1.
– Il successo di un matrimonio dipende immancabilmente dalla donna, – disse la signora Greenway.
– Non è vero, – ribatté Emma, senza alzare lo sguardo. Era seduta sul pavimento, al centro del soggiorno, e passava in rassegna un cumulo di biancheria.
– Invece sÃ, – disse la signora Greenway, assumendo un’espressione severa. Strinse le labbra e corrugò le sopracciglia. Emma si stava di nuovo lasciando andare – una caduta di stile – e lei aveva sempre cercato di accogliere le cadute di stile con espressione severa, anche se per poco.
La severità non le donava, almeno non fino in fondo, e Aurora Greenway – era la prima a saperlo – rifuggiva quello che non le donava, a meno che non si trattasse di un dovere imprescindibile. Tuttavia, per quanto a volte sembrasse strano a entrambe, Emma era sua figlia e occuparsi del suo comportamento era un dovere imprescindibile.
Aurora aveva il viso pienotto e, anche se riteneva di aver passato gran parte dei suoi quarantanove anni tra arrabbiature e delusioni, il piú delle volte riusciva ancora ad apparire soddisfatta di sé. Esprimeva autentica severità cosà di rado che i muscoli facciali necessari a farlo si attivavano malvolentieri; ciononostante, all’occorrenza, sapeva fingersi per breve tempo estremamente severa. Aveva la fronte alta, gli zigomi pronunciati, e i suoi occhi azzurri – in genere sognanti e, avrebbe detto Emma, vacuamente compiaciuti – erano capaci d’improvvisi lampi di collera.
In quel caso, giudicò sufficiente corrugare un po’ le sopracciglia.
– Là in mezzo non c’è nemmeno un capo decente, – disse, con il lieve disprezzo velato di arroganza che le era caratteristico.
– No, infatti, hai ragione, – disse Emma. – Questa roba fa schifo. Però ci copre le nudità .
– Preferirei che non parlassi di nudità in mia presenza, non sono affari che mi riguardano, al momento, – disse Aurora. Stanca di tenere in tensione labbra e sopracciglia, si rilassò, con la certezza di aver svolto il proprio dovere materno. Disgraziatamente, Emma era stata troppo cocciuta per alzare lo sguardo e accorgersene, ma in fondo sua figlia era fatta cosÃ. Non le aveva mai prestato la debita attenzione.
– Perché non posso parlarne? – chiese Emma, puntandole gli occhi addosso. La madre tuffò due dita in quel che restava del tè freddo nel suo bicchiere, pescò quel che restava di un cubetto di ghiaccio e si mise a succhiarlo, guardando la figlia all’opera. Non era mai stato facile far sentire Emma in colpa, ma dal momento che era l’unico compito materno che le rimaneva, Aurora vi si dedicò di gusto.
– Hai un buon vocabolario, cara, – disse, finito di succhiare il cubetto. – Mi sono adoperata di persona per assicurartelo. Esistono senz’altro modi migliori d’impiegarlo che discutere di corpi nudi. E poi sai benissimo che sono vedova da tre anni e non voglio che mi si ricordino certe cose.
– Sei ridicola, – disse Emma. La madre pescò con calma un altro cubetto. Era comodamente adagiata, come avrebbe detto lei, sul vecchio divano azzurro di Emma. Indossava una morbida, elegante vestaglia rosa che aveva riportato da un recente viaggio in Italia e, come sempre, aveva l’aria un po’ perplessa ma appagata dalla propria felicità , una felicità piú grande, secondo Emma, di quella che lei o chiunque altro avesse il diritto di provare.
– Emma, dovresti metterti a dieta, – disse. – Sei cosà testarda, cara. Sono alquaanto contrariata.
– Perché? – chiese Emma, frugando nel cumulo di panni. Come al solito, diversi calzini erano rimasti spaiati.
– Alquaanto contrariata, – ripeté Aurora, casomai la figlia fosse diventata sorda. Aveva caricato quell’«alquaanto» di tutto il peso di Boston e non era disposta a permetterle di ignorarlo. Emma, che, insieme ad altre qualità poco signorili, aveva una fastidiosa tendenza alla precisione, avrebbe detto che era solo il peso di New Haven, ma a lei quei sofismi non facevano né caldo né freddo. Boston era una carta che aveva tutto il diritto di giocare, e il suo peso doveva schiantarla come una folgore. Se fossero state a Boston, o forse anche a New Haven – qualunque posto dove la vita potesse essere tenuta sotto controllo –, sarebbe successo di sicuro; ma madre e figlia si trovavano nel minuscolo soggiorno afoso di Emma a Houston, in Texas, e là il peso di Boston non sortiva alcun effetto. Emma contava i calzini soprappensiero.
– Ti stai di nuovo lasciando andare, – disse Aurora. – Non ti prendi cura del tuo aspetto. Perché non ti metti a dieta?
– Quando mangio, mi sento meno frustrata. Tu perché non la pianti di comprare vestiti? Sei l’unica persona che conosco che ha settantacinque esemplari di tutto.
– Le donne della nostra famiglia hanno sempre fatto del loro abbigliamento motivo di vanto. Tutte tranne te. Non sono una sarta. Non mi metterò certo a cucire.
– Lo so, – disse Emma, che portava un paio di jeans e una maglietta del marito.
– La roba che indossi è cosà orribile che non so nemmeno come chiamarla. Va bene per una negretta, non per mia figlia. Certo che mi compro da vestire. Crearsi un guardaroba di buongusto è un dovere, non un passatempo.
Detto questo, Aurora alzò il mento. Le piaceva darsi un tocco di maestà quando doveva giustificarsi con la figlia. Emma si lasciava impressionare di rado e in quel momento aveva uno sguardo di sfida.
– Settantacinque guardaroba sono un passatempo, – disse. – Sul buongusto non mi pronuncio. Ad ogni modo, com’è andata con il tuo problema femminile?
– Smettila! Non parlarne! – disse Aurora. Per l’indignazione tentò di sollevarsi di scatto e il vecchio divano scricchiolò rumorosamente. Aurora incarnava ben piú del peso morale di Boston.
– D’accordo, – disse Emma. – Santo cielo! Me l’hai detto tu che andavi dal dottore. Era soltanto una domanda. Non serve che rompi il divano.
– Non c’era bisogno di tirare fuori l’argomento, – disse Aurora, sinceramente turbata. Le tremava il labbro inferiore. Di solito non era cosà pudica, ma negli ultimi tempi qualunque riferimento al sesso la turbava; le dava l’impressione che la sua vita fosse completamente sbagliata, ed era una cosa che non le piaceva.
– Sei oltremodo ridicola, – disse Emma. – Perché sei cosà suscettibile? Vuoi che ne parliamo per corrispondenza?
– Non ho niente, se proprio vuoi saperlo. Niente di niente –. Aurora tese il bicchiere. – Però vorrei un altro po’ di tè freddo.
Emma sospirò, prese il bicchiere e uscÃ. Aurora tornò a stendersi, quasi depressa. Aveva giorni sà e giorni no, e vedeva già profilarsene uno no. Emma non aveva prevenuto in alcun modo i suoi bisogni: perché i figli erano cosà incapaci di pensare ai genitori? Aveva voglia di abbandonarsi a una scenata di sconforto, ma la figlia, decisa a ostacolare ogni sua mossa, tornò subito con un bicchiere di tè freddo. Ci aveva infilato un ciuffetto di menta e, forse in un gesto di contrizione, portava un piattino di caramelle al sassofrasso, uno dei suoi gusti preferiti.
– Sei gentile, – disse Aurora, prendendone una.
Emma sorrise. Era riuscita a evitarsi una scenata, una di quelle da vedova-sola-madre-incompresa. Le caramelle erano state un colpo di genio. La settimana prima aveva sperperato un dollaro e sessantotto centesimi per comprarne un assortimento, le aveva nascoste tutte e ne aveva già mangiate quasi la metà . Suo marito Flap non avrebbe visto di buon occhio quella spesa. Professava rigidi principî in tema di carie dentali, ma in realtà avrebbe solo speso i soldi per i suoi vizi, cioè birra e tascabili. Emma dei denti se ne infischiava, e le piaceva avere a disposizione qualche caramella per tenere a bada le scenate della madre, oltre che le proprie.
Dominato lo scoramento, Aurora era già scivolata nella sua solita felice indolenza e si guardava attorno nella speranza di trovare qualcos’altro da criticare.
– Il motivo per cui ho tirato fuori il dottore è che ieri ci sono andata anch’io, – disse Emma, risedendosi sul pavimento. – Forse ho una bella notizia.
– Spero che ti abbia convinta a metterti a dieta. Non bisognerebbe essere cosà intrattabili da rifiutare i consigli del proprio medico. Il dottor Ratchford ha molti anni d’esperienza alle spalle e, a quanto ho potuto osservare, dispensa sempre ottimi consigli, tranne che nel mio caso. Prima ti metti a dieta, meglio starai.
– Perché ti consideri sempre un’eccezione?
– Perché mi conosco meglio di chiunque altro, – rispose Aurora serafica. – Non permetterei mai a un medico di conoscermi altrettanto bene.
– Magari t’illudi, – suggerà Emma. Quella biancheria era davvero deprimente. Le camicie di Flap erano tutte lise.
– No, non me lo concedo. Non cerco mai di nascondermi il fatto che ti sei sposata male.
– Oh, taci. Mi sono sposata piú che bene. In ogni caso hai appena detto che il successo di un matrimonio dipende immancabilmente dalla donna. Parole tue. Forse saprò rendere il mio un successo.
Aurora la guardò assente. – Mi hai fatto perdere il filo del ragionamento.
Emma ridacchiò. – Perché, ragionavi?
Aurora prese un’altra caramella. Aveva l’aria distaccata. Se la severità presentava qualche problema, il distacco era il suo elemento. La vita gliel’aveva richiesto spesso. Un’occasione dopo l’altra, quando la sua sensibilità veniva urtata, aveva trovato necessario alzare le sopracciglia ed emanare gelo. Non c’era giustizia. A volte pensava che, ammesso che si ricordassero di lei, probabilmente sarebbe stato solo per tutto il gelo che aveva emanato.
– Mi hanno spesso fatto i complimenti per la mia chiarezza d’espressione.
– Non hai lasciato che ti dessi la mia bella notizia.
– Ah, giusto, hai deciso di metterti a dieta come speravo. Questa sà che è una bella notizia.
– Maledizione, non sono andata dal dottor Ratchford per parlare di dieta. Non la voglio fare. Ci sono andata per scoprire se ero incinta, e pare di sÃ. È un’ora che cerco di dirtelo.
– Cosa? – esclamò Aurora, guardando Emma. La figlia sorrideva e aveva pronunciato la parola «incinta». Aurora aveva appena bevuto un sorso di tè freddo, e per poco non le andò di traverso. – Emma! – gridò. La vita aveva colpito di nuovo, e proprio quando lei si sentiva quasi a suo agio. Scattò su come punta da uno spillo, ma ricadde indietro pesantemente, rompendo il piattino e spedendo il bicchiere quasi vuoto a roteare impazzito sul pavimento spoglio, come una trottola. – Non è vero!
– Invece sembrerebbe di sÃ. Che ti prende?
– Oddio, – disse Aurora, stringendosi la pancia con le mani.
– Mamma, cosa c’è che non va? – chiese Emma, vedendola davvero scossa.
– Oh, cadendo ho rovesciato il tè, – disse Aurora. – Non lo so –. Mentre il sangue le andava alla testa, le venne il fiatone. Ansimava. – Naturalmente è fantastico per te, cara, – disse, sentendosi malissimo. Era un brutto colpo, non era giusto: qualcosa non andava, e fu assalita dalla confusione. La combatteva sempre, eppure la confusione sembrava aspettarla al varco, dovunque andasse. – Oddio! – disse, sollevandosi a sedere di scatto. I capelli, che portava raccolti in una crocchia scomposta, le si sciolsero del tutto; aprà il collo della vestaglia per farsi aria.
– Mamma, smettila, sono solo incinta, – urlò Emma, esasperata dal fatto che la madre si permettesse una scenata quando lei era stata cosà generosa con le caramelle al sassofrasso.
– Solo incinta! – strillò Aurora, passando in un attimo dalla confusione alla collera. – Sventata… che… – Ma restò a corto di parole e, con somma irritazione di Emma, cominciò a picchiarsi la fronte con il dorso della mano. Era cresciuta all’epoca d’oro delle filodrammatiche e non era sprovvista di un suo repertorio di gesti tragici. Continuò a picchiarsi la fronte con vigore, com’era sua abitudine quando era molto turbata, sussultando a ogni colpo per il dolore che si procurava alla mano.
– Mamma, smettila, – urlò Emma, alzandosi. – Maledizione, smettila di picchiarti la fronte! Sai che lo detesto!
– E io detesto te, – urlò Aurora, accantonando la ragione. – Non sei una figlia premurosa! Non lo sei mai stata! E mai lo sarai!
– Cos’ho fatto? – strillò Emma, scoppiando in lacrime. – Perché non dovrei essere incinta? Sono sposata.
Aurora si alzò in piedi a fatica e affrontò la figlia, con l’intenzione di mostrarle un disprezzo di cui non aveva mai visto l’eg...