Nello scatolone.
Mamma telefonava a parenti e amici chiedendo consigli a tutti.
«Se non pensi di prenderli in casa, non dare da mangiare alla mamma: lasciala stare», le suggerí qualcuno. Ma ormai era tardi. Anche la mattina successiva, lei aveva messo il contenuto di una lattina di cibo per gatti accanto allo scatolone. Appena finito di mangiarlo, la gatta a volte spariva, come se avesse una tana da qualche altra parte; quando poi tornava, minacciava me e mamma soffiandoci contro, come a ribadire che non dovevamo azzardarci a toccarle i cuccioli.
E se lei e i cinque avessero finito per stabilirsi lí? Non potevano andarsene altrove? Era ciò che desideravo, eppure, quando aprivo la finestrella dell’antibagno, se il deposito era silenzioso mi disperavo all’idea che potessero essere morti nello scatolone. Se invece mi arrivavano i loro vivaci miagolii mi sentivo sollevata e mi rendevo conto che, senza che ne avessi l’intenzione, i tratti del mio volto si distendevano in un sorriso.
Arrivarono subito due irriducibili amanti dei gatti: mia cugina Sachiko e mia zia Midori.
Sachiko condivideva l’appartamento con tre gatti. Aveva circa trentacinque anni ed era single. I tratti esotici del suo volto ricordavano la pattinatrice artistica Andō Miki e, ai tempi in cui studiava al conservatorio, suonava il trombone. Dopo la laurea aveva trovato posto in un’impresa in centro e combatteva col lavoro, sempre in prima linea, ma in quel periodo era in ferie, e restava in casa a occuparsi dei gatti anche durante i giorni feriali.
Zia Midori era la moglie del fratello piú piccolo di mamma. Era una persona taciturna. Si occupava da anni dei randagi del vicinato, tanto da non fare viaggi perché aveva «i gatti da nutrire», e ne aveva anche uno in casa: un randagio di diciotto anni che la sua unica figlia, Mana, aveva raccolto quando era alle superiori. Un vecchietto di circa novant’anni, in termini di età umana, che, a quanto pareva, negli ultimi tempi dormiva sempre.
Sachiko e zia Midori ci avevano portato diverse confezioni di cibo per gatti, come contributo. Ci spiegarono che ne esiste un tipo secco, i croccantini, e uno umido, un precotto in bustine sigillate o in lattine.
Approfittando di un momento in cui la gatta non c’era, le condussi nel deposito, e sbirciammo insieme l’interno della scatola.
Miu miu miu.
Le talpe, piccole come palline, si spingevano, si sovrapponevano e si arenavano l’una sull’altra, continuando a fremere tremolanti. Quella col pelo di due colori, bianco e nero, chiaramente distinti, girava il muso verso la luce, e pareva annusare l’aria. Quella tigrata si voltava verso di noi, come se avesse percepito la nostra presenza.
Nello spiraglio fra le palpebre aperte, s’intravedevano le iridi azzurre velate da una sottile membrana. I cuccioli avevano tutti gli occhi cisposi. Anche il piccolino, che pareva un topo bagnato, strisciò fuori dal mucchio dei fratelli: si vide il nasino rosa, che ricordava quello di un criceto, e le zampette che si allargavano e si stringevano.
Erano tutti vivi…
Zia Midori stringeva con entrambe le mani un fazzoletto, premendolo sul petto della camicetta ornata da un colletto tondo. Mi accorsi che Sachiko era rimasta senza fiato. Io mi sentivo un po’ impacciata, come fossimo davanti alla finestra del nido in un reparto maternità, e stessi mostrando i miei figli ai parenti.
Tornate in soggiorno, zia Midori, che in genere era di poche parole, esordí:
– Ho visto tanti randagi di questa zona, ma cosí piccoli, appena nati, è la prima volta!
Non smetteva piú di parlare, come se avesse rotto una diga. Si agitava irrequieta, e appena seduta si rimetteva subito in piedi. Immaginavo che stesse andando in bagno, e invece sbirciava fuori dalla soglia della porta d’ingresso, e poi si avvicinava al deposito facendo attenzione a non fare rumore. Anche Sachiko a volte si alzava con lei e, insieme, uscivano di soppiatto dalla porta di casa.
Tornata in soggiorno, con lo sguardo perso nel vuoto e un bagliore di luce che le illuminava il fondo degli occhi stretti a mezzaluna, zia Midori disse:
– Oh, ce n’era uno cosí carino… Quello bianco e nero, quanto mi piace!
Sachiko aggiunse che quello tigrato marrone era «identico a Sakura».
Sakura era un gatto che avevano a casa dei suoi, morto in un incidente alcuni anni prima.
– Non è che capiti tutti i giorni una cosa del genere!
Anche Sachiko parlava come se non riuscisse a tenere a freno l’emozione.
– Ho sempre pensato di prendere con me qualsiasi gatto abbandonato! Cammino per strada con quest’idea in testa, eppure non mi è mai capitato, finora, di trovare dei cuccioli neonati abbandonati. E invece a voi sono nati in casa!… Questo è un dono del cielo!
E cosí, nonostante il caldo record, sia Sachiko sia zia Midori si ripresentarono a casa spessissimo, portandoci ogni volta giochi per i gattini, spazzole, erba gatta e vari altri articoli con cui, a casa mia, non avevamo confidenza.
Tuttavia, nel condominio di Sachiko vigeva la regola che non si potessero avere in casa piú di tre animali domestici, e lei li aveva già. Anche le dimensioni del suo appartamento non le avrebbero assolutamente permesso di prenderne un quarto.
Quanto a zia Midori, nonostante nel suo condominio gli animali domestici fossero vietati, aveva tenuto un gatto per ben diciotto anni senza informarne l’amministrazione, e lo zio era contrario a prenderne altri.
Che avremmo dovuto fare con la gatta e i cinque cuccioli?… Anche se avessimo cercato loro dei genitori adottivi dopo essercene prese cura per due mesi, come aveva suggerito la ragazza dell’Associazione per la protezione degli animali, davvero ne avremmo trovato uno per ciascuno dei cinque? Certo, in caso contrario casa nostra si sarebbe riempita di gatti. E se anche fossimo state cosí fortunate da sistemare tutti i cuccioli, mi pareva molto difficile che qualcuno prendesse la gatta.
Sachiko era tutta contenta, come se si trattasse di un «dono del cielo», un «miracolo», ma io mi deprimevo se pensavo a cosa sarebbe potuto accadere. Durante il giorno c’era movimento, con Sachiko e zia Midori per casa, e mi distraevo, ma la sera, dopo che le avevamo salutate, io e mamma ci guardavamo e ci lasciavamo sfuggire pesanti sospiri:
«Come andrà a finire?…»
Mi svegliai tardi, e quando scesi a pianoterra, fui accolta da un allegro saluto: – Buongiorno! – Sachiko era già arrivata. Essendo in vacanza, era a completa disposizione dei gatti a tempo pieno.
In un negozio «Tutto a cento yen» aveva comprato un sacco di reti metalliche in acciaio bianco, tipo quelle che si usano come scaffalature assemblabili, ed era tutta entusiasta all’idea di costruirci un recinto in cui far vivere i cuccioli. Il deposito sotto la scala brulicava di zanzare. Diceva che a lasciarli lí si sarebbero ammalati per cui, a quanto pareva, consultandosi con mamma aveva deciso di trasferirli nell’ambiente col pavimento di legno che si trovava appena entrati in casa.
Costruito il recinto quadrato legando insieme le reti metalliche con dei fili di plastica, Sachiko andò a prelevare con delicatezza lo scatolone dal deposito e lo portò in ingresso, rivolgendo poche parole di spiegazione alla gatta che la fissava con occhi di fuoco:
– Guarda che lo metto qui, sai.
Come calcolato, lo scatolone entrò perfettamente nel recinto che aveva preparato.
Lasciata aperta la porta di casa, ci ritirammo tutte in soggiorno, sbirciando ogni tanto quello che accadeva, mentre guardavamo la tv. Dopo un po’ mamma gatta venne davanti all’ingresso e si mise a spiare dentro casa.
Alla fine, posò delicatamente le sue zampe sul tataki.
– Eccola, eccola…
Salita sul pavimento di legno, si era avvicinata allo scatolone dei gattini e aveva superato d’un balzo la recinzione costruita da Sachiko, poi aveva iniziato a leccare i cuccioli addormentati e alla fine si era sdraiata lí anche lei.
Da allora, la gatta crebbe i suoi cuccioli nell’ingresso di casa nostra. Essendo proprio in quel punto, le persone le passavano spesso accanto. All’inizio rizzava il pelo e soffiava, ma poi, da un certo momento, la cosa doveva esserle venuta a noia, perché si limitava a spalancare la bocca in una minaccia cosí svogliata che veniva il dubbio fosse solo uno sbadiglio.
Vidi per la prima volta una gatta allattare. Sul suo ventre, otto mammelle rosa ben gonfie si susseguivano in quattro coppie. Le talpe si assembravano sulla mamma sdraiata, emettendo piccoli miagolii. I cinque si radunavano e si arrampicavano l’uno sull’altro, poi si infilavano spingendo con la testa e alla fine si appendevano in un grappolo alla pancia della gatta.
Lei li leccava senza sosta, con estrema cura: gli occhi chiusi dalle cisposità indurite, la testa, la schiena, il sedere, ovunque. Finito un lato, li rigirava dall’altro, con l’aria di essere letteralmente pazza di loro. Appena leccato un cucciolo, passava a un altro. Anche quelli che dormivano, quelli che miagolavano, quelli che erano finiti sotto agli altri: non ne dimenticava uno.
Terminato con i cuccioli, si sistemava diligentemente il pelo. Puliva anche la schiena, la pancia, il sedere, persino lo spazio tra le dita, allargandole bene. Poi si tirava su all’improvviso, e infilava svelta la porta lasciata aperta, abbandonando i gattini addormentati, proprio come se dicesse: «Vado a farmi un giretto». Chissà dove andava. Dove poteva essere la tana di un gatto randagio? Dove si riparava dalla pioggia? Dove dormiva?
Dopo venti o trenta minuti, la gatta tornava, entrava nell’ingresso, si sdraiava nel recinto e veniva sepolta dai cuccioli.
Un pomeriggio durante la stagione delle piogge.
– Una gatta randagia ha fatto i cuccioli a casa mia.
Ero al telefono con la mia amica Kura, e in risposta mi arrivò la sua voce che esclamava: – Cooossa?!
Kura aveva un negozio di parrucchiera nella città vecchia di Yokohama. L’avevo conosciuta mentre cercavo materiale su cui scrivere quando lavoravo per un settimanale e, tra una cosa e l’altra, ci frequentavamo da un quarto di secolo.
Due anni piú giovane di me, era single e viveva da sola con la madre…
Sin da piccola aveva avuto a che fare con moltissimi gatti, che allevava o che frequentavano casa sua, ed era un’a...