Mi viene ad aprire in sedia a rotelle, probabilmente gli è cresciuta qualche nuova papula sotto le piante dei piedi che gli impedisce di camminare. C’è anche sua sorella, una bruna sui quaranta con un vecchio vestito alla Sara Kay e la calzamaglia rossa, ma lui l’ha anticipata, si è precipitato alla porta con il camicione da sala operatoria e la nuova carrozzina da disabile. Stare peggio, peggiorare, alla fine aiuta. Ha gli occhi arrossati, ma ora non sta piangendo. Mi accoglie con un sorriso, il che lo costringe a mettersi una mano davanti alla bocca visto che la papula del naso – un acino scuro senza buccia che gli ha mangiato la narice sinistra – tira verso l’alto il labbro superiore in un ghigno osceno. Ciononostante noto che si è rifinito i baffi.
– Buongiorno, Filippo, – dico.
– Buongiorno, – dice lui, ma non mi tende la mano. È avvolto nel cattivo odore, una nuvola di garofani appassiti che si muove con lui e lo marca senza tregua.
– Buongiorno, – dico rivolta alla sorella.
– Buongiorno, – dice lei, in piedi un po’ in disparte, nell’angolo tra le riviste e il caminetto di questa spaziosa mansarda con vista su Scandicci.
– Ah, è arrivata la scientifica, – dice Filippo, vedendo che sto per indossare i guanti.
– È per le bombole, – dico io, come per giustificarmi. Una frase decisamente idiota considerando che ho i copriscarpe già ai piedi. – Dove ci sistemiamo?
– Mi scusi, l’ultima cosa che voglio è essere sgarbato con lei.
– Non si preoccupi. Non fa nulla, davvero. Mi dica dove pensa di…
– Pensavo al letto.
– Tenga presente che non potrà farlo disteso.
– Be’, lo farò seduto. Seduto sul letto. Non crede che andrà bene seduto sul letto?
– SÃ, seduto andrà bene.
Il letto è stato appena rifatto. Ma sono stati anche aspirati i divani, sprimacciati i cuscini, in quello che fino ad oggi era il campo base del mio cliente, qui, su questa specie di sudario, circondato dalle colonnine dell’home theatre a stordirsi di film francesi pieni di cene e conversazioni. È stato lavato e lucidato il portacenere che sta al centro del tavolino basso come un’enorme gorgiera di cristallo, tutto solo ora che sono state eliminate le cianfrusaglie di contorno, niente piú giornali, niente piú alimentatori di cellulare, niente piú accendini e sigarette. I farmaci, ovvero i numerosi tentativi falliti per rallentare la proliferazione vascolare multicentrica del sarcoma di Filippo, giacciono impilati sopra lo stereo come una collezione di cd. La sorella ha lavorato tutta la mattina. Adesso aspetta di assistere alle prove generali. Una parte di lei non vede l’ora che tutto finisca, l’altra vorrebbe ficcarmi le unghie negli occhi.
– Domani indosserò questa, – dice Filippo e mi indica, con tutta l’affettazione che il suo camicione gli consente, una divisa, credo di ussaro, adagiata sulla tavola da stiro. – L’ho comprata al mercato delle pulci di Porte de Clignancourt uno splendido sabato mattina, quando Parigi era ancora quella dei poster in bianco e nero, e Bertrand ed io pensavamo davvero che ci saremmo sposati.
– È molto bella, – dico, non sapendo proprio cosa dire. Mentre da qualche parte, in una delle vie sottostanti, un operaio sta sfasciando un pezzo di strada col martello pneumatico.
– Lo so, lei penserà a una cosa tipo Village People, ma si sbaglia. Io e Bertrand gli anni ottanta li abbiamo trascorsi a studiare come due borghesucci del politecnico. Ogni tanto andavamo a trovare i suoi a Parigi, ma vivevamo a Milano e lei non può immaginare quanto fosse lontana Milano dai Village People.
– Be’, sono sicura che ci saranno stati dei festini anche lÃ.
– Roba per feticisti, intende? Ah, può starne certa, ma noi eravamo ragazzi seri, gliel’ho detto. Diciamo, abbastanza seri, – e di nuovo si mette la mano davanti al viso per ridere. – No, questa divisa è… ma non occorre che si sappia… era una cosa tra me e lui.
Il modo in cui quest’uomo sfigurato arrossisce mi fa piegare le ginocchia. Si tratta solo di un attimo, ma è sufficiente perché entrambi lo notino. Anche la sorella ha reagito all’imbarazzo di Filippo, e si sta asciugando il viso con la manica del vestito. Forse lei sa il segreto della divisa, forse conosceva questo Bertrand, ma io non devo alimentare situazioni del genere, non sono una di famiglia, sono una persona sconosciuta con un paio di guanti in lattice che viene a portare sollievo. Il mio compito ora è sfuggire il contatto visivo, ritrovare l’invisibilità .
– Avrei da preparare alcune cose, ho bisogno di un ripiano, – dico. – Dove posso mettermi?
– Puoi metterti lÃ, – mi dice la sorella, senza lasciarmi intuire dal tono se quel tu al posto del lei viene dall’intimità di prima o è un segno ostile.
– Grazie, – dico sorridendo, e mi dirigo all’isola per la colazione, dove poco fa lei gli avrà preparato l’iniezione di analgesico e poi avranno fatto uno spuntino insieme, lui sulla sedia a rotelle, un po’ di spalle per proteggerla dalle smorfie e dalle tumefazioni, lei appoggiata in pizzo allo sgabello col piatto in mano. Adesso è tutto pulito.
Estraggo dallo zaino il sacchetto, le forbici, la cordicella di elastico ruvido, l’ago da balia, il morsetto, lo scotch, il manometro. Sulla parete di fronte a me c’è una riproduzione di un quadro di Edward Hopper, un classico diner visto da fuori, dove due tizi stanno mangiando incorniciati in una finestra che li tiene in salvo e al tempo stesso li espone al buio della notte americana. Per non so quale associazione di idee, forse il cibo, forse l’America, mi volto verso Filippo e gli dico: – Ah, c’è un piccolo problema. La canzone. Con il sacchetto è molto difficile sentirla in cuffia. Ed è praticamente impossibile sentirla durante. L’unica soluzione è sentirla prima, appena prima, allo stereo. Se ha ancora la stessa intenzione, le ho portato il cd.
– Vuole scherzare, ce l’ho il cd.
– Be’ sÃ, lo immaginavo, – dico sorridendo. – Ci pensi, non c’è fretta. Volevo solo dirglielo, cosà può pensarci, – dopodiché mi metto al lavoro sul sacchetto.
Alle mie spalle parte l’introduzione di Nothing but flowers, bonghi, percussioni esotiche dal sapore hawaiano, chitarre che sembrano ukulele e poi, ecco che attacca la voce melensa di David Byrne. Come si può morire ascoltando i Talking Heads? Filippo accompagna la musica con la testa, quando nota che lo guardo mi sorride: è o non è la prova generale?
– Balla, Clelia, – dice alla sorella. – Balla per il tuo Pippo.
Lei gli si avvicina, lo accarezza sulla testa e io mi giro perché non voglio piú vedere. Se non vedo non sono vista, se non vedo torno invisibile.
– No, Filippo, – dice la sorella, con la voce che comincia a rompersi, – non ce la faccio a ballare.
– Stai qua, canta con me. È un bel giorno questo per il tuo Pippo, lo sai, vero?
– SÃ, lo so, – dice lei, piangendo.
– E allora non piangere, – dice Filippo. – Abbracciami e canta con me, – e comincia a canticchiare tra le labbra «Here we stand/Like an Adam and an Eve/Waterfalls/The Garden of Eden» e anche lei si appoggia titubante alla voce di lui e asseconda come può il capriccio del fratello. Ma io non guardo, sento solo il duetto arrampicarsi sghembo sulle battute di questa canzone paradossale e irriverente – verso i fedeli, verso gli ambientalisti, verso tutti – eppure dolcissima. Cerco di concentrarmi sulle bombole, rimetto nello zainetto tutto ciò che non serve, mentre i Talking Heads continuano a cantare di centri commerciali e viadotti inghiottiti dai prati, di parcheggi e fast food cancellati dai boschi, di hard discount trasformati in campi di pannocchie, cantano di gente di città che amava il microonde e ora è costretta a cibarsi di bacche, un’umanità sperduta in un mondo invaso dai fiori. I due fratelli li ascoltano e poi si aggiungono sulle strofe piú lente. Cantano: «Years ago/I was an angry young man» e poi si rimettono sulla scia dello stereo e sussurrano tra le labbra. Come ha potuto Filippo scegliere una canzone del genere per dirsi addio? Può essere un caso che il testo sia cosà anticonformista? Non credo. Quando ha cominciato a pensarla in questo modo, quando è diventato cos� Leggendo cosa? Vedendo cosa? Era cosà già da bambino? Oppure è un punto di vista che ha mutuato da Bertrand, studiando, crescendo insieme a lui? È morto Bertrand? Lo ha lasciato? In onore di che domani Filippo si vestirà da ussaro? C’entrano i Talking Heads? Forse quelli nel quadro di Hopper sono due cittadini di questa canzone? Forse sono proprio Filippo e Bertrand, due cittadini asserragliati dentro un diner, accerchiati dalle bellezze inutili della campagna. Quante sono le cose che spariranno con quest’uomo domani, senza la speranza di poterle ripescare in nessun database?
– Io sarei pronta, – dico, e girandomi vedo lei seduta sul bracciolo della sedia a rotelle, con una mano appoggiata sulle spalle tumescenti del fratello.
– Bene, si comincia, – dice lui, ma lo sforzo per tenere alto il tono si esaurisce non appena mi vede avanzare con tutto l’armamentario.
La sorella lo aiuta a sedersi sul letto. Lui cerca con fatica la posizione che gli consente di appoggiare la minor superficie di pelle possibile. Mentre si sistema il camicione, lascia intravedere alcune papule bluastre, orribili e sacre come i bubboni sulle cosce di San Rocco.
– È molto importante che stia seduto ben dritto, senza appoggiare la testa. Pensa di farcela?
Filippo si tira ancora piú su, stringendo i denti, mostrandomi le gengive mangiate dal male. L’interno di un frutto, penso. Un gheriglio, una mela avariata. La prima volta mi ha accolto con un fazzoletto da bandito sul viso. Oggi ha rinunciato a nascondersi.
– Ah, ho qui la dichiarazione, – mi dice raccogliendo un foglio dal comodino e mettendomelo davanti agli occhi perché legga. E io, con le due bombole in una mano, il sacchetto nell’altra, leggo.
È un foglio di carta di riso. L’intestazione stampata in alto a destra «Filippo Ponchielli, architetto» è sbarrata in diagonale con un tratto di stilografica. Sotto c’è scritto: «A causa del sarcoma di Kaposi, da troppi mesi la mia non si può piú definire vita. Ho deciso di accorciare i tempi. Lo dico perché si sappia che ho fatto tutto da solo. Poi, la firma».
– Perfetto, la dia a sua sorella, – dico. – Ma vedrà che non servirà .
– Non credo che vedrò granché.
– Mi scusi, – dico con una vampata di sangue al collo. Un verbo al futuro, ancora un maledetto futuro, non imparerò mai.
– No, mi scusi lei, – dice Filippo, – è che me la sto un po’ facendo sotto.
– Possiamo fermarci, se vuole. Possiamo fermarci in qualsiasi momento. Basta che me lo dica. Vuole che ci fermiamo?
Sua sorella ci osserva mordendosi il labbro, sull’altro lato del letto.
– Glielo ripeto ancora, vuole che ci fermiamo?
– No, no, – dice lui. – E non me lo chieda piú.
– Invece glielo chiederò anche domani. E lei, se vorrà , potrà dire semplicemente fermiamoci. In qualsiasi momento.
– Quant’è pedante, Miele.
Ma io sorrido perché non voglio che si scusi di nuovo. Accosto le bombole al letto, le avvicino tra loro in modo da non forzare la giunzione, appoggio il sacchetto sulle gambe di Filippo.
– Adesso dobbiamo provare tutti i movimenti di domani. Lei dev’essere sicuro in ogni passaggio. Questo è un metodo efficace ma non bisogna avere esitazioni, – dico. – Quindi ora io le spiego tutto passo dopo passo e lei mi faccia tutte le domande che vuole.
– Sarà doloroso?
– No, assolutamente, – lo sa già ma vuole sentirselo dire di nuovo. I bonghi e gli ukulele dei Talking Heads si sono fermati da un pezzo, la festa è finita, gli occhi ancora intatti di Filippo agganciano i miei in una specie di giuramento muto, che io accolgo subito: – Se farà come le dico, entrerà in coma in pochi secondi. E dopo tre, al massimo cinque minuti sarà tutto finito.
– Ma in quei cinque minuti…
– No, assolutamente. Non sentirà nulla.
Questo non è un evento, questo è un processo, penso. Non è cominciato oggi e non finirà domani, allo scadere di quei cinque minuti. Ci saranno gli accertamenti, i certificati, il lembo del lenzuolo sulla sclera del cadavere. Ci saranno le comunicazioni, i necrologi, le esequie, e la morte continuerà a giocare nel corpo di Filippo concedendo ancora un millimetro – un lungo millimetro di vita – alle unghie e ai peli della barba.
Per qualche secondo c’è silenzio. L’operaio giú in strada, da una via lontanissima, continua a farci arrivare le mitragliate del suo martello pneumatico. Cialde di asfalto divelte a centotrenta decibel, piccoli terremoti ripetuti con ostinazione caprina. Ce l’ha chiaramente con noi. Guardo Clelia. Se ne sta là impietrita, con un po’ di sangue sul labbro. Poi, d’un tratto, Filippo dice:
– Allora, che devo fare?
Ha il nylon afflosciato sulle ginocchia e mi guarda. Ci sono solo io adesso. Sull’altro lato del letto sua sorella Clelia è stata dimenticata nel regno dei vivi.
Due minuti dopo gli occhi di Filippo hanno mollato il gancio, mi fissano ancora ma passano oltre, proseguono dove non ci sono piú neanch’io, aperti sul vuoto panico che abita stabilmente appena al di là di questo semplice gesto, due pollici che abbassano sotto il mento un sacchetto di nylon.
– Soffocherò, – dice togliendoselo.
– No, non soffocherà . Respirerà senza affanno, e perderà subito conoscenza.
– E Clelia? – dice voltandosi un attimo verso la sorella. – Non sarà pericoloso per Cle...