
- 250 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Ultime lettere di Jacopo Ortis
Informazioni su questo libro
L'Ortis è stato letto come il «testamento» del secolo XVIII, «grido di dolore innanzi a tutte le cadute di tutte le illusioni»: e fu davvero diario fedele d'una vita dissipata e provvisoria, romanzo-verità giocato intorno alla figura di Ortis, cui Foscolo trasferisce molti aspetti della sua personalità: le aspirazioni giovanili, l'anelito alla bellezza e alla libertà, il senso di solitudine.
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Informazioni
Print ISBN
9788806177119eBook ISBN
9788858418765Parte prima
Parte prima: la divisione in due parti non figura nelle precedenti edizioni. Nella zurighese del 1816 il testo era preceduto dall’epigrafe dantesca: «libertà va cercando: ch’è sí cara | come sa chi per lei vita rifiuta» (Pg I, 71-72). Sono le famose parole rivolte da Virgilio a Catone, il suicida positivo per eccellenza, tanto che Dante stesso, invece di destinarlo al bosco infernale, gli affida l’incarico di illustre custode del Purgatorio.
Da’ colli Euganei1, 11 Ottobre 17972.
Il sacrificio della patria nostra è consumato3: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia4. Il mio nome è nella lista di proscrizione5, lo so: ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi m’opprime6 mi commetta a chi mi ha tradito?7. Consola mia madre: vinto dalle sue lagrime le ho ubbidito, e ho lasciato Venezia8 per evitare le prime persecuzioni, e le piú feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia solitudine antica, dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese, posso ancora sperare qualche giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo; quanti sono dunque gli sventurati? E noi, pur troppo, noi stessi italiani ci laviamo le mani nel sangue degl’italiani9. Per me segua che può10. Poichè ho disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte11. Il mio cadavere almeno non cadrà fra le braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da’ pochi uomini buoni, compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de’ miei padri.
13 Ottobre.
Ti scongiuro, Lorenzo; non ribattere piú. Ho deliberato di non allontanarmi da questi colli. È vero ch’io aveva promesso a mia madre di rifuggirmi in qualche altro paese; ma non mi è bastato il cuore: e mi perdonerà, spero. Merita poi questa vita essere conservata con la viltà, e con l’esilio? Oh quanti de’ nostri concittadini gemeranno pentiti, lontani dalle loro case! perchè, e che potremmo aspettarci noi se non se indigenza e disprezzo; o al piú, breve e sterile compassione, solo conforto che le nazioni incivilite offrono al profugo straniero? Ma dove cercherò asilo? in Italia? terra prostituita premio sempre della vittoria12. Potrò io vedermi dinanzi agli occhi coloro che ci hanno spogliati13, derisi, venduti, e non piangere d’ira? Devastatori de’ popoli, si servono della libertà come i Papi si servivano delle crociate. Ahi! sovente disperando di vendicarmi mi caccerei un coltello nel cuore14 per versare tutto il mio sangue fra le ultime strida della mia patria.
E questi altri?15 – hanno comperato la nostra schiavitú, racquistando con l’oro quello che stolidamente e vilmente hanno perduto con le armi. – Davvero ch’io somiglio un di que’ malavventurati che spacciati morti furono sepolti vivi16, e che poi rinvenuti, si sono trovati nel sepolcro fra le tenebre e gli scheletri, certi [di] vivere, ma disperati del dolce lume17 della vita, e costretti a morire fra le bestemmie e la fame. E perchè farci vedere e sentire la libertà18, e poi ritorcela per sempre? e infamemente!
16 Ottobre.
Or via, non se ne parli piú: la burrasca pare abbonacciata; se tornerà il pericolo, rassicurati, tenterò ogni via di scamparne. Del resto io vivo tranquillo; per quanto si può tranquillo. Non vedo persona del mondo: vo sempre vagando per la campagna; ma a dirti il vero penso, e mi rodo. Mandami qualche libro.
Che fa Lauretta19? povera fanciulla! io l’ho lasciata fuori di sè. Bella e giovine ancora, ha pur inferma la ragione; e il cuore infelice infelicissimo. Io non l’ho amata; ma fosse compassione o riconoscenza per avere ella scelto me solo consolatore del suo stato, versandomi nel petto tutta la sua anima e i suoi errori e i suoi martirj – davvero ch’io l’avrei fatta volentieri compagna di tutta la mia vita. La sorte non ha voluto; meglio cosí, forse. Ella amava Eugenio, e l’è morto fra le braccia. Suo padre20 e i suoi fratelli hanno dovuto fuggire la loro patria, e quella povera famiglia destituta di ogni umano soccorso è restata a vivere, chi sa come! di pianto. Eccoti, o Libertà21, un’altra vittima. Sai ch’io ti scrivo, o Lorenzo, piangendo come un ragazzo? – pur troppo! ho avuto sempre a che fare con de’ tristi22; e se alle volte ho incontrato una persona dabbene ho dovuto sempre compiangerla. Addio, addio.
18 Ottobre.
Michele23 mi ha recato il Plutarco24, e te ne ringrazio. Mi disse che con altra occasione m’invierai qualche altro libro; per ora basta. Col divino Plutarco25 potrò consolarmi de’ delitti e delle sciagure dell’umanità volgendo gli occhi ai pochi illustri che quasi primati dell’umano genere sovrastano a tanti secoli e a tante genti. Temo per altro che spogliandoli della magnificenza storica e della riverenza per l’antichità, non avrò assai da lodarmi nè degli antichi, nè de’ moderni, nè di me stesso – umana razza!26.
23 Ottobre.
Se m’è dato lo sperare mai pace, l’ho trovata, o Lorenzo. Il parroco, il medico, e tutti gli oscuri mortali di questo cantuccio della terra mi conoscono sin da fanciullo e mi amano27. Quantunque io viva fuggiasco, mi vengono tutti d’intorno quasi volessero mansuefare una fiera generosa e selvatica. Per ora io lascio correre. Veramente non ho avuto tanto bene dagli uomini da fidarmene cosí alle prime: ma quel menare la vita del tiranno che freme e trema d’essere scannato a ogni minuto, mi pare un agonizzare in una morte lenta, obbrobriosa. Io seggo con essi a mezzodí sotto il platano della chiesa leggendo loro le vite di Licurgo28 e di Timoleone29. Domenica mi s’erano affollati intorno tutti i contadini, che, quantunque non comprendessero affatto, stavano ascoltandomi a bocca aperta30. Credo che il desiderio di sapere e ridire la storia de’ tempi andati sia figlio del nostro amor proprio che vorrebbe illudersi e prolungare la vita unendoci agli uomini ed alle cose che non sono piú, e facendole, sto per dire, di nostra proprietà. Ama la immaginazione di spaziare fra i secoli e di possedere un altro universo. Con che passione un vecchio lavoratore mi narrava stamattina la vita de’ parrochi della villa viventi nella sua fanciullezza, e mi descriveva i danni della tempesta di trentasett’anni addietro, e i tempi dell’abbondanza, e quei della fame, rompendo il filo ogni tanto, ripigliandolo, e scusandosi dell’infedeltà! Cosí mi riesce di dimenticarmi ch’io vivo.
È venuto a visitarmi il signore T***31 che tu conoscesti a Padova. Mi disse che spesso gli parlavi di me, e che jer l’altro glien’hai scritto. Anche egli s’è ridotto in campagna per evitare i primi furori del volgo, quantunque a dir vero non siasi molto ingerito ne’ pubblici affari. Io n’aveva inteso parlare come d’uomo di colto ingegno e di somma onestà: doti temute in passato, ma adesso non possedute impunemente. Ha tratto cortese, fisonomia liberale32, e parla col cuore. V’era con lui un tale33; credo, lo sposo promesso di sua figlia. Sarà forse un bravo e buono giovine; ma la sua faccia non dice nulla. Buona notte.
24 Ottobre.
L’ho pur una volta afferrato nel collo quel ribaldo contadinello che dava il guasto al nostro orto, tagliando e rompendo tutto quello che non poteva rubare. Egli era sopra un pesco, io sotto una pergola: scavezzava34 allegramente i rami ancora verdi perchè di frutta non ve ne erano piú: appena l’ebbi fra le ugne, cominciò a gridare: Misericordia! Mi confessò che da piú settimane facea quello sciagurato mestiere perchè il fratello dell’ortolano aveva qualche mese addietro rubato un sacco di fave a suo padre. – E tuo padre t’insegna a rubare? – In fede mia, signor mio, fanno tutti cosí. – L’ho lasciato andare, e scavalcando una siepe io gridava: Ecco la società in miniatura35; tutti cosí.
26 Ottobre.
La ho veduta, o Lorenzo, la divina fanciulla36; e te ne ringrazio. La trovai seduta miniando il proprio ritratto37. Si rizzò salutandomi come s’ella mi conoscesse38, e ordinò a un servitore che andasse a cercar di suo padre. Egli non si sperava, mi diss’ella, che voi sareste venuto; sarà per la campagna; nè starà molto a tornare. Una ragazzina39 le corse fra le ginocchia dicendole non so che all’orecchio. È un amico di Lorenzo, le rispose Teresa, è quello che il babbo andò a trovare l’altr’jeri. Tornò frattanto il signore T***: m’accoglieva famigliarmente, ringraziandomi che io mi fossi sovvenuto di lui. Teresa intanto, prendendo per mano la sua sorellina, partiva. Vedete, mi diss’egli, additandomi le sue figliuole che uscivano dalla stanza; eccoci tutti40. Proferí, parmi, queste parole come se volesse farmi sentire che gli mancava sua moglie41. Non la nominò. Si ciarlò lunga pezza. Mentr’io stava per congedarmi, tornò Teresa: Non siamo tanto lontani, mi disse; venite qualche sera a veglia con ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Ultime lettere di Jacopo Ortis
- Avvertenza
- Introduzione
- Nota biografica
- Nota bibliografica
- Ultime lettere di Jacopo Ortis
- Al Lettore
- Parte prima
- Parte seconda
- Il libro
- L’autore
- Dello stesso autore
- Copyright