– Signora segretario, – disse Charles Boynton, sbrigandosi ad affiancare il suo capo che camminava in fretta e furia giú per il corridoio, diretta al proprio ufficio al dipartimento di Stato. – Ha otto minuti per andare al Campidoglio.
– È a dieci minuti da qui, – disse Ellen Adams, mettendosi a correre. – E devo fare una doccia e cambiarmi. A meno che… – Si fermò e si voltò verso il suo capo di gabinetto. – Posso andarci cos�
Allargò le braccia per farsi guardare bene. C’era un’evidente preghiera nei suoi occhi, e ansia nella sua voce. Pareva che un attrezzo agricolo arrugginito l’avesse appena trascinata per i campi.
La faccia di Boynton si contorse in un sorriso che sembrò procurargli un dolore fisico.
Alle soglie dei sessant’anni, Ellen Adams era di media statura, snella, elegante. Il buon gusto nel vestire e la guaina Spanx mascheravano il suo amore per i bignè al cioccolato. Il trucco sapiente esaltava gli intelligenti occhi azzurri senza cercare di nascondere l’età . Non aveva bisogno di dimostrare meno anni, ma non voleva neanche dimostrarne di piú.
Il suo parrucchiere, quando le faceva la tinta (una formula speciale), la definiva una «eminenza bionda».
– Con tutto il dovuto rispetto, signora segretario, sembra una barbona.
– Meno male che ti rispetta, – sussurrò Betsy Jameson, la migliore amica nonché consigliera di Ellen.
Il segretario Adams era alla fine di ventidue ore in cui aveva ospitato una colazione diplomatica all’ambasciata americana di Seul: gli argomenti di discussione erano stati la sicurezza regionale e il difficile salvataggio di un accordo commerciale importantissimo e inaspettatamente fragile. Quell’interminabile giornata era terminata con la visita a una ditta di fertilizzanti nella provincia di Gangwon, sebbene si trattasse di una copertura. In realtà , Ellen Adams aveva fatto un salto alla zona demilitarizzata.
Dopodiché, aveva arrancato fino all’aereo che l’avrebbe riportata in patria. A decollo avvenuto, la prima cosa che aveva fatto era stata togliersi la Spanx e versarsi un bel bicchierone di chardonnay.
Aveva passato diverse ore a mandare resoconti ai suoi assistenti e al presidente, oltre che a leggere i promemoria che le arrivavano. O a provarci, ecco. Si era addormentata con la faccia appoggiata su una relazione del dipartimento di Stato sul personale da assumere all’ambasciata in Islanda.
Si era svegliata con un sobbalzo quando la sua assistente le aveva toccato una spalla.
«Signora segretario, stiamo per atterrare».
«Dove?»
«Washington».
«Lo Stato?» Si era raddrizzata e passata le mani nei capelli, col risultato che le stavano tutti sparati per aria come se si fosse presa uno spavento o le fosse venuta un’idea brillante.
Sperava che la risposta fosse Seattle. Per fare rifornimento di carburante, o per caricare a bordo delle provviste, o magari perché c’era stata qualche fortuita emergenza in volo. E un’emergenza c’era, lei lo sapeva, sebbene non fosse né meccanica né fortuita.
L’emergenza era che aveva dormito e doveva ancora farsi la doccia e…
«Washington DC».
«Oddio, Ginny. Non potevi svegliarmi prima?»
«Ci ho provato, ma lei ha borbottato qualcosa e si è rimessa a dormire».
Ellen ne conservava un vago ricordo, ma aveva creduto che fosse un sogno. «Grazie del tentativo. Ho tempo di lavarmi i denti?»
Si era sentito un ding quando il capitano aveva acceso il segnale delle cinture allacciate.
«Temo di no».
Ellen aveva guardato fuori dal finestrino del suo aereo di Stato, da lei scherzosamente battezzato Air Force Three. Aveva visto la cupola del Campidoglio, dove presto sarebbe stata.
Aveva visto il suo riflesso. I capelli spettinati. Il mascara impiastricciato. Gli abiti in disordine. Gli occhi iniettati di sangue, che le bruciavano a furia di tenere le lenti a contatto. Aveva rughe d’ansia, di stress, che solo un mese prima, alla cerimonia dell’insediamento, non c’erano. Il giorno luminoso, splendente in cui era nato un mondo nuovo e tutto sembrava possibile.
Quanto amava il suo Paese. Quel faro glorioso e guasto.
Dopo aver costruito e guidato per decenni un impero mediatico internazionale che al momento comprendeva una serie di network televisivi, un canale all-news, siti web e quotidiani, lo aveva lasciato alla nuova generazione. A sua figlia Katherine.
E dopo aver passato gli ultimi quattro anni a guardare il Paese che amava annaspare e rischiare la fine, adesso era nella posizione di aiutarlo a guarire.
Sin dalla morte del suo adorato Quinn, Ellen aveva sentito che la sua vita era non solo vuota, ma immatura. Invece di stemperarsi col tempo, la sensazione si era rafforzata, la crepa si era allargata. Avvertiva il bisogno crescente di fare di piú. Aiutare di piú. Non solo di dare notizia del male, ma di fare qualcosa per alleviarlo. Di dare qualcosa in cambio.
L’opportunità era arrivata dalla fonte piú improbabile: il presidente eletto Douglas Williams. La vita poteva rivoluzionarsi in un lampo, davvero. In peggio, certo. Ma anche in meglio.
E adesso Ellen Adams si ritrovava sull’Air Force Three. Come segretario di Stato del nuovo presidente.
Era nella posizione di ricostruire i ponti con alcuni alleati dopo l’incompetenza pressoché criminale dell’amministrazione precedente. Poteva ricucire rapporti vitali o lanciare avvertimenti a nazioni ostili. Quelle che forse progettavano di nuocere e avevano le capacità di farlo.
Ellen Adams era nella posizione di non limitarsi piú a parlare del cambiamento, ma di realizzarlo. Di trasformare i nemici in amici e di tenere sotto controllo caos e terrore.
Eppure…
Il viso che le restituiva lo sguardo non sembrava piú cosà sicuro. Apparteneva a un’estranea. Una donna stanca, trasandata, esausta. Piú vecchia dei suoi anni. E forse un pochino piú saggia. O piú cinica? Sperava di no, e chissà perché, di colpo, era cosà difficile distinguere una cosa dall’altra.
Preso un fazzoletto di carta, lo aveva leccato e si era tolta il mascara. Poi, dopo essersi ravviata i capelli, aveva sorriso al proprio riflesso.
Era il viso che indossava per andare in scena. Quello noto al pubblico. A mass media, colleghi, leader stranieri. Il segretario di Stato, una donna gentile e sicura di sé che rappresentava la nazione piú potente della Terra.
Ma era una facciata. Ellen Adams vedeva qualcos’altro in quel viso spettrale. Qualcosa di agghiacciante che faceva fatica a nascondere perfino a sé stessa. La stanchezza, però, aveva consentito a quel qualcosa di abbattere le sue difese.
Ellen aveva visto la paura. E il suo parente stretto, il dubbio.
Era vero o contraffatto? Un nemico a lei vicino che le sussurrava: non sei abbastanza brava. Non sei all’altezza di questo lavoro. Manderai tutto a ramengo e migliaia, forse milioni di vite saranno messe a rischio?
Ellen aveva respinto il nemico, consapevole che non serviva a nulla. Pur battendo in ritirata, però, quello aveva sussurrato che non servire a nulla non significava comunque non essere veri.
Dopo l’atterraggio alla base aerea di Andrews, Ellen era stata scortata in fretta e furia verso un’auto blindata, dove aveva letto ulteriori promemoria, relazioni, e-mail. Washington DC scivolava fuori dai finestrini, invisibile ora che lei era concentrata sul lavoro.
Una volta nel garage interrato del monolitico Harry S. Truman Building, che gli abitanti storici chiamavano ancora – forse persino con affetto – Foggy Bottom, dal nome del quartiere, si era formata una falange per portarla fino all’ascensore e al suo ufficio privato al sesto piano il piú in fretta possibile.
Il suo capo di gabinetto, Charles Boynton, l’aspettava fuori dall’ascensore. Era una delle persone assegnate al nuovo segretario di Stato dal capo di gabinetto del presidente. Alto e allampanato, era magro piú per eccesso di energia nervosa che per l’abitudine di fare sport o mangiar bene. I suoi capelli e i muscoli tonici sembravano fare a gara per darsi alla fuga.
Erano ventisei anni che Boynton risaliva le gerarchie politiche, e alla fine era approdato a un ruolo d’eccellenza come quello di stratega della fortunata campagna presidenziale di Douglas Williams. Una campagna che si era dimostrata brutale come poche.
Charles Boynton era finalmente entrato nel sancta sanctorum, e aveva tutte le intenzioni di restarci. Era la sua ricompensa per aver eseguito gli ordini. E aver avuto fortuna nella scelta del candidato.
Si era cosà ritrovato a imporre regole per tenere in riga segretari di gabinetto che alle regole erano insofferenti. Dal suo punto di vista, quelle erano cariche politiche temporanee, nulla di piú. Belle vetrine per la sua struttura.
Insieme, Ellen e il suo capo di gabinetto si precipitarono giú per Mahogany Row, il corridoio pannellato in mogano che portava all’ufficio del segretario di Stato, seguiti da aiuti, assistenti e agenti della sicurezza diplomatica.
– Non preoccuparti, – disse Betsy, che aveva accelerato per affiancare Ellen, – è per te che tengono il discorso sullo stato dell’Unione. Puoi rilassarti.
– No no, – disse Boynton, la voce che si alzava di un’ottava. – Non può rilassarsi. Il presidente è incazzato. E poi non è un discorso sullo stato dell’Unione ufficiale.
– Via, Charles. Non sia pedante –. Ellen si fermò di colpo, quasi provocando un tamponamento a catena. Si tolse i tacchi infangati e, in collant, riprese a correre sulla moquette spessa. Ancora piú veloce.
– E il presidente è sempre incazzato, – gli urlò dietro Betsy. – Oh, intende che è incazzato con qualcuno in particolare? Be’, ce l’ha sempre con Ellen.
Boynton le scoccò uno sguardo d’avvertimento.
Non gli piaceva Elizabeth Jameson. Betsy. Un’outsider che non aveva altro motivo per trovarsi là se non la sua pluriennale amicizia con la signora segretario. Boynton sapeva che il segretario aveva il diritto di scegliere un confidente intimo, un consigliere, per lavorarci insieme. Ma era una prassi che non gli piaceva. Un outsider significava immettere un elemento di imprevedibilità in qualunque situazione.
E non gli piaceva Betsy. Tra sé e sé la chiamava Mrs Cleaver perché assomigliava a Barbara Billingsley, la madre di Billy nel Carissimo Billy. Una casalinga modello degli anni Cinquanta.
Affidabile. Solida. Compiacente.
Peccato che questa Mrs Cleaver si fosse dimostrata meno in bianco e nero del previsto. Sembrava aver inghiottito Bette «Fanculo se non sanno stare allo scherzo» Midler. E per quanto Bette gli piacesse, Charles Boynton avrebbe preferito che non fosse la consigliera del segretario di Stato.
Doveva però ammettere che Betsy aveva detto il vero. Douglas Williams non amava il suo segretario di Stato. E dire che il sentimento era reciproco sarebbe stato un eufemismo.
Era stato uno shock enorme quando il presidente neoeletto aveva scelto un avversario politico, una donna che aveva impiegato le sue considerevolissime risorse per sostenere il rivale di Williams come candidato de...