1. Una descrizione nei «fra».
Deporre l’illusione di una diagnosi globale e risolutiva del cattolicesimo nel segno di una crisi a monte della quale dovrebbe collocarsi un’improbabile belle époque non significa rinunciare alla possibilità di descriverne i tratti. Anzi: proprio l’accettazione di questo dato di realtà permette di comprendere il doppio passo – fatto di lente modificazioni incubate su scala epocale e di accelerazioni repentine determinate dalle congiunture, di mentalità che si trascinano all’insaputa degli attori e di svolte innescate da micce apparentemente corte – che caratterizza il mutamento in corso nel magmatico corpo del cristianesimo nell’era delle modernità. È un processo ambiguo, questo, che merita d’essere vagliato con umile cautela, per evitare profetismi e sentenziosità cosí frequenti in chi pensa che su questi problemi non sia necessario il rigore argomentativo, ma basti la piú apodittica fermezza.
Non è infrequente, infatti, cogliere nel discorso storico e soprattutto nella piú immediata analisi dell’oggi toni apocalittici, annunci di abomini imminenti e scandalizzatissime visioni del recente passato, spesso col solo obiettivo di fornire argumenta all’avventura individuale o collettiva di chi si sovreccita nel sentirsi l’eletto innanzi alla massa damnata. I profeti di sventura – sventura intellettuale o pastorale, da cui papa Giovanni prese le distanze con inabituale puntiglio aprendo il Vaticano II – hanno visto spuntate le loro armi retoriche all’interno del cattolicesimo, ma non sono svaniti. Dalla baldanza loro bisogna prendere le distanze, non per una questione ideologica, ma semplicemente perché, pur in presenza di un oggetto storico come la chiesa, talmente complesso da sfuggire ai giudizi globali, solo la fatica dell’analisi può dare risultati contraddittori ma sensati, parziali ma seri.
D’altronde bisogna evitare il registro della supponenza, piú diffuso nella storiografia, ma non estraneo al mondo dell’informazione. Non è infrequente trovare esempi di analisi del «fatto religioso» (come s’usa dire dopo Jean Delumeau), basati sull’idea che per capire comportamenti impastati di doverosità superiori, di convinzioni intime, di esperienze metarazionali sia indispensabile «smascherarne» gli obiettivi occulti e le inconfessabili ascendenze. Specie nella cultura italiana, dove l’espulsione della teologia dall’insegnamento universitario rende indecifrabile all’ambito scientifico tutto ciò che sfiora le dottrine, si rischia infatti di sostituire il comprendere – la chiave della conoscenza storica, secondo la celeberrima definizione di Henri Irénée Marrou – col giudicare.
Navigando con cautela fra gli scogli del profetismo a basso prezzo e della logica sentenziosa, è però possibile, a mio avviso, provare a descrivere il cristianesimo e il cattolicesimo, in questo passaggio di secolo che chiamiamo «oggi», con un certo grado di aderenza alla realtà e con la consapevolezza che si tratta comunque di un fotogramma che cerca di fissare o almeno rallentare gli oggetti in movimento per coglierne le dimensioni, le velocità e, se possibile, le traiettorie. E l’ipotesi di questa parte del discorso è che si possa capire qualcosa di piú se, deposta la tavolozza della «crisi», si prova a descrivere la realtà nella quale la chiesa è immersa come un sistema di relazioni, che la colloca «fra» altre dimensioni, entità, ambiti: una chiesa fra le chiese, una religione fra le religioni, un vissuto che prende colore fra gli altri vissuti.
Esposto a queste relazioni come a fasci di luce, il cristianesimo rivela qualcosa dei nodi che ne connotano la vicenda storica e lo stato presente.
1.1. Una religione fra le religioni.
Negli anni Cinquanta pochissimi cattolici avrebbero scommesso che il destino della loro esperienza religiosa si sarebbe sviluppato in mezzo a esperienze religiose parallele e concorrenti. Il sogno accarezzato da Pio XI negli anni Trenta di una grande alleanza (l’unione di coloro che credono «almeno» in Dio contro la minaccia dell’ateismo bolscevico e pratico) era ormai andata in soffitta e, mentre qualche vescovo voleva una condanna del comunismo come «nuovo islam», altri pensavano che una condanna solenne della fede coranica potesse essere un utile passo. Studiosi (destinati piú tardi alla porpora cardinalizia) come Jean Daniélou a Parigi o Franz König a Innsbruck cercavano senza troppa fortuna di introdurre una teologia cristiana delle religioni, stretta dal punto di vista dogmatico dal trattato de vera religione da un lato, e dall’altro dall’evidente constatazione che il credo religioso in piú forte crescita a discapito di ogni fede era quello agnostico, avesse o meno basi filosofiche o ideologiche. A differenza delle grandi svolte riformatrici del concilio, che avevano alle spalle movimenti intellettuali e spirituali che ne hanno preparato i passi, la questione delle religioni approda al Vaticano II piú per intuizione e per necessità, che per la maturazione di idee davvero nuove in materia di rapporto fra cristiani e infideles. Tema, fra l’altro, che a sette anni dal tentativo di un parlamento delle religioni promosso a Chicago lascia quanto mai fredde le altre chiese cristiane ed è improponibile per chi, sulla scia di Karl Barth, considera il cristianesimo come pura «fede» che, professata, libera l’uomo della mera «religione», maschera dietro la quale si nasconde sempre una mistificazione del vero volto di Dio rivelato da Gesú Cristo. Il rapporto fra religioni, in quell’inizio degli anni Sessanta, sembra insomma un tema molto «cattolico» e che può arrivare al massimo a un dialogo – l’idea guida che Paolo VI lancia come suo programma di governo nell’enciclica Ecclesiam suam. Come è ben chiaro in quell’enciclica del 1964, il dialogo ha valore come tale e, soprattutto sul confronto fra religioni, non può che giungere al punto in cui o prosegue come fine a se stesso (il massimo successo a cui può aspirare) o si arena nei bassi fondali della pretesa veritativa che ogni esperienza religiosa trascina con sé (la massima catastrofe che lo può colpire).
Il Vaticano II rovescia questi paradigmi in modo direi quasi «casuale», quando discute una prima bozza di una dichiarazione De Judaeis: quell’atto era stato chiesto dall’ebraismo europeo tramite Jules Isaac a papa Roncalli che – da delegato apostolico in Turchia – aveva favorito la fuga degli ebrei dall’Europa nazista. Pensato come un documento sugli ebrei (agli ebrei) volto a condannare l’antisemitismo in modo fermo e inequivocabile, era stato redatto dal cardinale Bea e aveva incontrato obiezioni e resistenze. Da quelle piú schiettamente antisemite, che non esitarono a palesarsi nell’aula di San Pietro, meno di vent’anni dopo la shoah, a quelle piú politiche, di cui si facevano interpreti i vescovi arabi, allineati con le loro nazioni nel negare il diritto all’esistenza dello stato d’Israele. Proprio per smussare queste obiezioni furono aggiunti allo schema altri capitoli (sull’islam, sul buddismo, sull’induismo) che dovevano annacquare la rilevanza del De Judaeis e della prima condanna che il concilio avrebbe pronunciato, quella, appunto, dell’antisemitismo in ogni sua forma e variante. Cosí facendo, però, anziché depotenziare il testo, si finiva per fare dell’ebraismo la chiave di ogni relazione interreligiosa e il sacramento di ogni alterità: laddove si riconosceva nella perpetua validità dell’alleanza del popolo eletto qualcosa di cui la chiesa non poteva pensare di impossessarsi senza perdere la propria stessa anima di fraternità, si costruiva un paradigma da utilizzare poi per ogni alterità che non accetti di essere concepita nei termini di una verità mutilata.
Giovanni Paolo II ha condotto a compimento questo processo in due direzioni. Da un lato ha dato il pieno e totale riconoscimento allo stato d’Israele, che ha visitato e rispettato anche quando s’è trovato in forte polemica con le scelte dei suoi governi. Dall’altro ha reso omaggio all’ebraismo cosí come esso si esprime oggi: è stata una svolta, iniziata con la visita alla Sinagoga di Roma del 1986 e conclusasi col pellegrinaggio al Muro occidentale del Tempio di Gerusalemme nell’anno giubilare, che ha fatto piazza pulita di quell’esangue filogiudaismo cattolico, pronto a valorizzare i frammenti della sapienza rabbinica con il paternalismo tipico dell’antisemitismo classico.
Questi gesti dell’autorità si sono intrecciati con importanti ricerche storiche e teologiche. La distanza che separa la stagione dei j’accuse e delle apologie a oltranza sui «silenzi» di Pio XII dalla storiografia piú recente sull’atteggiamento della chiesa nella shoah non è solo lo sfondo di una decantazione culturale: oggi la storia del papato nella shoah è uscita dagli scoop ed è entrata come il capitolo chiave (non il primo, non l’ultimo) di una piú vasta ricostruzione dell’antisemitismo cristiano e delle «ragioni» che esso s’è dato nelle sue interconnesse forme di paternalismo, di discriminazione, di disprezzo, di razzismo, di liquidazione genocida. E la svolta, di cui Giovanni Paolo II vuole interpretare sia la direzione che l’approdo, permette di pensare a sviluppi prima inconcepibili. Analogamente la ricerca teologica – sia quella compiuta negli organismi ecumenici del dialogo, sia quella rappresentata da istituzioni confessionali come la Pontificia commissione biblica – ha tagliato traguardi non facilmente immaginabili: il riconoscimento all’interno della teologia cristiana della permanenza della promessa a Israele e la valorizzazione del Primo Testamento sono la cifra di un ripensamento che è ancora gravido di sviluppi, sia nei rapporti con l’ebraismo, sia in quelli con altri monoteismi o altre fedi.
Al tempo stesso, però, non sono mancati i segni di fragilità di questo nuovo impianto. Durante l’invasione della basilica della Natività da parte di truppe palestinesi e l’assedio delle truppe israeliane all’edificio sacro nel marzo 2002, per fare un esempio, si sono sentiti riaffiorare i vecchi stereotipi dell’antisemitismo medievale, che descrivevano turpitudini rese credibili dal pregiudizio: nei quotidiani cattolici e addirittura nell’«Osservatore Romano» capitava di leggere corrispondenze nelle quali non si metteva sotto accusa il conflitto come tale o l’episodio nella sua dinamica, ma i «sanguinari» soldati israeliani – come se negli ebrei in divisa affiorasse una qualità che, fin nella scelta delle metafore, richiamava gli stilemi dell’Europa di otto secoli fa. E piú in generale – anche al di fuori della doppia tragedia israelo-palestinese – c’è la sensazione che piú di un cattolico consideri tutto quello che il papa ha fatto come un abbondante risarcimento, dopo il quale si potrebbe chiudere per sempre ogni rapporto con questi ingombranti fratelli maggiori.
Tuttavia la svolta nei rapporti con l’ebraismo e la sua proponibilità come cifra e sacramento dell’alterità c’è stata: passibile di arretramenti e smentite, essa deve ancora esplicare tutte le sue conseguenze sul piano dei rapporti con le altre religioni. Perché con i noti incontri fra capi delle diverse fedi mondiali convocati dal papa ad Assisi, prima nel 1986, poi nel 2002, s’è iniziata a sperimentare una forma di «incontro» che va al di là del dialogo. Pregare gli uni accanto agli altri (ancorché non «insieme», secondo una distinzione che chi era sul posto non riesce neppur piú a visualizzare) ha voluto dire iniziare a riconoscere che il punto d’incontro fra religioni diverse non sta in qualche superficiale catalogazione di valori politicamente condivisibili o nella costruzione di un Weltethos (come ha sognato Hans Küng), ma nell’esplorazione delle loro profondità piú intime.
La ricerca comune in questa direzione è in corso, fra intuizioni e contraddizioni. Quando, assecondando una lusinga che veniva sia dall’islam wahabita che da quello sciita iraniano, la Santa Sede s’è fatta attirare nella pattuglia di paesi che hanno proposto e votato mozioni a sfondo morale nelle conferenze internazionali dell’Onu (come accadde in tema d’aborto a Pechino e al Cairo, ad esempio), s’è fatto un passo indietro rispetto allo «standard» di Assisi: non certo per il contenuto o per l’esito negativo delle mosse diplomatiche, ma perché si tornava verso l’idea che il dialogo religioso vale per gli obiettivi che sa conseguire, e non per ciò che insegna a ciascuna fede su ciò che davvero la connota. Per converso, quando i piú tragici appuntamenti del terrorismo – dall’11 settembre di New York e del Pentagono all’11 marzo di Madrid – hanno visto sintonizzarsi le piú alte autorità religiose del mondo cristiano e del mondo islamico nella condanna di quelle stragi come bestemmia, a prescindere dalle affiliazioni rivendicate dagli assassini o dai loro mandanti, s’è invece dimostrato come incontrarsi significa scoprire lati impensati di sé e dell’altro, dai quali poi non si può piú prescindere.
Perché questo è ormai un dato di realtà per il cristianesimo e per il cattolicesimo in ispecie: l’impossibilità di immaginarsi solitario innanzi allo specchio della storia. Tutto il cristianesimo e la chiesa cattolico-romana, al suo interno, vivono in un mondo di religioni che «non» sono state spazzate via dal socialismo baathista o dal comunismo sovietico. Per quanto distanti sul piano dottrinale, esse si comportano come stelle distanti anni luce eppure vicine le une alle altre nella visione di chi le guarda a occhio nudo: compongono «costellazioni», dalle forme tutt’altro che univoche, ma comunque suggestive nei diversi quadranti del mondo. Il melting pot delle fedi nordamericane non ha nulla a che vedere con l’esplosivo intreccio etnico-religioso balcanico, la vita delle minoranze cristiane da secoli imbricate alla vita del mondo arabo non ha le stesse coordinate del cristianesimo africano da cui sono germinate le chiese «indipendenti» di Simon Kibangu o del profeta Harris, e l’esperienza degli eredi dei missionari coloniali d’Asia è esposta alle antiche fedi del continente in modi peculiari: eppure il cristianesimo solitario e confessionale, quello che si raccontava nel trattato de vera religione, non esiste piú. Di esso non hanno nostalgia i credenti, ma quegli «occidentali» che, rifiutando in modo categorico ed esplicito la dimensione di fede, vorrebbero condannare la chiesa che si rifiuta di accettare la logica della crociata (perché no? atomica!) contro i musulmani in uno scontro di religioni che dovrebbe spazzare via l’altro e ricomporlo in una forma «moderata», che non sarebbe poi altro che la versione aggiornata di quell’islam umiliato e foderato di petrodollari che ha incubato la bestemmia fondamentalista.
1.2. Una chiesa fra chiese.
Parallelo e concorrente con la nuova sensibilità interreligiosa, l’abito di pensarsi come chiesa fra le chiese è ormai radicato in tutti i cristiani. Ciò non significa che non permangano le oscillazioni e i ritardi accumulati nel secolo dell’ecumenismo che ci siamo lasciati alle spalle. Lo rivela qualche «dettaglio»: la grinta con cui il sinodo della chiesa d’Inghilterra ha deliberato su tematiche come il sacerdozio femminile o l’omosessualità, senza troppi riguardi per le sensibilità delle altre confessioni, non è casuale; l’istinto cattolico che parla del patriarcato di Mosca come di un insopportabile residuato neozarista che conculca il diritto del papa di attraversare il pianeta, non è banale. Tuttavia il passaggio a un’autocomprensione ecumenica – on a fait le pas!, diceva Yves Congar – è nella sostanza acquisita. Non è una svolta di minor peso rispetto a quella religionistica, sia sul piano politico (i milioni di morti delle guerre di religione sono lí a ricordarlo), sia sul piano storico-teologico.
Le modificazioni del linguaggio comune (scontati, appunto, gli incidenti) sono lí a misurare questo salto. Se nell’Ottocento si parlava ancora di «religione cattolica», ora l’espressione risulta sopravvissuta solo nel lessico concordatario sull’insegnamento scolastico e in un sito della Rai. Il pensarsi del cattolicesimo come una «religione» era un modo che, con crudezza volutamente offensiva, doveva comunicare che fra un animista e un protestante, fra un indú e un ortodosso non esisteva differenza alcuna, perché entrambi abitavano fuori dai confini della vera chiesa, mediatrice unica di un’unica salvezza.
Extra ecclesiam nulla salus, recitava un noto adagio il cui senso s’era significativamente storpiato nel tempo. L’esegesi patristica l’aveva coniato per commentare l’episodio della presa di Gerico: la prostituta Raab, spiegavano, che aveva collaborato con Israele, non poteva non aver parte alla chiesa dei salvati, perché al di fuori di quella non c’è salvezza; l’atto di giustizia compiuto da Raab le avrebbe portato la salute, pur non essendosi essa convertita alla fede d’Israele. Di quell’universalismo si sarebbe perduta memoria nei secoli successivi, facendo del principio dell’extra ecclesiam nulla salus un caposaldo esclusivista: nelle università del medioevo latino il detto veniva citato per spiegare agli studenti che chi era fuori dalla vera chiesa sarebbe andato all’inferno – e a questa categoria non appartenevano solo i non cristiani, remote presenze che apparivano sul confine della christianitas o al di là dei portoni dei ghetti, ma anche i cristiani di altre confessioni, contro le quali si scaricavano ingiurie e violenze, ampiamente ricambiate.
Ancora cent’anni fa il magistero e l’insegnamento cattolico erano fermi a questo linguaggio, apparentemente impermeabili a quegli ambienti anglicani e luterani nei quali s’affacciò per primo il desiderio di un movimento ecumenico per costruire l’unità visibile fra i cristiani. Cent’anni dopo il magistero e l’insegnamento cattolico sono in grado (un atto della Congregazione per la dottrina della fede del 2000 che ha cercato di revocare in dubbio la formula non fa davvero testo) di riconoscere lo statuto di «chiese sorelle» alle grandi confessioni cristiane e con molte di loro ha raggiunto accordi di enorme importanza.
L’affermazione dell’irreversibile «vocazione» ecumenica della chiesa cattolica – secondo un’espressione cara a Jean-Marie Tillard – è un dato comprovato anche dagli insuccessi. Ho già evocato l’accordo anglicano-cattolico (l’Arcic 1, nel gergo ecumenico) bloccato all’ultimissimo momento e seguito, per un tipico effetto rebound, da decisioni della comunione anglicana che costituiscono un serio ostacolo per l’ecumenismo di domani. Ebbene: quel fallimento imprevisto ha dimostrato alle chiese la «possibilità» dell’unità e ha segnato un salto di qualità non nelle relazioni ecumeniche, ma nel pensarle. I grandi accordi multilaterali fra chiese (a partire dal documento d’intesa su Battesimo – eucarestia – ministero, firmato a Lima nel 1982 dai membri della sezione «Fede e costituzione» del Consiglio ecumenico delle chiese) e quelli bilaterali (fra i quali spicca l’accordo di Augsburg del 1999 fra chiesa luterana e chiesa cattolico-romana su un nodo centrale della riforma, come la dottrina della giustificazione) confermano che non ci sono ostacoli nella via dell’unità fra le chiese che possano essere ritenuti, come tali, insuperabili.
Eppure, pur pensandosi ormai come parte del consesso ecumenico, ogni chiesa sperimenta frustrazioni non piccole. Ai cattolici non avrà fatto piacere che la proposta avanzata da Giovanni Paolo II di un «ripensamento del ministero petrino», che (come notò la folgorante conferenza del vescovo americano John R. Quinn letta a Oxford nel 1996 e circolata in tutto il mondo) metteva sul piatto della bilancia il nucleo dell’identità istituzionale del cattolicesimo romano, abbia trovato le altre chiese piú interessate a contabilizzare le pur innegabili scortesie che a formulare proposte e dottrine. Ai protestanti non sarà sembrato elegante che non si sia riconosciuto lo statuto ecclesiologico della concordia di Leuenberg, che dal 1973 federa cento chiese del protestantesimo europeo. Al patriarca ecumenico di Costantinopoli ha pesato lo scontro con la chiesa russa relativo alla giurisdizione sulla chiesa estone (alla quale è collegata per un...