Come nello spazio classe De Amicis aveva visto il contenitore, quasi l’espressione del confine geografico, etimologicamente il continente, della nazione in vitro che stava sperimentando, nel corpo del maestro, nel fiato dell’insegnante, ci vede il contenuto. Sotto certi aspetti col maestro Perboni, il nome non è casuale, crea una sorta di Ur Maestro come elemento costitutivo dell’esperienza formativa, ma anche della scoperta di un senso comune, la formazione di un collante.
La classe è l’Italia fisica, gli alunni sono gli italiani, il maestro è l’italianità. In una accezione ciecamente paritaria, direi quasi pedantemente misurata, come può accadere solo nelle parabole, nella fiction, nella pubblicità e nella scienza. Il dispensatore di questa parità assoluta, senza tentennamenti, senza travisamenti, senza ostacoli, è il maestro. In tutta la sua intangibile autorevolezza. Senza questa forzatura l’esperimento è destinato a fallire sul nascere. Perché attraverso la scuola si deve imparare soprattutto che in una nazione civile devono esistere spazi e contesti in cui si annulli ogni disparità. In questo senso il maestro è colui che sistema le carte, che allinea le storture della società, che propone e dispone uno spazio di consapevolezza. Ogni discrepanza, ogni differenza è appianata nello spazio classe. In quel microcontinente dove cittadini, difformi per educazione, censo, provenienza, vengono uniformati in nome di un obiettivo comune. Proprio come le squadre di detective di certe serie poliziesche americane in cui sono rappresentate tutte le etnie: l’asiatico, l’ispanica, il nero, la bianca.
Nella classe di Perboni l’Italia giovanissima mostra i denti, sperimenta le sue capacità di accettare o rifiutare l’altro, il diverso, contraddice il pregiudizio di sé, espone per mondarle le proprie mancanze sociali, politiche, culturali. Fa i conti con un’alternativa opposta al destino di rassegnazione, ma elabora un punto di vista autoconsolatorio.
Con la dismissione della figura del maestro crolla l’impianto stesso. Perché quella parola contiene una grandezza, una magnitudo che è la base stessa del suo compito. Una società che non riconoscesse quella specificità sarebbe destinata a una deriva di improvvisazioni e sperimentazioni. Se la scuola corrisponde alla realtà, se non è l’espressione di un’utopia sociale, politica, culturale, allora non è scuola, non è scholé, nel rispetto dell’etimo: altro, altrove, vacanza, interruzione, tempo dedicato alla propria formazione, otium. L’utopia proposta da De Amicis è di un luogo dove il corpo del maestro garantisca l’equanime distribuzione dei saperi. Dove i ricchi non hanno accessi privilegiati o programmi specifici. Perché il privilegio del ricco è semplicemente l’espressione del mondo reale. Perché la scuola come azienda è solamente uno specchio del mondo reale. Ma la scuola di Cuore è proprio l’opposto del mondo reale, lí il bambino piemontese deve abbracciare e dare il benvenuto al migrante calabrese; lí il bambino ricco ha come compagno di banco il bambino povero, che lo voglia o meno; lí si agisce perché la comunità proceda univoca nonostante le disparità che si presentano fuori dalla classe. Il corpo del maestro incarna un progetto di irrealtà, che pure prepara alla vita. De Amicis aveva in mente una scuola che modificasse, che forgiasse, la realtà, ma ci siamo trovati davanti a una società che ha modificato, e forgiato, la scuola. Un luogo dove si inverano gli stessi meccanismi che regolano la vita di tutti i giorni. Sicché chi comanda nella vita comanda anche a scuola.
Ora tutto ciò accade solo se si confondono i saperi, che una scuola può fornire, con la semplice teoria di materie di cui un programma didattico è composto. Ma il corpo del maestro doveva garantire che questa confusione non ci fosse e che le materie scolastiche fossero solo una parte, addirittura dei tramiti, di un insegnamento superiore.
«Voi siete la mia famiglia» confessa il maestro Perboni alla sua classe appena insediata. Dentro a quella aula nazione si muovono tutte le istanze vecchie e nuove, si mettono a confronto culture e provenienze, si giocano rituali e usanze. Certo ci sono i cattivi, ma la virtú vince perché questo è il traguardo a cui deve tendere un educatore: dimostrare che il cinismo non ha diritto di cittadinanza. Perché il cinismo è figlio dell’egoismo. Parente stretto di quel sentimento d’assedio che s’insinua in una società imbevuta di livore e istigata al terrore del nemico alle porte.
Se c’è un eroe puro nell’universo deamicisiano, quello è il maestro. Un mediatore tra la formazione e la vita. Un garante senza alcuna garanzia di successo.
Il mio maestro si chiamava Francesco Olla, era un Perboni piú riservato, ma come lui, per usare le parole di De Amicis in Ricordi d’infanzia e di scuola, «sapeva insegnare, che è una virtù assai rara fra gl’insegnanti, e render la scuola piacevole».
La mia classe, trentadue allievi tutti maschi, era esattamente speculare a quella che si può tuttora leggere tra le pagine di Cuore. In quello spazio ho mimato le azioni che avrei dovuto svolgere da adulto. Ho formulato i pensieri che avrei elaborato da adulto. Ho sperimentato relazioni che avrei selezionato da adulto. Questo cordone che ancora mi lega a quella stagione e a questo romanzo è il motivo per cui ogni volta mi emoziona e, contemporaneamente, m’immalinconisce rileggerlo.
Ma oggi ne scrivo ricordando con tenerezza tutti i difetti della scrittura, e della lingua informe da cui sono partito: «Questi hanno imparato l’italiano a calci nel sedere», disse il mio maestro alla consegna delle pagelle dopo l’esame della quinta elementare. Si riferiva a un gruppo dei suoi alunni, tra i quali io stesso, che erano arrivati a scuola con una lingua madre del tutto estranea, e che dunque avevano dovuto imparare da capo una lingua e un punto di vista. La scuola per me ha significato la coscienza di una appartenenza. Allora sentirmi italiano mi provocò una vertigine speciale, potevo diventare un rinnegato, ma il mio maestro Olla me lo impedí: mi fece responsabile della compilazione del verbale delle lezioni di storia locale che lui teneva ogni lunedí mattina, in barba ai programmi ministeriali, perché sapessimo che provenivamo anche noi da una storia, piccola magari, magari sussurrata, ma importante. Che doveva convivere, dialogare con quella grande. Perché da quel dialogo dipendeva molto del mio senso del mondo e del mio sguardo. Oggi ancora m’immalinconisce quella vertigine momentanea, quando per un istante mi vergognai di chi ero e da dove venivo.
In Cuore le due istituzioni cardine per la formazione del cittadino, famiglia e scuola, sono la stessa cosa, e questo è un punto che ho sperimentato in prima persona anche prima che potessi leggerlo. Il mio maestro era autorizzato a essermi parente. E, sotto certi aspetti, parente stretto. Gli era riconosciuta dai miei genitori autorevolezza pari alla loro. Per me la parola maestro ha sempre significato genitore terzo. In terza elementare Cuore diventò il nostro libro di lettura. In quarta I ragazzi della Via Paal. In quinta L’ultimo dei Mohicani.
Vivevo in un luogo che i piú avrebbero ritenuto tremendo, nel calderone incandescente dell’Anonima Sequestri sarda e nella sua stagione aurea. Eppure ero un bambino felice. Andavo a scuola da solo. Il bullismo era punito severissimamente. E ne so qualcosa perché ero l’unico bambino che portasse gli occhiali fin dalla seconda elementare. C’è una foto della mia prima comunione in cui tutti i comunicati, circa duecento bambini, posavano in bell’ordine sulla scala che portava alla chiesa delle Grazie. Ebbene chiunque potrebbe intercettarmi fra tutti perché sono il solo che porta gli occhiali. «Quattrocchi» allora era un insulto con i fiocchi, ma nessuno nell’area dell’edificio scolastico era autorizzato a pronunciarlo. Punto, non c’erano possibilità alternative. La scuola allora ragionava in termini schematici ma efficaci: si imparava attraverso sistemi che da semplici diventavano via via piú complessi. Si imparava per esempio che avere piú parole serve solo a patto che non si sprechino, si imparava che c’è differenza tra l’autorità e l’autorevolezza, si imparava che la solidarietà richiede un pensiero che qualche volta non è spontaneo, ma che va costruito. Si imparava che la fatica è uno strumento di lavoro, non un deterrente. Si imparava che imbattersi in un’ingiustizia significava sapere che cosa si causava quando la si infliggeva, anche involontariamente, ad altri.
In Cuore c’è un racconto che si chiama Il prigioniero in cui si narra la speciale scalata morale di un giovane garzone subissato dall’arroganza del suo padrone a causa dell’incapacità di argomentare il suo disagio. Il giovane vive imbruttito e livoroso per questa impotenza finché un giorno non argomenta con l’unico linguaggio che conosce: la violenza. Ferisce il padrone, viene arrestato e in carcere, seguito da un maestro sensibile, impara a leggere e scrivere e capisce con stupore quante parole e quanti gesti avrebbe potuto dire e fare. Fa un elenco di tutte le alternative che non ha saputo intravedere.
Ora, certo, questa visione ottimistica dell’istruzione è spesso contraddetta dai fatti, il mondo è pieno di laureati delinquenti, ma forse è vero che l’istruzione non sempre coincide con l’attestazione burocratica del curriculum scolastico. E questo, che istruire non corrisponda esattamente al diploma o alla licenza o alla laurea, è un principio in tutto deamicisiano:
Ama il tuo maestro, perché appartiene a quella grande famiglia di cinquantamila insegnanti elementari, sparsi per tutta Italia, i quali sono come i padri intellettuali dei milioni di ragazzi che crescon con te, i lavoratori mal riconosciuti e mal ricompensati, che preparano al nostro paese un popolo migliore del presente.
«Malpagati e mal riconosciuti»: quando si dice avere il dono della sintesi efficace.
Il maestro Perboni dirige la sua squadra di cittadini in erba e rappresenta un punto di riferimento, una sorta di prototipo universale che genererà altri maestri a varie latitudini.
Il maestro Mosca.
La primogenitura in questa linea parentale dei derivati da Perboni è senza dubbio il maestro Giovanni Mosca, protagonista del fortunatissimo e longevo Ricordi di scuola. Uscito nel 1939 e continuamente ristampato, l’edizione in cui io lo lessi ancora preadolescente era del 1968, questo romanzo-memoir è in tutto una derivazione di Cuore. Anche qui la narrazione si conforma come resoconto da adulti della propria esperienza scolastica. Con la differenza che Ricordi di scuola è un Cuore scritto direttamente dal maestro Perboni. Gli accostamenti fra le due opere sono molteplici:
«Ma che fanno, – gridò, – al Provveditorato? Mi mandano un ragazzino quando ho bisogno di un uomo con grinta baffi e barba da Mangiafuoco, capace di mettere finalmente a posto quei quaranta diavoli scatenati! Un ragazzino invece... Ma questo, appena lo vedono, se lo mangiano!»
Questa è l’accoglienza che il direttore riserva al supplentino, imberbe, Mosca, prima di introdurlo nella fossa dei leoni della quinta C.
Ed ecco un altro supplentino, come lo descrive De Amicis:
«Aveva ragione mio padre: il maestro era di malumore perché non stava bene, e da tre giorni, infatti, viene in sua vece il supplente, quello piccolo e senza barba, che pare un giovinetto».
Può capitare di incarnare un luogo comune, ma sta di fatto che il supplentino Mosca e l’oscuro supplentino che sostituisce il maestro Perboni sembrano scritti con la carta carbone. A questa sovrapposizione si aggiunga quella che intercorre tra l’arancia lanciata da Guerreschi e il calamaio lanciato da Crossi esasperato dal perfido Franti:
Guerreschi mandò un grido, strinse l’arancia nella destra, tirò indietro il braccio, lanciò il frutto, io scansai appena il capo, l’arancia s’infranse alle mie spalle, contro la parete.
Ed ecco il calamaio:
Molti si misero a ridere forte. Allora Crossi perse la testa e afferrato un calamaio glielo scaraventò al capo di tutta forza, ma Franti fece civetta, e il calamaio andò a colpire nel petto il maestro che entrava.
Il primo viene scansato, il secondo colpisce in pieno petto. Nel primo Guerreschi è un malandrino, nel secondo Franti è, ora e sempre, l’agente del male.
Guerreschi è il Franti, semplificato, di Mosca:
Improvvisamente dissi: «Guerreschi – (il ragazzo sobbalzò, meravigliato che conoscessi il suo cognome), – ti sentiresti capace, con un colpo di fionda, di abbattere quel moscone?»
«È il mio mestiere», rispose Guerreschi, con un sorriso.
Questo, invece, il famosissimo ghigno di Franti: «… e Franti rise».
Guerreschi, nomen omen, vedremo che anche questa è una caratteristica esplicitamente deamicisiana, è decisamente piú blando del suo progenitore. C’è da dire che nella storia della letteratura italiana quel «… e Franti rise» vale come «la sventurata rispose», un’aposiopesi direbbero i tecnici. Una sospensione carica di «non detti». Ebbene Guerreschi risponde e con un sorriso. L’apprendistato del supplentino Mosca e la sua definitiva vittoria contro il bullo della sua classe si conclude con l’abbattimento di un moscone in volo tramite fionda. Sono i privilegi di essere insegnante quando si è appena stati alunni, di trovarsi cioè in quel limbo in cui albergano i supplentini di tutto il mondo. Potrebbe rivendicare la sua autorità ma non lo fa, anzi sfida il capoclan a colpire un moscone in volo con la fionda e vince la tenzone.
Un moscone che arriva, ronzante direttamente dal diario scolastico di Bottini: «E non stanno attenti: un moscone che entra per la finestra, mette tutti sottosopra…» Fino alla quinta C del supplentino Giovanni Mosca:
Si udí d’improvviso, ingigantito dal silenzio, un ronzio: un moscone era entrato nella classe e quel moscone fu la mia salvezza.
Vidi Guerreschi con un occhio guardare sempre me, ma con l’altro cercare il moscone, e gli altri fecero altrettanto, sino a che lo scoprirono, e io capii la lotta c...