Ecco il momento in cui tutto comincia. Due ragazzi per le strade buie e fredde di Sheffield: Daniel Lawrence e Alison Connor, diciott’anni lui, sedici lei. È sabato sera e stanno andando insieme alla festa di Natale a casa di Kev Carter; da quando lei è scesa dall’autobus non si sono detti granché, ma entrambi avvertono la presenza dell’altro con un’intensità quasi dolorosa. La mano di Alison in quella di lui sembra troppo bella per essere vera, mentre lei, ad averlo cosà vicino, sente la bocca secca e il cuore che batte all’impazzata, appena sotto la pelle. Camminano sul marciapiede allo stesso passo, e siccome la casa di Kev non è molto lontana, il ritmo di una canzone viene presto a riempire il silenzio tra di loro; allora si guardano, si scambiano un sorriso, e come sempre quando gli occhi di Alison lo sfiorano, lui prova un moto di puro desiderio. Quanto a lei… be’, non si ricorda di essere mai stata cosà felice.
La porta era spalancata alla notte; luce e musica si spandevano sulle erbacce e sui lastroni crepati del sentiero che attraversava il giardino. Kev Carter frequentava un’altra scuola, era amico di Daniel e non di Alison: perciò lei rallentò un poco nel varcare la soglia, e sembrò quasi che lui la tirasse dentro. Fu una bella sensazione, entrare dopo quel ragazzo per far vedere a tutti che si appartenevano. Il registratore suonava Picture This di Blondie a volume troppo alto, distorcendo i bassi. A lei quel pezzo piaceva, avrebbe voluto togliersi il cappotto, bere qualcosa, ballare un po’. Ma Daniel le lasciò subito la mano e si sbracciò per salutare Kev dall’altra parte del salotto, alzando la voce per sovrastare la musica, ridendo di qualcosa che lui gli aveva urlato. Fece un cenno del capo e chiese: – Tutt’a posto? – a Rob Marsden, un altro cenno e un sorriso a Tracey Clarke, che ricambiò con l’aria di chi la sa lunga. Era appoggiata al muro da sola, accanto alla porta della cucina, come se stesse aspettando un autobus: sigaretta in una mano e lattina di sidro nell’altra, capelli biondo scuro con grandi boccoli alla Farrah Fawcett, rossetto color prugna, occhi bordati di kajal che soppesarono con freddezza la nuova arrivata.
– Tu esci con lui? – le chiese, piegando la testa in direzione di Daniel. Tracey non era certo una casta scolaretta: piú grande e piú smaliziata, aveva soldi in tasca e un ragazzo con la macchina. Alison, che non la conosceva, diventò rossa (come evitarlo?) e disse sÃ, esatto. Ma Daniel era lontano, perciò poté soltanto fissare intensamente la sua nuca bruna, sperando che la forza del pensiero lo facesse voltare. L’altra alzò un sopracciglio e fece una smorfia. Il fumo della sua sigaretta aleggiava nell’aria in mezzo a loro. Alison aveva un male tremendo ai piedi.
– Allora è meglio che lo tieni d’occhio, – disse Tracey. – È molto richiesto –. Alison non rispose, e dopo un breve silenzio Tracey scrollò le spalle e disse: – Se vuoi bere, è di là .
Intendeva la cucina: lei si affacciò sulla soglia e vide gente accalcata intorno a un tavolo di formica verde, e un groviglio di bottiglie, bicchieri di plastica e patatine. Per sottrarsi alle attenzioni non troppo benevole di Tracey si fece largo in salotto, nella speranza che Daniel avesse preso qualcosa da bere anche per lei. Avrebbe dovuto farlo, e invece era stato catturato da quegli amici che lei non conosceva. Adesso c’era una canzone di Jilted John che nessuno ballava ma tutti cantavano in coro, e alle spalle di Alison qualcuno spingeva per entrare. Non una sola persona che avesse già visto, anche se in quella folla doveva pur esserci qualcuno che conosceva. Tornò pian piano al tavolo dei beveraggi, e tra l’odore di sidro e sigarette avvertà un’improvvisa zaffata di Old Spice.
– Alison! Tutt’a posto?
Si guardò intorno e vide Stu Watson, tamarrissimo e vestito a festa: giubbotto di jeans col colletto all’insú, maglietta di Joe Strummer. Dieci a uno che se gli chiedevi di nominare una canzone dei Clash non sapeva dirtene mezza, ma Alison fu comunque contenta di vedere una faccia nota. Dopo averla misurata in lungo e in largo, gli occhietti vispi e impudenti di Stu emisero un responso favorevole: – Tutt’a posto sÃ, mi pare.
– Ecco, lo sapevo, sei già sbronzo.
– Arrivi adesso?
– Secondo te? – replicò lei, indicando il cappotto che aveva ancora addosso. – Tu invece sembri qui da un pezzo.
– Beati i primi, – rispose Stu. – Cosa bevi?
– Per ora niente. Mi andrebbe del Martini, però.
Lui fece una smorfia. – Come fa a piacerti quello schifo? Sa di medicina, cazzo.
Alison lo ignorò. Aveva un gran caldo, ma non conoscendo la casa non sapeva dove mettere il cappotto, perciò se lo abbassò sulle spalle e lo sguardo di Stu andò subito a esplorare i nuovi lembi di pelle scoperta intorno al collo e alla gola. Lei si voltò in cerca di Daniel e vide che era ancora in salotto, ma invece di cercarla stava parlando con Mandy Phillips. Mandy prendeva l’autobus alla stessa fermata di Alison: cosà bassa da sembrare una bambina, riccioli tinti all’henné, nasino a patata, guardava Daniel a faccia in su, immersa nel chiarore della sua attenzione. Lui teneva le braccia conserte e stava ben distante, ma ad Alison sembrò che se la mangiasse con gli occhi. A un certo punto lei gli posò una mano sulla spalla per farlo abbassare, poi gli disse qualcosa all’orecchio. Daniel dischiuse le labbra in quel modo che era tutto suo: esitante, un sorriso a metà . I capelli scuri e lunghi gli ricaddero sugli occhi. Sarebbe stato bello accarezzarli, pensò Alison.
Adesso anche Stu guardava nella stessa direzione: – I’m Mandy fly me… – canticchiò, citando una canzone dei 10cc. – Anche fuck me, magari.
– Oh, vaffanculo, Stu, – ribatté Alison. Si scostò da lui e prese dal tavolo una bottiglia di Martini Rosso, se ne versò una dose generosa in un bicchiere di plastica e tracannò una lunga sorsata. Aveva ragione Stu: era amaro e abbastanza disgustoso, ma al tempo stesso aveva un sapore familiare, perciò ne bevve un altro sorso e si pulà la bocca con il dorso della mano. Posò il bicchiere sul tavolo, si tolse il cappotto e lo depose sulla spalliera di una sedia. Sotto aveva dei jeans aderenti come una seconda pelle (ci si era messa a bagno apposta nell’acqua calda) e una camicetta nuova che le stava proprio bene: si era guardata allo specchio abbastanza a lungo e lo sapeva benissimo. Era bianca, di stoffa satinata e lucida, e appena uscita di casa l’aveva aperta di un altro bottone. Stu non le scollava gli occhi di dosso ma lei fece finta di nulla; riprese il bicchiere, lo vuotò e si aprà un varco tra i corpi per uscire dalla cucina.
Alison stava parlando con Stu Watson, quel furetto dallo sguardo famelico, quel ruffiano dalle braccia come tentacoli. Erano in cucina, ma Daniel non poteva raggiungerli: Mandy Phillips l’aveva sequestrato per raccontargli con occhi umidi da gattamorta che Kev Carter l’aveva mollata proprio quella sera, alla sua festa, il gran bastardo. Era il destino di Daniel: a lui le fanciulle aprivano il cuore. Non c’era bisogno di incoraggiarle, erano loro a captare chissà cosa, un non so che di indecifrabile che nemmeno lui capiva. Fatto sta che con Daniel parlavano, parlavano. Tutte, meno Alison Connor. Le aveva chiesto di uscire solo due giorni prima, e da allora lei gli aveva a malapena rivolto la parola; eppure Daniel sapeva che c’era del buono, che in quella ragazza c’era qualcosa di speciale. Anche se aveva detto piú cose a quel cacchio di Stu Watson in cucina, che a lui da quando stavano insieme. Nel frattempo Mandy era ripartita dal principio con la sua triste storia, e lui sapeva già che sarebbe finita con un «Non prendertela», un «SÃ, magari», un bacio e una promessa. Intanto Kev Carter faceva di tutto per attirare il suo sguardo e gli mostrava il pollice alzato, come se lui avesse davvero bisogno di farsi le sue ex. La vita, per Kev, era solo un bel gioco. Ecco perché aveva mollato Mandy proprio quella sera: un po’ di melodramma ci stava sempre bene, e poi che gusto c’era a dare una festa sapendo già prima in quali mutande saresti andato a ravanare?
Adesso era Night Fever che stava uscendo a tutto volume dalle casse dello stereo, e Mandy muoveva le spalle a tempo con la musica. Al centro della stanza c’erano una fila di ragazze che facevano mosse alla John Travolta e una fila di ragazzi che si agitavano un po’ a caso, cercando di copiare. Mandy toccò la spalla di Daniel per farlo abbassare, per dirgli qualcosa all’orecchio.
– Vuoi ballare? – gli sussurrò con il fiato tiepido.
Lui non sentà e si tirò indietro. – Eh?
– Vuoi… – una pausa, un sorriso. – Dicevo, vuoi… ballare? – La testa di Mandy era piegata di lato, e quel «ballare» sottintendeva ben altro. Niente piú lacrime, adesso. Kev era storia passata.
– No, – rispose Daniel, arretrando di un passo. Girò gli occhi per cercare Alison ma non vide né lei né Stu. Avrebbe dovuto restarle vicino, prenderle il cappotto, portarle qualcosa da bere e invece, mannaggia a lui, si era lasciato intrappolare da Mandy.
– Scusa? – chiese quest’ultima, riuscendo inaspettatamente a farsi sentire senza alitargli nell’orecchio.
Allarmato dall’assenza di Alison, lui stava ispezionando il salotto palmo a palmo, ma riuscà comunque a risponderle: – No, Mandy, ho detto che non me ne frega niente di ballare con te –. Ma ormai era in preda al panico e cominciava a pensare che Alison se ne fosse andata. Ah, se l’avesse conosciuta meglio, se avesse saputo come ragionava.
– Sei un bastardo, Daniel Lawrence! – strillò Mandy. Tentò di mollargli un ceffone, ma sbronza com’era mancò il bersaglio, anche se con le unghie riuscà a graffiargli la guancia.
– E che cazzo! – esclamò lui, guardandola incredulo.
Lei scoppiò in un pianto prevedibile e insulso, poi se ne andò in cerca di un’altra spalla. Daniel si toccò il viso nel punto in cui bruciava. Santissimo iddio. E in tutto questo, nemmeno il tempo di bersi una birra! Una cazzo di festa, proprio. Stava cercando di arrivare in cucina quando i Bee Gees ammutolirono di colpo: Kev Carter aveva strappato via la cassetta per metterne un’altra, e il salotto si riempà del martellare ostinato di basso e batteria che introduceva Pump It Up; Daniel si fermò dov’era e attese in religiosa immobilità che la voce di Elvis Costello si facesse largo nella sua testa.
E poi, grazie al cielo, ecco Alison. Ballava da sola in mezzo alla folla. Si era tolta le scarpe e ballava a occhi chiusi, senza muovere i piedi, ma con il corpo posseduto dalla musica, le braccia alte sopra la testa a disegnare forme pazze e meravigliose. Nessun altro ballava cosÃ. Lei ballava e gli altri cercavano di copiarla, ma quando c’erano quasi arrivati ecco che cambiava stile, lo trasformava, aggiungeva qualcosa, ma i piedi sempre lÃ, incollati al pavimento. Daniel rimase pietrificato a guardarla. In vita sua non aveva mai visto niente di cosà bello, cosà disinibito, cosà maledettamente sexy.
Il giornalista al concerto lo riconosci sempre. Se ne sta in fondo con l’aria di chi ha già visto e sentito tutto, non beve niente, schizza via appena è finito. Dan Lawrence non faceva eccezione, e infatti eccolo alla Queen’s Hall ad ascoltare Bonnie «Prince» Billy e le sue ballate orecchiabili sulla morte dell’amore. Non si sedeva mai, se poteva farne a meno: mica era teatro, mica era cinema; era musica, cacchio. La prima volta che era stato a Edimburgo, anni addietro, gli avevano dato un biglietto gratuito per i Prefab Sprout, e arrivato alla Queen’s Hall aveva scoperto che corrispondeva a una poltrona in tribuna; lui però era rimasto in piedi a guardare le teste dei quattro in palcoscenico, a sbirciare la loro scaletta attaccata con lo scotch sul linoleum. Stasera invece si era messo nel suo posto preferito: spalle contro la parete, il piú vicino possibile all’uscita. Il country alternativo di Bonnie «Prince» Billy non era affatto male, anche se l’espressione di Dan non rivelava la minima emozione. E non prendeva nemmeno appunti: ormai sapeva fissarsi nella mente i dettagli di cui valeva la pena scrivere trasformandoli magari in qualcos’altro, trovando il modo di farli rendere ancora.
Alla fine del concerto era uscito su Clerk Street e si era incamminato verso casa senza fermarsi a cercare facce note o concedersi un goccio di birra. A quell’ora Katelin era già riversa sul letto, sprofondata nel sonno con le braccia in alto come una bambina. Ormai gli capitava spesso di avere orari diversi, e quando si infilava sotto le coperte il respiro regolare della sua compagna lo cullava nel sonno come un dolce metronomo. Il piú delle volte lei non lo sentiva nemmeno: dormiva il sonno del giusto.
Abitavano dall’altra parte di Edimburgo, e benché fossero già le undici e mezzo la città lo spingeva a camminare, a fare a meno di autobus e taxi. Architettonicamente parlando, la capitale scozzese era il grande amore della sua vita: austera e imponente, ma sempre al passo coi tempi; le mille e una notte in confronto a Sheffield, o quanto meno alla Sheffield che si era lasciato alle spalle nei primi anni Ottanta. Forse all’epoca la presenza di Katelin era stata un punto a favore, eppure Dan aveva capito sin dall’inizio che Edimburgo era «casa», e tale era rimasta.
Camminava a testa bassa lungo il George IV Bridge, mani affondate nelle tasche del giubbotto, cuffiette nelle orecchie e iPod in riproduzione casuale, perciò gli venne un mezzo colpo quando Duncan Lomax lo abbrancò per un spalla come un poliziotto con un mandato d’arresto.
– Oggesú, Duncan! – escla...