diritto – o ciò che a prima vista si suole chiamare cosí – deve rientrare nell’ambito della natura almeno per una parte del suo contenuto, e sembra cosí avere un’esistenza completamente naturale. Se si analizza cioè uno qualunque dei fatti considerati come diritto o in qualche rapporto con il diritto, come per esempio una deliberazione parlamentare, un atto amministrativo, una sentenza giudiziaria, un negozio giuridico o un delitto, si possono distinguere due elementi: l’uno è l’atto sensorialmente percepibile che si svolge nello spazio e nel tempo, ovvero una serie di tali atti, la manifestazione esterna di una condotta umana; l’altro elemento è il significato giuridico di tale atto, cioè il significato che l’atto ha giuridicamente. In una sala si riuniscono delle persone, tengono discorsi, alcune alzano la mano, altre no; questo è l’avvenimento esteriore. Il suo significato è, invece, che viene approvata una legge, che si crea del diritto. Questa è la distinzione, ben nota ai giuristi, fra il procedimento legislativo ed il suo prodotto, la legge. Un altro esempio: da un seggio elevato, una persona in toga rivolge determinate parole ad un’altra persona che le sta dinanzi. Giuridicamente questo comportamento esteriore significa che è stata pronunciata una sentenza giudiziaria. Un commerciante scrive ad un altro una lettera avente un determinato contenuto e l’altro risponde con un’altra lettera: questo significa che essi hanno stipulato un contratto secondo diritto. Qualcuno cagiona con un’azione qualsiasi la morte di un’altra persona; giuridicamente, questo atto significa: omicidio.
3. Il senso soggettivo e oggettivo dell’atto; la sua autoqualificazione.
Nell’atto, questo significato giuridico non può essere senz’altro rilevato o sentito come un fatto esteriore, all’incirca come si percepiscono le qualità naturali di un oggetto, quali il colore, la durezza o il peso. L’individuo che agisce secondo ragione, e che pone in essere l’atto, veramente, ricollega al suo atto un significato determinato che si esprime in qualche modo e che viene compreso da tutti. Questo senso soggettivo può (e non «deve») coincidere con il significato oggettivo che l’atto ha giuridicamente. Qualcuno dispone per iscritto dei suoi beni in caso di decesso: il senso soggettivo di questo atto è un testamento; ma oggettivamente, giuridicamente, non lo è a causa di certi errori di forma. Quando un’organizzazione segreta, nell’intento di liberare la patria da persone pericolose, condanna a morte un individuo da essa ritenuto un traditore e fa eseguire da una persona di fiducia quello che essa stessa soggettivamente ritiene e definisce una condanna a morte, questa è oggettivamente, giuridicamente, non già l’esecuzione di una sentenza capitale, bensí un assassinio della santa Feme1, sebbene il fatto esterno non si distingua per nulla dall’esecuzione di una sentenza capitale.
Un atto, in quanto si esprime in parole scritte o pronunciate, può già dire da sé qualche cosa sul proprio significato giuridico: è questa una caratteristica del materiale che costituisce l’oggetto della conoscenza giuridica. Una pianta non può comunicare nulla su se medesima al naturalista che la classifica scientificamente: essa non compie alcun tentativo di chiarire la sua posizione all’interno delle scienze naturali. Ma un atto del comportamento umano può benissimo avere in sé un’autoqualificazione giuridica, cioè un’affermazione riguardante il proprio significato giuridico. Le persone riunite in parlamento possono dichiarare espressamente di approvare una legge; una persona può designare espressamente come testamento la sua ultima espressione di volontà; due persone possono dichiarare di stipulare un negozio giuridico. Talora la conoscenza del diritto si trova già di fronte ad un’autoqualificazione giuridica del materiale, la quale anticipa l’interpretazione che deve essere fornita dalla conoscenza giuridica stessa.
4. La norma.
a) La norma come schema qualificativo.
Il fatto esteriore (che in base al suo significato oggettivo è un atto giuridico o antigiuridico) è ora, in tutti i casi, un evento percepibile mediante i sensi, poiché si svolge nel tempo e nello spazio; è un frammento di natura e, come tale, è determinato secondo la legge di causalità. Ma questo evento come tale, come elemento cioè del sistema della natura, non è specificamente oggetto di conoscenza giuridica e non è quindi nulla di giuridico. Ciò che trasforma questo fatto in atto giuridico o antigiuridico non è la sua concreta esistenza, la sua esistenza naturale (cioè causalmente determinata), racchiusa nel sistema della natura, bensí il senso oggettivo che si ricollega a questo atto, cioè il suo significato. Il fatto in questione ottiene infatti il suo senso specificamente giuridico, il suo particolare significato giuridico, per mezzo di una norma il cui contenuto si riferisce a tale fatto attribuendogli un significato giuridico, cosicché l’atto può essere qualificato in base a questa norma. La norma funge da schema qualificativo. In altre parole, il giudizio con cui si dichiara che un atto del comportamento umano, posto in essere nel tempo e nello spazio, è un atto giuridico o antigiuridico, è il risultato di una specifica qualificazione, e precisamente di una qualificazione normativa. Ma, anche ritenendo che tale atto rappresenti un evento naturale, si esprime soltanto una certa qualificazione diversa da quella normativa, e precisamente una qualificazione causale. La stessa norma che attribuisce all’atto il significato di atto giuridico o antigiuridico è prodotta da un atto giuridico, il quale a sua volta riceve il suo significato giuridico da un’altra norma. Che un fatto – dal punto di vista giuridico – sia esecuzione di una sentenza capitale e non un omicidio, è una qualità non percepibile mediante i sensi e risultante solamente da un processo di pensiero: dal riferimento, cioè, al codice penale ed al codice di procedura penale. Che quello scambio di lettere, di cui si è già parlato, assuma giuridicamente il significato di una stipulazione di contratto risulta solo ed esclusivamente dal fatto che questo stato di cose cade sotto determinate disposizioni del codice civile. Che un documento sia un testamento valido, non solo secondo il suo senso soggettivo, ma anche secondo il suo senso oggettivo, risulta dal fatto che esso realizza le condizioni in base alle quali, secondo le disposizioni di questo codice, uno scritto acquista valore di testamento. Che un’adunanza di persone sia un parlamento e che il risultato della loro attività, dal punto di vista giuridico, sia una legge vincolante; in altri termini, che questi eventi abbiano questo significato vuol dire soltanto che l’intero fatto corrisponde alle norme della costituzione, cioè che il contenuto di un evento concreto coincide col contenuto di una norma, data per valida.
b) La norma e la produzione della norma.
La conoscenza del diritto, dunque, si rivolge alle norme che hanno il carattere di norme giuridiche e che conferiscono a certi fatti il carattere di atti giuridici o antigiuridici. Infatti il diritto, che è l’oggetto di questa conoscenza, è un ordinamento normativo del comportamento umano, cioè un sistema di norme che regolano comportamenti umani. Dicendo «norma» si vuol dire che qualche cosa deve essere o deve accadere, in particolare che una persona deve (soll) comportarsi in un certo modo. Questo è il senso proprio di certi atti umani, intenzionalmente rivolti alla condotta altrui. Sono intenzionalmente rivolti alla condotta altrui non solo quando, secondo il loro senso, essi prescrivono (ordinano) questo comportamento, ma anche quando lo permettono e, in particolare, lo autorizzano, cioè quando all’altro viene attribuito un certo potere, in particolare il potere di statuire norme egli stesso. Intesi in questo senso, sono atti di volontà. Quando una persona, con un atto qualunque, manifesta la volontà che un’altra persona si comporti in un certo modo, quando egli prescrive, permette o autorizza questo comportamento, il senso del suo atto non può essere descritto dicendo che l’altro si comporterà in quel modo, ma soltanto dicendo che l’altro deve (soll) comportarsi in quel modo. Chi prescrive, permette2 o autorizza, vuole; colui cui è rivolto il comando o è dato il permesso o concessa l’autorizzazione, deve. In questo contesto, il termine «dovere» (Sollen) è usato in un significato piú ampio del solito. Secondo il linguaggio comune, solo al prescrivere corrisponde un dovere (Sollen), mentre al permettere corrisponde un «avere il permesso» (Dürfen), all’autorizzazione un «potere» (Können). Qui, invece, con «dovere» (Sollen) si designa il senso normativo di un atto rivolto alla condotta altrui. In questo dovere (Sollen) è compreso anche l’«avere il permesso» (Dürfen) ed il «potere» (Können). Una norma, infatti, può non solo prescrivere, ma anche permettere e, in particolare, autorizzare. Se colui cui viene prescritto o permesso un certo comportamento o colui che viene autorizzato ad un certo comportamento vuole sapere qual è il fondamento di questa prescrizione, di questo permesso o di questa autorizzazione (e non quale sia la causa dell’atto con cui si ordina, si permette o si autorizza), può soltanto chiedere: «Perché devo (o anche, nel linguaggio comune, ho il permesso, posso) comportarmi cosí?» La «norma» è il senso di un atto con cui si prescrive, si permette o, in particolare, si autorizza un certo comportamento. Bisogna però tener presente che la norma, come senso specifico di un atto intenzionalmente rivolto al comportamento altrui, è qualcosa di diverso dall’atto di volontà di cui rappresenta il senso. Poiché la norma è un dover essere (Sollen) e l’atto di volontà di cui rappresenta il senso è un essere, lo stato di cose di cui ci si trova in presenza nel caso di un simile atto deve essere descritto cosí: «L’uno vuole che l’altro debba (soll) comportarsi in un certo modo». La prima parte si riferisce ad un essere, all’esistenza concreta dell’atto di volontà; la seconda si riferisce ad un dover essere (Sollen), cioè ad una norma intesa come senso dell’atto. Non è perciò esatto dire, come spesso si ritiene, che la frase «un individuo deve fare qualcosa» non significhi altro che «un altro individuo vuole qualcosa», cioè che l’affermazione di un dover essere (Sollen) si possa ridurre all’affermazione di un essere.
La differenza fra essere e dover essere (Sollen) non può essere ulteriormente spiegata: è un dato immediato della nostra coscienza3. Nessuno può negare che il dire: «Una cosa esiste» (affermazione con cui si descrive un oggetto reale) sia essenzialmente diverso dal dire: «Qualcosa deve essere» (affermazione con cui si descrive una norma); e nessuno può negare che dal fatto che qualcosa esiste non può derivare che qualcosa debba essere, cosí come dal fatto che qualcosa deve essere non può derivare che qualcosa è4.
Questo dualismo fra essere e dover essere (Sollen) non significa però che essere e dover essere (Sollen) stiano fianco a fianco senza alcun rapporto. Si dice che un essere può esser conforme ad un dover essere (Sollen), cioè che qualcosa può essere cosí come deve essere; e si dice che il dover essere (Sollen) è «diretto» ad un essere, che qualche cosa deve «essere». L’espressione «un essere è conforme ad un dover essere (Sollen)» non è del tutto corretta; non è infatti l’essere che è conforme al dover essere (Sollen), bensí il «qualcosa» (che nell’un caso «è») che è conforme al «qualcosa» (che nell’altro caso «deve essere») e che in senso figurato può essere indicato come contenuto dell’essere o come contenuto del dover essere (Sollen). Ciò si può anche esprimere dicendo che un certo qualcosa, in particolare un certo comportamento, può essere caratterizzato dall’essere oppure dal dover essere. Nelle frasi «la porta viene chiusa» e «la porta deve essere chiusa», il «chiudere la porta» viene espresso una volta come essere ed un’altra come dover essere. Il comportamento che è e il comportamento che è dovuto non sono identici; però il comportamento dovuto è simile al comportamento che è, salvo il fatto (modus) che l’uno è, mentre l’a...