In tutti questi anni, nel corso di tutti gli spostamenti da me effettuati, da casa al tabaccaio (791p), da casa al municipio (930p), da casa al negozio di generi alimentari (1851p) eccetera, il computo del numero dei passi, sempre scrupolosamente contati e successivamente annotati in un apposito taccuino che ho sempre con me, durante il viaggio di andata poi durante il viaggio di ritorno, non è mai tornato. Una volta, scrive Thomas seduto sul gradino della veranda, da casa al municipio 937 in andata e 932 al ritorno, un’altra 941 andata e 939 ritorno. Mai lo stesso numero di passi all’andata e al ritorno. Sempre dei numeri diversi; tre in piú o quattro in meno, addirittura uno in piú o in meno, ma mai lo stesso numero. Solo durante spostamenti inferiori alle tre centinaia di passi, e solo occasionalmente, ho potuto riscontrare, devo dire con una certa soddisfazione, una coincidenza di cifre tra un’andata e un ritorno. È chiaro che piú aumenta la distanza percorsa, parimenti diminuisce la possibilità di riuscire, per quanto concentrati, nell’impresa di coprire il tragitto di andata verso un luogo dato con un numero di passi uguale a quello necessario per il tragitto di ritorno. Due sole volte, dunque in numero statisticamente non significativo, mi è capitato di veder coincidere cifre (casa/cimitero: andata 3633, ritorno 3633, e casa/casa incompiuta: andata 4717, ritorno 4717) superiori al migliaio di passi. L’eccezionalità dell’evento accaduto oggi, cioè la coincidenza del numero di passi da me conteggiati, prima all’andata poi al ritorno dallo studio del notaio Strazzabosco, situato a Vicenza in piazza Castello, numero di passi superiore non solo al migliaio, ma addirittura superiore alla decina di migliaia, è sconcertante. Questo il motivo che mi spinge a redigere questo resoconto, il piú possibile dettagliato, degli eventi intercorsi durante detto spostamento e la conversazione avuta con il notaio Strazzabosco nel suo studio. Mentre rammento con chiarezza tutto ciò che riguarda il mio spostamento da casa all’ufficio del notaio, e il colloquio con lui, inspiegabilmente non ricordo nulla riguardo al ritorno.
Nulla a parte il numero di passi.
NB: I numeri indicati tra parentesi a fianco dei luoghi, numeri che esprimono il numero di passi che questi luoghi distano dalla mia casa, sono il risultato della media calcolata sulla totalità dei miei rilevamenti.
Malgrado io sia impegnato nel lavoro di esame e di riordino di tutte le opere di mio fratello, consistenti in migliaia di fogli sparsi, una decina di taccuini, nonché due voluminosi manoscritti intitolati: Su Francis Bacon, il primo e La casa nel parco nella casa, il secondo, lavoro irrinunciabile per gli scopi che mi sono prefisso e che mi impegna giorno e notte, lasciandomi appena il tempo per dormire, e a cui dedico tutte le mie giornate, senza eccezioni, ero comunque partito di buon mattino, verso le nove, per recarmi senza indugio nello studio del notaio Strazzabosco, in piazza Castello a Vicenza. Un’incombenza alla quale non posso sottrarmi, pensavo alzandomi dal letto questa mattina alle otto. Con questo pensiero fisso in testa: incombenza alla quale non posso sottrarmi, ero sceso dal letto e dopo essermi lavato la faccia e i denti – sempre prima la faccia, solo poi i denti – ero andato in cucina per prepararmi il caffellatte. La sua presenza è assolutamente necessaria, aveva detto il notaio Strazzabosco al telefono solo il giorno prima. Lei deve capire signor Boschiero, aveva detto ancora, che senza la sua firma non mi è possibile far nulla; ora che sua sorella è ufficialmente morta, lei diventa di fatto l’unico proprietario, ma ci sono tutte le volture da fare, dichiarazioni da allegare all’atto di successione eccetera. Capisco, aveva detto Strazzabosco, che per un uomo come lei tutto questo lavoro cartaceo possa risultare noioso, niente altro che un fastidio burocratico, ma non si tratta in fondo che di alcune firme; in ogni caso, aveva aggiunto il notaio Strazzabosco, un’incombenza alla quale non si può sottrarre. Del resto, pensavo mentre preparavo il caffè per il caffellatte, ci siamo sottratti al mondo il piú possibile, abbiamo sottratto al mondo la nostra persona per cosà dire, ma purtroppo in agguato c’è sempre una qualche incombenza alla quale non ci si può sottrarre. Indipendentemente dalla nostra volontà , pensavo, sono dati dei casi in cui la nostra volontà , che crediamo indipendente, è trascesa da un’incombenza, un impegno, che assoggetta la nostra stessa volontà e in definitiva noi stessi. Da pochi giorni, a distanza di dieci anni dalla sua scomparsa, mia sorella è stata dichiarata ufficialmente morta. Prima ancora, circa otto anni fa, ufficialmente scomparsa – per essere esatti, assente – ma non morta. Mentre quando si muore si scompare immediatamente, quando si scompare invece, anche se si muore, non si muore immediatamente. Sempre, pensavo, quando penso alla morte penso alla scomparsa. E anche un attimo fa, appena ho pensato la parola morte, immediatamente dopo ho pensato la parola scomparsa. Morte. Scomparsa. Morte, penso. Scomparsa, penso subito dopo. Commetto sempre lo stesso errore, sempre lo stesso, sempre per la stessa ragione, per la stessa deficienza della ragione che mi impedisce di percepire nello stesso fatto la simultaneità di due concetti, morte-scomparsa, che non sono uno conseguente all’altro, ma uno esattamente sovrapposto all’altro, di modo che non riesco assolutamente a pensarli insieme, né tantomeno, com’è ovvio, posso pensare di scriverli assieme. Il concetto di morte, penso, contiene il concetto di scomparsa. La scomparsa di un essere umano è contenuta nella sua morte, cosà come il vuoto lasciato dalla scomparsa è contenuto nella scomparsa, dunque nella morte, cosà da arrivare alla tripla simultaneità della sequenza Morte Scomparsa Vuoto. Il Vuoto. Per fortuna abbiamo le nostre difese, pensavo aspettando il caffè, altrimenti non potremmo reggere. Non esistono vuoti che non possano essere colmati, se si decide di restare in vita. Se i morti tornassero sarebbe davvero un problema perché non troverebbero spazio, fuori o dentro di noi, pensavo; né fuori né dentro di noi esiste piú vuoto, non c’è piú spazio nella nostra affollatissima prospettiva. Di essersene andati, pensavo, questo non riusciamo a perdonargli, di averci lasciato un perfetto improvviso vuoto, pieno circondato delimitato chiuso circoscritto inscritto descritto colmo di un vuoto intollerabile. Tutto improvvisamente, di sorpresa: improvvisamente. Uno muore e nel momento stesso in cui muore, non un attimo prima, non un attimo dopo, scompare. A uno si ferma il cuore e un attimo dopo è scomparso. Un altro attraversa la strada, mentre attraversa la strada arriva un ubriaco in macchina che lo investe, e un attimo dopo è scomparso. Cosà erano morti i miei genitori, pensavo aspettando che venisse su il caffè, mia madre è morta investita da una macchina mentre attraversava la strada, mio padre, appena due mesi dopo, di infarto miocardico. Non che io mi ricordi qualcosa della morte dei miei genitori, ero troppo piccolo, ma questo è quello che mia sorella ci ha sempre detto, a mio fratello e a me. Del fatto che mio padre, morto di infarto miocardico, unico e fatale, a soli due mesi dalla morte di mia madre, fosse morto in realtà non di vero infarto, ma di crepacuore, mia sorella era assolutamente certa. È morto di crepacuore, ci diceva nostra sorella, non ha resistito alla morte della mamma e gli si è spezzato il cuore. I medici avevano detto che se anche fossero stati chiamati subito non avrebbero potuto far nulla. Anche se suo padre avesse avuto il suo infarto in ospedale, aveva detto il primario, cosà mia sorella, non avremmo potuto far nulla per salvarlo. Un infarto che non gli ha lasciato scampo, pensavo, senza alcun preavviso e senza alcuno strascico. Si era disteso sul divano, cosà mia sorella, dicendo che si sentiva stanco, che forse aveva mangiato un po’ troppo, si era appisolato e nel sonno era morto. Mia sorella, che era in cucina a fare i piatti, sentà un tonfo e corse subito in salotto. Trovò nostro padre che rantolava per terra e chiamò subito l’ospedale, ma non servà a nulla; l’ambulanza arrivò nel giro di una quindicina di minuti, ci raccontò nostra sorella, ma già dopo cinque minuti lei si era resa conto che nostro padre era morto. Papà se n’è andato anche lui, ci disse, ha seguito la mamma e se n’è andato. Anche papà è scomparso, pensai allora. Papà se n’è andato e ci ha lasciato soli, disse mio fratello. Prima se n’è andata la mamma, disse, poi se n’è andato anche papà , ci hanno lasciato soli. Anch’io, questo devo ammetterlo, pensavo aspettando che venisse su il caffè, da bambino avevo condiviso l’idea di mio fratello secondo il quale mia madre e mio padre se ne erano andati perché non ci volevano abbastanza bene. Con l’età mi ero reso conto che i miei genitori non avevano alcuna colpa, anzi dopo pochi anni mi ero già fatto una ragione della loro scomparsa e, come si suol dire, mi ero messo il cuore in pace. Ma mio fratello, pensavo, non si è mai messo il cuore in pace e continuava a ripetermi che i nostri genitori ci avevano lasciato soli e che lui, mio fratello, non avrebbe mai perdonato ai nostri genitori il fatto di averci abbandonati. Nostra madre forse non ha colpa, mi disse una volta, ma nostro padre... nostro padre non ha avuto il coraggio di sopravvivere e si è sottratto alle sue responsabilità nei nostri confronti. Si è fatto venire un infarto ed è scomparso, diceva, lasciandoci in balia del mondo e scaricando la responsabilità sulle spalle di nostra sorella. Invano mia sorella, e a volte anch’io, cercavamo di convincerlo che papà ci voleva bene e che non era stata sua intenzione abbandonarci, che aveva avuto un infarto e che di questo infarto non aveva colpa. È il dolore per la morte della mamma che l’ha ucciso, diceva mia sorella a mio fratello, ma lui ci voleva bene. Ma mio fratello non se ne fece mai una ragione, e mentre io, dopo poco tempo, avevo per cosà dire perdonato ai miei genitori il fatto di essere morti, dunque scomparsi, nel giro di pochissimo tempo lasciandoci soli, e in seguito avevo perdonato anche me stesso, in quanto bambino, per aver odiato i miei genitori per il fatto di essere morti, lui, mio fratello, non li ha mai perdonati. Forse ha perdonato mia madre, pensai versandomi il caffè, ma di sicuro non ha mai perdonato mio padre che è stato sempre, nei suoi pensieri, un uomo che, cosà lui, è morto di proposito e morendo si è sottratto alle sue responsabilità . Mio fratello è stato sempre pieno di rancore, pensai, fin da bambino in tutto e per tutto un bambino pieno di rancore, poi un adolescente e quindi un uomo pieno di rancore, incapace di perdonare e di dimenticare. Un bambino sempre corrucciato, sempre riottoso, perennemente accartocciato su se stesso e sul suo rancore, perennemente in ansia per paura che anche mia sorella potesse lasciarlo solo. Il suo viso di bambino era sempre teso e preoccupato, pensai, e si rilassava soltanto tra le braccia di nostra sorella. Mia sorella, pensavo seduto al tavolo della cucina sorseggiando il caffellatte, ora è ufficialmente morta. Prima scomparsa e ora morta. Il fatto che sia morta nel momento in cui è scomparsa, penso, è qualcosa che riguarda soltanto me e mio fratello. Nessuno deve sapere, e nessuno sa, che mia sorella, in tutti questi anni, non è solo scomparsa ma anche morta; ed era effettivamente morta – e sepolta – già prima che io stesso, piú di dieci anni fa, mi recassi in questura (10 530p) a denunciarne la scomparsa. Ora, dopo dieci anni dalla dichiarazione di scomparsa e otto da quella di assenza, la dichiarazione di morte presunta. La scomparsa, per essere definitiva, ha bisogno della morte. La morte non ha bisogno di niente e di nessuno. Per questo, pensavo alzandomi dal tavolo della cucina, devo recarmi dal notaio Strazzabosco, nel suo ripugnante studio in piazza Castello, pensavo, in quel suo cosiddetto studio notarile, uno dei migliori di Vicenza, nel suo ufficio privato pieno di mobili notarili di pessimo gusto. Eppure, pensavo, in quel suo studio che io personalmente ho sempre detestato, risultandomi a volte addirittura lugubre e ripugnante, il notaio Strazzabosco tratta i suoi affari con successo da piú di quarant’anni. È stato infatti un ottimo amministratore dei nostri beni, su questo niente da dire. Piazza Castello, pensavo, dista pochi passi dai giardini Salvi, una delle mete abituali delle mie passeggiate in città . Non piú di un centinaio di passi, dunque in tutto, da casa, circa quindicimila passi. Da casa allo studio Strazzabosco, pensavo, saranno piú o meno quindicimila passi, dunque scarpe con suola di gomma. Per un tragitto cosà lungo delle scarpe con la suola di cuoio sono impensabili, molto meglio quelle con la suola di gomma. Scelsi infatti i miei vecchi anfibi militari con la suola in vibran marchiata Pirelli 1968, le scarpe piú comode in assoluto tra le decine che posseggo. Per di piú fatte nel 1968, pensavo indeciso se indossare una giacca blu o una nera. Misi la giacca blu, mi levai la giacca blu. Misi la giacca nera, mi levai la giacca nera. Rimisi la giacca blu, ma subito la rilevai per indossare il giubbotto di cuoio che papà aveva riportato a casa dalla Russia, cosà mia sorella, ed era il suo preferito.
Il giubbotto ungherese.
Papà , ci raccontò un giorno nostra sorella, a mio fratello e a me, aveva sfilato quel giubbotto di cuoio a un ungherese che aveva trovato morto lungo la strada, nel corso della famosa ritirata di Russia, e fu solo grazie a quel giubbotto di pelle imbottito di pelo bianco, cosà ancora mia sorella, che papà era riuscito a resistere al freddo, mentre pensava già che non avrebbe resistito un giorno di piú in quel suo ridicolo cappotto grigioverde d’ordinanza. Lo teneva come una reliquia, pensavo, cosà mia sorella, lo ingrassava per bene tutti gli anni, ma non lo indossava mai, e quando mia sorella lo tirò fuori dall’armadio, dicendo che ormai eravamo abbastanza grandi e, perché no, avremmo potuto usarlo, quel giubbotto di pelle cosà bello, che adesso era anche tornato di moda e in piú era anche un giubbotto che aveva una storia eccetera, sembrava davvero nuovo, lucido, il pelo bianchissimo. Lo indossai subito e mi guardai allo specchio e feci alcuni passi avanti e indietro e mi girai per vedere come mi stava dietro, di fianco, in movimento. Poi me lo sfilai e lo diedi a mio fratello, ma lui non volle saperne nemmeno di toccarlo il giubbotto, nemmeno di vederlo, era una cosa orribile, disse, una cosa terribile. E fuggà via lasciandoci soli, mia sorella e io, a chiederci cosa avesse quel giubbotto di cosà terribile, che cosa mai si nascondesse di cosà orribile nel giubbotto di pelle ungherese, da sconvolgere in quel modo nostro fratello, ma non ci fu verso di farlo parlare. Come al solito, di fronte a qualcosa che lo sconvolgeva, si chiuse in uno dei suoi mutismi esasperanti, e piú mia sorella gli chiedeva cosa fosse successo, cosa lo avesse cosà turbato, piú lui si chiudeva e il suo silenzio diventava via via piú silenzioso e piú impenetrabile. Inutile chiedere, inutile insistere, ciò che mio fratello aveva da dire l’avrebbe detto solo nei tempi e nei modi che lui avesse ritenuti opportuni, oppure non l’avrebbe detto mai. E poteva dire la sua opinione su una determinata questione, o le sue impressioni, o le ragioni che l’avevano portato ad agire in un determinato modo, anche a distanza di molto tempo dall’evento in questione. Per questo non fui cosà sorpreso quando mio fratello, un giorno che eravamo usciti a fare una passeggiata, si fermò di colpo e mi disse che lui quel giubbotto di cuoio ungherese che avevo addosso proprio in quel momento, non si sarebbe mai sognato di indossarlo; che fin dalla prima volta che l’aveva visto gli era sembrato un giubbotto orribile, un disgustoso giubbotto di cuoio imbottito di pelo di agnello, cosà disse, e il fatto che papà l’avesse tolto a un cadavere congelato lo rendeva, se possibile, ancora piú ripugnante, disse, soprattutto per il modo in cui glielo avrà tolto. Che vuoi dire?, gli chiesi. L’ha tolto all’ungherese morto, no?, morto congelato, no? SÃ, dissi, certo, dissi, all’ungherese morto congelato. Dal primo momento che ho visto quel giubbotto e ho sentito quella storia, disse, non posso fare a meno, ogni volta che vedo quel giubbotto, di pensare all’ungherese e a papà , e vedo papà che toglie il giubbotto all’ungherese, e mi immagino l’ungherese seduto, congelato seduto, con nelle mani una tazza di caffè congelato, con gli occhi sbarrati congelati e i ghiaccioli attaccati al naso, alla bocca, alla barba, ai baffi. Vedo papà che cerca di togliere il giubbotto all’ungherese ghiacciato, ma non ci riesce, perché l’ungherese è proprio congelato, surgelato, e il giubbotto gli si è incollato addosso. E come si fa, disse mio fratello, a togliere di dosso un giubbotto a un uomo surgelato?, già deve essere abbastanza difficile spogliare un morto, uno morto di fresco voglio dire, ancora caldo, completamente inerte, certo, ma almeno ancora non rigido, ancora, in qualche modo manipolabile. Ma un uomo surgelato, mi sono detto, disse mio fratello, un uomo completamente rigido, senza snodi: surgelato! Vedo papà che gli spezza tutte le articolazioni: delle dita del polso del gomito della spalla del collo, forse anche della schiena. Sento dei suoni orribili, suoni spezzati e suoni sordi e fruscii, forse avrà usato il calcio del fucile per spezzargli tutte le ossa, chi lo sa, può essere, o una vanga. Ma non aveva scelta, dissi, ha dovuto farlo! Dovuto un cazzo, disse mio fratello, dovuto un bel cazzo!, una scelta c’è sempre e tu lo sai bene, disse fissandomi.
Sempre! In tutti questi anni, pensavo indossando il giubbotto di cuoio ungherese, l’idea del suicidio è sempre stata con me, come si suol dire sempre un passo dietro di me. E insieme all’idea del suicidio anche l’idea di scomparire è sempre stata un passo dietro di me, se non addirittura di fianco a me. Molte volte sono stato – anche questo si dice – a un passo dall’andarmene lasciando tutto dietro le mie spalle. A volte pensavo di togliermi la vita e di scomparire, altre volte di scomparire senza togliermi la vita. Piú volte nel corso di questi dieci anni, e cioè dalla morte di mia sorella, avevo preparato una valigia, una sola, con la ferma determinazione di lasciare la mia casa, il mio paese (Cavazzale) e la nazione, ma all’ultimo momento quella valigia l’ho sempre disfatta. Ero arrivato addirittura a tenerla sempre pronta, la valigia, in un angolo del guardaroba, in modo da non dover perdere un solo attimo di tempo, nel momento in cui avessi deciso di andarmene. In fin dei conti, mi ero detto, non ha senso continuare a fare la valigia ogni volta che decido di andarmene, per poi disfarla non appena mi rendo conto che mi mancano le forze per andarmene veramente. Forse, mi ero detto, è proprio questo il motivo per cui non me ne vado: perdo troppo tempo a fare la valigia, la testa totalmente occupata dal pensiero della valigia, da quali capi di vestiario devo mettere nella valigia, in che quantità , in che modo, quali libri devo assolutamente portare con me, quali invece posso lasciare dietro di me, quali penne, quale spazzolino, quale dentifricio, le lamette o il rasoio elettrico? – se le lamette, allora la schiuma da barba, se il rasoio elettrico, niente schiuma –, andrò in un paese caldo oppure in un paese freddo? – se caldo, allora vestiti leggeri, se freddo, vestiti pesanti –, e questo e quello, se questo, allora quello, ma quello, allora questo, se quell’altro, quest’altro, oppure niente altro, ma sempre saltava fuori qualcos’altro, un nuovo problema, un nuovo dilemma, infiniti problemi per infiniti dilemmi, e di problema in problema, dilemma per dilemma, la determinazione viene meno e non parto. Molte volte non sono nemmeno riuscito a preparare la valigia, e anche quando, dopo infiniti sforzi, ero riuscito a prepararla, l’avevo subito disfatta. E non ero mai partito. Sempre, alla fine, ero restato, completamente sopraffatto dalla valigia e da una serie di dilemmi scaturiti dalla preparazione della valigia. Ma un giorno, ricordo, posi fine a ogni questione: preparai tre valigie di uguale formato: una per un paese caldo, una per un paese freddo, l’altra per dove ero. Misi le tre valigie aperte sopra il letto e una quarta, vuota, ai piedi del letto. Presi da ognuna delle tre valigie sopra il letto lo stretto necessario e lo misi nella quarta ai piedi del letto, componendo in questo modo una valigia per cosà dire ideale, una valigia che avrei potuto prendere in ogni momento per recarmi in un qualsiasi paese. Libri non ne avrei portati: impossibile fare una scelta e comunque, anche facendo una scelta ci sarebbero volute due valigie solo per i libri, dunque niente libri, pensai, al massimo il libro o i libri che sto leggendo nel momento in cui decido di prendere il largo. La valigia ideale, pensavo, la valigia che tengo sempre pronta. Ho deciso piú di una volta di andarmene, di prendere il mare e andarmi ad arenare in qualche parte del mondo, la piú lontana possibile da questa casa che a volte sembra soffocarmi. Piú di una volta mi sono alzato dal letto e ho fatto colazione con l’idea che, appena fatta colazione, avrei preso dal guardaroba la valigia che tengo sempre pronta e me ne sarei andato da questo paese di merda e da questo stato di merda. In fin dei conti, pensavo in quei momenti, niente mi trattiene, niente e nessuno. E se niente e nessuno mi trattiene, e anzi tutto e tutti mi respingono, per quale ragione dovrei mai restare? Perché?, mi chiedevo, perché restare?, perché resistere?, perché, invece di sprecare incalcolabili riserve di energia al solo scopo di tenermi lontano e tenere lontana tutta la gente che popola il vicinato, perché, invece, non porre fra loro e me la maggiore quantità di spazio possibile? Me ne vado, mi dicevo, me ne vado, scompaio. Andarsene, dissi a un tratto ad alta voce, andarsene. Scomparire, urlai quasi, guardandomi nello specchio del guardaroba, scomparire. Ma non sono mai scomparso; non me ne sono mai andato. Mi sono arenato nei corridoi di questa casa, pensavo guardandomi nello specchio, mi sono impantanato e impidocchiato in questa casa. Piú volte avevo preso la valigia e l’avevo sollevata; ero addirittura uscito dal guardaroba con la valigia in mano, ma non ero mai riuscito a uscire dalla casa. Non sei riuscito nemmeno a fare pochi passi fuori di casa con quella valigia, pensavo uscendo di casa. Avrei dovuto fare come mio fratello, pensavo, avrei dovuto scomparire dall’oggi al domani proprio come aveva fatto mio fratello. Gli anfibi militari con la suola in vibran e il giubbotto di cuoio ungherese, pensai, sono l’ideale. Non ho mai avuto la forza di andarmene, lasciando tutto alle mie spalle. Non ho mai avuto la determinazione, la prontezza di spirito e in definitiva la necessaria spietatezza, per prendere quella valigia e, stringendola saldamente in mano, varcare la soglia di casa, incamminarmi verso la stazione e prendere il primo treno. Mio fratello, penso, mi ha colto di sorpresa. Andandosene dall’oggi al domani, senza nemmeno lasciare un biglietto, una spiegazione, qualcosa, tuo fratello ti ha colto nettamente di sorpresa e ti ha incatenato qui, pensavo uscendo di casa. Mio fratello ha colto l’occasione e se n’è andato senza alcun preavviso, pensavo, e andandosene cosÃ, senza alcun preavviso, mi ha colto assolutamente di sorpresa e mi ha paralizzato, mi ha reso infermo, mi ha reso incapace di compiere un’azione come la sua, azione che richiede una grande dinamicità di corpo e di pensiero, mentre io sono paralizzato, se non nel corpo, certamente nel pensiero. Quasi tutti i giorni io cammino per molti chilometri, inoltrandomi e percorrendo nelle piú svariate direzioni il bosco di roveri e la palude, ma in realtà , da dieci e passa anni, sono paralizzato. O forse non sono affatto paralizzato, ma solo incatenato. Posso camminare e muovermi in tutte le direzioni, ma solo per la lunghezza della catena che mi stringe il cervello, paralizzandolo, inchiavardata all’estremità opposta alla soglia della casa di via Dante. In un certo senso sono paralizzato, pensai, dall’altro invece non sono affatto paralizzato, ma solo incatenato. Sono incatenato e mi sento paralizzato. E a paralizzarti, incatenandoti, pensavo attraversando il giardino ormai completamente in malora, visto che nessuno, da anni, se ne occupava piú, è stato tuo fratello. Appena in strada presi subito a sinistra e dopo pochi passi (77), girai ancora a sinistra per via Roi, la via del marchese, il nostro caro marchese Roi, pensai. Il benemerito marchese Roi e la sua tessitura, dove per anni hanno lavorato le sue vittime, di lui attraverso la sua tessitura. Il caro nobiluomo che ci ha costruito il teatro Roi, caduto poi nel corso del tempo sotto le sgrinfie dei preti che, cattolicamente, l’hanno distrutto. I preti del resto, pensavo, distruggono sempre tutto. I preti ci distruggono tutto fin da quando siamo bambini, ci rovinano l’esistenza e non si fanno nessuno scrupolo di rovinarcela appena nati. Non passano che...