Notte. Inverno. Una strada in città. L’eco dei passi di Eve su un marciapiede ampio, lungo edifici funerei – Settecento inglese con stucchi, tettoia e colonnine all’ingresso – intorno a una piazza con giardino. Le ghirlande frondose appese su ogni porta ostentano affabilità e buon gusto festivi, ma gli interni restano quasi tutti al buio. Al secondo piano del civico 19 la luce è accesa, a conferire alle tende rosse tirate uno splendore viscerale. Tre case dopo, dalle finestre al piano terra balugina una luce blu – qualcuno che guarda un notiziario notturno, dormicchiando comodamente di fronte ai cupi aggiornamenti di un mondo in rovina – mentre l’ambra malaticcio di un abat-jour filtra dalle veneziane del seminterrato.
Ancora oltre, al civico 31, il salotto al primo piano è sfacciatamente illuminato: una sgargiante ostentazione di brutti quadri astratti e ingombranti sculture. Su un grosso ficus di un verde veronese, cosí lucido da sembrare finto, sono appese file di lucine colorate e palle di Natale a specchio: pianeti argentati che roteano in un sistema solare a intermittenza. La stanza è un palco vuoto; gli attori hanno lasciato la scena. È un quartiere attivo, si va a letto presto. Ma al civico 43 saranno ancora alzati. Kristof ha sempre detto, citando il pianista jazz Thelonious Monk, che il mondo si fa piú interessante a mezzanotte circa.
E infatti eccolo lí, illuminato nel riquadro destro del trittico che è il bovindo al piano terra. Sta di profilo, seduto sulla poltrona in pelle accanto alla libreria di quercia intagliata che lui e Eve comprarono insieme a Berlino. In una mano ha un bicchiere di vino rosso, nell’altra tiene un telecomando puntato sullo stereo, pronto a evocare Monk, John Coltrane o Bill Evans. Sugli scaffali della libreria sopra di lui sono allineate cartoline natalizie a decine, la solita accozzaglia di cattiva pittura, grafica triste e auguri ipocriti buttati giú di fretta a testimoniare molta mondanità e una famiglia allargata abbastanza presente. Di fronte a lui, nel riquadro sinistro, sempre di profilo, anche lei con in mano un bicchiere, ecco la sua nuova amante: la rossa, beatamente raggomitolata come un gatto tigrato pel di carota, del tutto a casa sua. In mezzo a loro, avvampante da un grosso vaso di terracotta posto sopra la scrivania perfettamente incorniciata nel riquadro centrale, l’ammasso di lingue cremisi dell’euforbia, la stella di Natale.
La ghirlanda sulla porta d’ingresso – agrifoglio, bacche rosse, pigne argentate – ricorda a Eve certi funerali nei quartieri popolari dell’East End londinese: cuscini di crisantemi con su scritto PAPÀ, MAMMA o NONNA. Su questo qui, pensa sul momento presa da una fantasia sepolcrale, potrebbe esserci scritto EVE, uno spinoso omaggio floreale a lei, la non del tutto amata, la non ancora dipartita. Sono passati solo cinque mesi da quando ha lasciato questa casa, e con essa il suo matrimonio. Kristof non ha perso tempo.
Rabbrividisce nella strada buia, il suo respiro dipinge una nebbiolina nell’aria notturna. Eve ripara il mento nella sciarpa e osserva la scena illuminata dietro la finestra. Sembra un Vermeer: luminoso interno casalingo. Suo marito, la sua vita, casa sua. Ormai non piú. Si volta verso l’oscurità e costeggia i giardinetti ombrosi di cespugli sempreverdi e alberi scheletrici circondati da una ringhiera sormontata da punte. Un tempo aveva la chiave per entrare in questo luogo privato, come ogni altro abitante della piazza, e a inizio primavera si sedeva sulla panchina sotto i boccioli carnosi di magnolia. Adesso il giardino le è vietato, come la casa in cui ha abitato per vent’anni.
Ci è voluta una vita a costruire, un attimo per distruggere. La famiglia. La prima a sparire. Poi il rispetto, e con esso la carriera. Tutto il resto se n’è andato con la corrente. Le rimane il lavoro. Il ragazzo aveva colto e ricambiato il suo sguardo. Fermo immagine, indietro veloce. Se potesse, riavvolgerebbe l’intero nastro fino a piú di trent’anni prima – quando il ragazzo non era ancora nato – quando ad avere trent’anni era lei e dava inizio alla famiglia che ha distrutto cosí risolutamente.
Affonda le mani inguantate nelle tasche tiepide e riprende a camminare, nella speranza che questo inventario – di tutto quanto ha perso, tutto quanto ha lasciato – le calmerà i pensieri in corsa.
Quando era giovane, nei lontani, famelici giorni dopo il diploma di belle arti, intenta a sfondare sulla scena artistica, accampata nei bassifondi del febbrile Lower East Side newyorchese, anche la sua storia con Kristof, dieci anni piú vecchio di lei e già astro nascente del panorama architettonico, le era sembrata una sorta di fine, una fine lieta: della confusione, dell’insicurezza, della solitudine e della pazza gioia a cui si era abbandonata con tutta se stessa intorno ai vent’anni. Nemmeno l’addio alla libertà e alla spensieratezza la preoccupava. Ne aveva avuto abbastanza. Essere liberi di scegliere è solo un’altra schiavitú. Non c’è forse libertà nell’autolimitazione? Meno possibilità significava anche maggior chiarezza. Era il momento di dare una chance alla serenità della vita di coppia.
Comincia a piovere. Rovista nella borsa alla ricerca dell’ombrello; da giovane non si sarebbe mai fatta vedere in giro con quell’oggetto. Troppo da squallida. Piovesse pure forte. Ma in quest’età avanzata e refrattaria ai rischi, in terra ostile poi, ogni riparo è il benvenuto.
Meglio pensare al passato, quando le poche avversità causavano ferite solo superficiali. Quando studiava all’accademia di belle arti, quando era devota solo ai piaceri e al lavoro. Si esprimeva attraverso un caos creativo e impegnato. Appena trasferitasi a New York – sbarcata dalle ristrettezze londinesi anni Settanta per scorrazzare con altre due post punk selvatiche in una città dove era ancora possibile campare di ideali e di un certo stile combattivo – si era abbandonata a quella babele. Poi, dopo essere finalmente tornata in Europa con Kristof, la vita era stata improntata a un’indaffarata regolarità. Aveva avuto una gravidanza fortunata: pochi mesi di disagio e di malanni sfociati in un cesareo, che le avevano appena sfiorato la carriera.
In seguito, una critica d’arte, marxista e femminista, aveva scritto che era stata «la maternità» a lanciare Eve, accompagnandola da un ripescaggio della natura morta – «mimesi ossessiva che mette la natura di fronte a uno specchio piú esegetico che espressivo» – attraverso «un dialogo indiretto con le tavole botaniche e un abile ammiccamento al genere» fino ad approdare a un’energica «esplorazione multimediale delle altre forme di vita, in grado di mettere la temporalità tra parentesi e di preferire all’analisi la percezione, all’azione l’essenza». Eve aveva avuto un moto di stizza nel leggere l’articolo; sarà mai venuto in mente, a questi qui, di parlare di «paternità» nel recensire i lavori degli artisti uomini? Se non altro, la critica era benevola. O almeno l’articolo non le aveva danneggiato la carriera.
Sua figlia, in compenso, aveva fatto del suo meglio per mandare tutto a rotoli. Nancy si era rivelata un cliente avido ed esigente, fin da quando al mattino apriva il primo malevolo occhietto e strillava rivolgendosi a un mondo al suo servizio. Da neonata si era rivelata anche una tiranna della notte, con Eve, distrutta dalle occhiaie e dai sensi di colpa, che si disperava nel vedere le sue coetanee trasformarsi da esacerbate femministe dedite al lavoro in madonne vaccine, languide e adoranti. Perfino Mara, che nel loro triumvirato artistico era l’agitatrice dai capelli a spazzola, aveva capitolato. Dopo essere tornata a Londra con al seno la piccola Esme, concepita grazie alla disponibilità di un amico gay, Mara Novak si era trasformata in una placida nutrice raffaellesca. Era stata anni a dipingere striscioni, a «riprendersi la notte» e a manifestare contro il patriarcato… e per che cosa? D’altra parte Esme dormiva «tutta una tirata fino alle sette del mattino», si vantava la nuova Mara in versione ruminante, come se il talento della figlioletta per il torpore conferisse una qualche superiorità morale anche a lei.
Ed Eve, svegliata almeno sei volte per notte dal suo bebè ululante? La privazione del sonno è una tortura da regime totalitario, non per niente. Per un breve periodo, si era spinta addirittura a invidiare l’esecrabile Wanda, la terza coinquilina, banale, nevrotica e priva di talento, rimasta a New York appresso alla sua discutibile carriera e capace di dichiarare che la sua vera progenie erano le opere e le performance artistiche: una serie sconcertante e autoreferenziale di happening, «Aktion» e installazioni varie. Era alle prese con «il posto della donna nell’universo», a sentir lei. Un figlio in carne e ossa l’avrebbe distolta, diceva. Qualcosa di vero c’era, magari. Era l’unica di loro tre a non avere avuto figli. Era anche la meno talentuosa. Ma a confrontare la sua carriera con le loro…
Un’auto si avvicina, i fari due fuochi dietro la coltre di pioggia, e sfreccia via in un misto di luce e suoni martellanti. Drum and bass? Grunge? Come si fa a sigillarsi dentro un barattolo, tagliarsi fuori dal mondo e a infliggere alle proprie orecchie decibel di un livello devastante? Quello si ritrova sordo, tra dieci anni. Eve cerca di calmarsi, non vuol sentirsi una matrona urlante della provincia londinese e ci ripensa. Magari per quell’automobilista è un’autoaffermazione. Una sorta di sciovinismo morbido, come un delirante slogan politico. E a proposito dell’impulso di tagliarsi fuori dal mondo, lei ne sa forse piú di chiunque altro.
Durante i primi anni della relazione, Kristof aveva dato un’adesione di facciata ai suoi bisogni e fatto del suo meglio per metterle sempre a disposizione uno studio. Ma dopo la maternità a Eve era mancata la concentrazione per il lavoro creativo, per non parlare del tempo e delle forze.
Quello era stato il momento della rabbia. Piú il profilo pubblico di Kristof si rafforzava, piú a lei sembrava di rattrappire. Si sentiva cosí rimpicciolita dai lavori domestici che tanto sarebbe valso trasferirsi nella casa delle bambole di Nancy. Chissà se Kristof se ne sarebbe accorto. Alla fine intervenne, inviandole in soccorso una quantità indistinta di belle ragazze alla pari: una cavalleria profumata, dotata di borsoni da cui fuoriusciva una scia di rossetti, spazzolini da mascara, fazzolettini usati e riviste idiote. Le baby-sitter tenevano a bada Nancy, o almeno fuori portata d’orecchio, in modo talmente efficace che a volte sembrava non fosse tanto la bambina quanto le domestiche – con le loro telefonate tempestose e le conseguenti ritirate in camera a piagnucolare – il vero ostacolo alla pace e al buon funzionamento della casa.
Ci sono tanti modi per misurare una vita. Molte persone, nell’immaginare il proprio bilancio sul letto di morte, tendono a ragionare in termini relazionali: amori perduti o ritrovati. Per Eve, in questi giorni torturanti, è un calcolo troppo azzardato. «Ciò che di noi sarà superstite è l’amore», recita un verso poco convincente di un poeta che si è rivelato piú persuasivo quando ha scritto «L’uomo passa all’uomo la pena». Un altro parametro è la velocità, prima il languido ralenti dell’infanzia, poi motore all’allegro superotto del dipanarsi vivido dell’adolescenza e infine l’avanti veloce, indistinto, all’ultimo respiro della tarda età, rapido come quei titoli di coda che se distogli anche solo un attimo lo sguardo sono già finiti. Questo è tutto, gente! Oppure l’altitudine: le vette raggiunte, i baratri in cui si è sprofondati in termini di carriera, umore, o affetti, che al momento Eve non ha lo stomaco di prendere in considerazione.
L’unità di misura prescelta da Kristof, che ha passato la sua vita professionale a disegnare meticolosamente in scala, sarebbe forse una parabola ascendente, da studio postsessantottino specializzato in edilizia a basso costo e opere pubbliche ad associati globalizzati con clientela nell’investimento in grattacieli, finanza e istituzioni. Anche la crescita salariale tendeva verso le stesse vette.
Un altro metro sono i beni immobili… per lei, significa un percorso dalla casa in cui è cresciuta, una catapecchia finto Tudor culla di noia e di mediocrità nell’estrema periferia londinese, verso sordidi alloggi per studenti piú in centro, poi ancora in una comune nel vecchio rione ugonotto e infine a New York, in uno squallido appartamento in subaffitto con Mara e Wanda sopra un’agenzia di pompe funebri ad Alphabet City. La sua prima casa con Kristof si trovava poche traverse piú giú e piú dentro Manhattan, un loft sulla Bowery poco ammobiliato con altri nove coinquilini – artisti e musicisti –, sede di un antico dime museum, luogo destinato all’intrattenimento popolare nell’Ottocento. Secondo questo parametro, la casa di Delaunay Gardens, con tutti i comfort di cui è dotata, per lei rappresenta la vetta. Da qui in poi, caduta libera – dritta e veloce.
Qualcosa vibra e la strappa ai suoi pensieri. Il cellulare. Si ferma per recuperarlo. Chiamata persa da New York, Ines Alvaro. Eve spegne l’apparecchio e lo lascia ricadere nella borsa. Troppo tardi, Ines.
Sebbene i suoi anni newyorchesi fossero stati agitati – tensione creativa e ambizione cozzanti contro l’indifferenza universale; la distrazione continua del cubo magico delle relazioni –, Eve non avrebbe voluto ritornare a Londra. Ma aveva perso. Lei e Kristof avevano lasciato la bohème newyorchese per un luminoso acquario londinese due livelli servizi inclusi in uno dei primi lotti residenziali «a stampino» progettati da Kristof lungo il Tamigi, dopodiché era bastato un salto – o un lungo viaggio in metropolitana – per arrivare a quella monofamiliare Settecento inglese, affacciata con aria padronale sul giardino in multiproprietà.
Eve prosegue per strade deserte, nere e lucide di pioggia, via dalle soffocanti certezze del passato e verso un impenetrabile futuro. Troppo tardi, per tornare indietro.
Negli anni, c’erano state anche altre acquisizioni: il cottage nel Devon, rifugio dei fine settimana, venduto ormai molto tempo prima; il mai rimpianto chalet a Chamonix (Eve non sciava bene e non sopportava il freddo); l’attico a Tribeca, all’ultimo piano dell’edificio utilizzato da Kristof come sede americana dello studio di architettura; infine – anche il solo pensarci la addolora – il fienile ristrutturato in Galles, il suo Eden appartato e personale. È stato il piú difficile da lasciare.
In quel fienile nascosto tra i querceti delle Black Mountains, Eve per la prima volta aveva sviluppato un’intimità col suo modello, coltivando semi in una serra belle époque, o nei due ettari del piccolo podere per poi procedere alla raccolta – crogiolandosi nel piacere quasi onnipotente di esame e selezione – e scartare gli esemplari inadatti cosí da raggruppare i migliori su un tavolo vittoriano da disegno sotto la finestra della parete nord. Lí, disegnando e dipingendo, fissava nel tempo la loro bellezza evanescente per poi rispedire quelle fragili forme spezzate a far da concime insieme ai loro scadenti confratelli, ma con l’immortalità assicurata dalla sua meticolosa, luminosa copiatura.
In realtà non era molto brava, come giardiniera. Il tasso di mortalità di semi e piantine era sempre rimasto alto. Le mancavano la pazienza e l’impegno – avrebbe dovuto immaginarlo, con l’istinto materno che si ritrovava – ed era complicatissimo reperire persone affidabili a cui delegare la cura delle piantine in sua assenza, tanto quanto cercare una brava baby-sitter. Ma qualche buon risultato l’aveva ottenuto. Piselli odorosi, cosmee, speronelle, licnidi. Quei dipinti, cristallini acquerelli su pergamena, erano finiti tutti in collezioni private giapponesi. Ma ormai è qualcun altro a curare, o a dirigere, il suo appezzamento nel Galles. Chissà se la beata rossa nel bovindo si abbasserebbe a sporcarsi le unghie di concime.
Eve si è esiliata dal giardino, come la sua omonima originale, volgendo le spalle all’Arcadia per vagare nuda nell’ignoto insieme a un volenteroso maschio. Un repulisti su scala esistenziale. Si è liberata di tutto, meno che del suo studio londinese. Dieci anni prima, con il loro matrimonio ancora in piedi, Kristof aveva comprato e ristrutturato una fabbrica dell’Ottocento abbandonata, lungo il canale: era il regalo per i cinquant’anni di Eve, per aver recitato – lo aveva ammesso anche lui – la parte della geisha remissiva, seppur non del tutto tacitata, agli albori della sua carriera.
Il palazzo ristrutturato era abbastanza grande da contenere tutto il suo work in progress – le tele monumentali, le apparecchiature video, taniche di formalina, congelatori industriali e latte di pigmento –, mentre quello che un tempo era stato un dedalo di stanzette secondarie (la contabilità e l’amministrazione dell’industria dolciaria Bartlett) è ora casa sua. La piccola camera da letto era stata progettata da Kristof per le rare volte in cui Eve si fermava a lavorare fino a tardi. Non è proprio una cella monacale – il letto matrimoniale ne cancella l’estetica – e negli ultimi otto mesi si è rivelata un set perfetto per il suo flirt. C’è anche una doccia abbastanza comoda, un cucinino stretto ma funzionale, un ufficio, una lavanderia e una piccola ma ben equipaggiata sala da fitness. Gli spazi dell’edificio sono perfettamente proporzionati: novanta per cento lavoro, dieci per cento vita.
Stanotte, nel fare il bilancio del passato – quell’universo parallelo ancora a portata di vista, dove presiede insieme a Kristof su un traballante impero carico di beni mobili e immobili, amici, agganci e riconoscimento pubblico – Eve, a pochi giorni dal Natale, ossia nel pieno della stagione degli eccessi, corre a rifugiarsi nell’incontaminata trasparenza del cambiamento.
L’esilio è foriero di un certo piacere, come Adamo ed Eva devono aver sperimentato. Il paradiso doveva essere una scocciatura, con la sua inesauribile felicità da ruminanti, e l’improvvisa condanna alla mortalità aveva forse dipinto i loro giorni di una dolce, fresca urgenza. Solo gli idioti e gli indifferenti non si lasciano attirare dal rischio incombente dell’ignoto. L’Eva primigenia aveva ascoltato le ragioni sussurranti del serpente, le aveva valutate e aveva operato la sua scelta. Quanto a Adamo, lui c’entrava poco. Si era rivelato un po’ una scocciatura pure lui.
L’Eve del Duemila non è stata tentata da nessuno. Fortunato passo falso o inciampo catastrofico che sia, è un puro caso che si trovi qui – con un occhio attaccato allo spioncino davanti al caleidoscopio della sua vita di un tempo – anziché là, ninnolo a suo agio nello scenario familiare, ignaro di avere un pubblico nel buio. Un passo fatale, una deliziosa, capitombolante resa e la vecchia vita svanisce, scorrendoti accanto rapida mentre precipiti. Quanto è facile lasciarsi andare.