Le botteghe color cannella
  1. 536 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

«È un libro che entra nella sfera della genialità»

Bohumil Hrabal

Con il suo amico Gombrowicz, Bruno Schulz è il grande maestro della letteratura polacca del Novecento. Secondo Kantor, che ha costruito La classe morta da un suo racconto, «tutta la nostra generazione è cresciuta di fatto all'ombra di Schulz».
Le botteghe color cannella, la sua prima e più famosa raccolta di racconti, è un'autobiografia trasformata in una fantasiosa mitologia dell'infanzia.
Uno dei massimi esempi di come la letteratura possa riscattare la banalità della vita quotidiana con le armi del grottesco e dell'invenzione linguistica.
Questo volume, oltre a tutti i racconti di Bruno Schulz, con le illustrazioni originali dell'autore, ripresenta i frammenti, i testi critici e quelli politici dello scrittore, nonché Il libro idolatrico, una storia per immagini che dimostra il grande talento di Schulz anche come disegnatore. Il punto di partenza della fantasia visionaria di Bruno Schulz è l'affollata e disordinata bottega di stoffe del padre: un vecchietto-demiurgo che sconvolge in modo imprevedibile tutte le regole della fisica e della ragione. Jacob si arrampica come un ragnetto per gli scaffali, inseguendo i ragni; elabora arzigogolate cosmogonie interpretando a modo suo i segni del cielo; si circonda di specie bizzarre e variopinte di volatili, diventando anche lui una sorta di feroce condor; si trasforma in pompiere con tanto di divisa rosso fiammante e alamari d'oro...
Metamorfosi, travestimenti, viaggi nello spazio e nel tempo (basta come pretesto, ad esempio, un vecchio album di francobolli) si accavallano con l'ausilio di una lingua poetica scoppiettante di metafore. Scettico sulle possibilità di conoscenza umana, Schulz aveva dato libero sfogo alla fantasia e alla «mitizzazione» della realtà. Nell'infinita varietà dei suoi aspetti, l'opera di Schulz ha una sua unitarietà. I racconti, assieme ai disegni, costituiscono un Libro: una sorta di Bibbia dell'infanzia perduta.

Dalla posfazione di Francesco M. Cataluccio

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
Print ISBN
9788806193638
eBook ISBN
9788858417874

Il Sanatorio all’insegna della Clessidra

a Józefina Szelińska

Il Libro

I.
Lo chiamerò semplicemente Libro, senza alcuna definizione o epiteto, e c’è in questa astinenza e restrizione un sospiro di perplessità, una tacita capitolazione di fronte all’inafferrabilità del trascendente, giacché nessuna parola, nessuna allusione riuscirà mai a brillare, odorare, scorrere con quel fremito di terrore, presentimento della cosa senza nome, il cui solo primo gusto sulla punta della lingua va oltre la capacità della nostra estasi. A che cosa mai servirebbe il pathos degli aggettivi e l’ampollosità degli epiteti di fronte a questa cosa incommensurabile, a questo incalcolabile splendore? Il lettore, del resto, il vero lettore, sul quale fa affidamento questo racconto, capirà anche cosí, quando lo guarderò profondamente negli occhi e in fondo ad essi brillerò di quella luce. In quello sguardo breve e intenso, in quella fuggevole stretta di mano egli coglierà, afferrerà, riconoscerà e socchiuderà gli occhi estasiato per quella profonda ricezione. E infatti, sotto il tavolo che ci divide, non ci teniamo forse tutti segretamente per mano?
Il Libro... Sul mattino dell’infanzia, ai primi albori della vita l’orizzonte si era rischiarato alla sua luce soave. Giaceva glorioso sulla scrivania di mio padre e questi, immersovi in silenzio, strofinava pazientemente col dito bagnato di saliva il dorso di quelle calcomanie, finché la carta opaca cominciava ad annebbiarsi, a intorbidarsi, a baluginare in un dolce presentimento e all’improvviso si sfaldava in tanti pezzi di carta assorbente e svelava un bordo ciliato, a occhio di pavone, e lo sguardo scivolava languendo in un’alba vergine di colori divini, in un prodigioso umidore di azzurri purissimi.
Oh, rivelazione, oh, invasione di luce, oh, dolce primavera, oh, padre...
Talvolta mio padre si sollevava dal Libro e si allontanava. Allora rimanevo a tu per tu con quello, e il vento passava attraverso le sue pagine e le immagini ne balzavano fuori.
E mentre il vento sfogliava cosí in silenzio quelle carte, soffiandone fuori colori e figure, fra le colonne del testo correva un fremito che lasciava sfuggire fra le lettere stormi di rondini e allodole. Cosí prendeva il volo, sparpagliandosi, una pagina dopo l’altra, e penetrava dolcemente nel paesaggio che saturava di colore. Talvolta dormiva e il vento allora lo disperdeva silenziosamente, come una rosa multipla, e ne schiudeva le foglie, un petalo dopo l’altro, una palpebra dopo l’altra, tutte cieche, vellutate e assopite, celanti nel loro nucleo, in fondo in fondo, una pupilla azzurra, un occhio di pavone, un nido urlante di colibrí.
Questo accadeva molto tempo fa. Mia madre ancora non c’era. Trascorrevo i giorni solo con mio padre nella nostra stanza, allora grande come un mondo intero.
I cristalli prismatici che pendevano dal lampadario riempivano la stanza di colori frantumati, di un arcobaleno spruzzato in tutti gli angoli, e quando la lampada ruotava sulla catena, tutta la stanza si muoveva con quei frammenti di arcobaleno, come se le sfere dei sette pianeti si spostassero girando l’una sull’altra. Mi piaceva stare fra le ginocchia di mio padre, abbracciandole di qua e di là, come colonne. A volte scriveva lettere. Sedevo alla scrivania e seguivo estatico gli svolazzi della firma, contorti e volteggianti come trilli di un soprano leggero. Nelle tappezzerie germogliavano sorrisi, si schiudevano occhi, rimbalzavano scherzi. Per farmi divertire, mio padre lanciava da una lunga cannuccia bolle di sapone nello spazio dell’arcobaleno. Andavano a sbattere contro la parete e scoppiavano lasciando nell’aria i loro colori.
Poi sopraggiunse mia madre e quel precoce, limpido idillio finí. Sedotto dalle sue carezze, dimenticai mio padre, la mia vita prese una svolta nuova, diversa, senza feste né miracoli, e avrei forse per sempre dimenticato il Libro, se non fosse stato per quella notte e per quel sogno.
II.
Mi destai una volta in un fosco mattino invernale – sotto la coltre delle tenebre ardeva, laggiú in lontananza, una livida aurora – e avendo ancora negli occhi un brulicare di figure e segni nebulosi, presi a farneticare oscuramente, confusamente, fra il tormento e un diverso rimorso, del vecchio Libro scomparso.
Nessuno mi capiva ed io, esasperato da quella ottusità, cominciai a infastidire, a molestare con insistenza i genitori in uno stato di febbrile impazienza.
Scalzo e con la sola camicia addosso mi misi a sfogliare, tremante per l’eccitazione, la biblioteca di mio padre, e deluso, furibondo, cercavo di descrivere incoerentemente dinanzi a un uditorio sbalordito quella cosa che non si poteva descrivere e che nessuna parola, nessuna immagine tracciata dal mio dito tremante e puntato, poteva uguagliare. Mi sfinivo in interminabili relazioni confuse e contraddittorie e piangevo di impotente disperazione.
Se ne stavano davanti a me perplessi e turbati, vergognosi della loro impotenza. In fondo al cuore non erano senza colpa. La mia violenza, il tono impaziente e collerico delle mie domande mi conferivano un’apparenza di ragione, la superiorità di una pretesa ben fondata. Accorrevano con i libri piú svariati e a forza me li mettevano in mano. Li gettavo via con indignazione.
Uno di quei libri, un volumone grosso e pesante, mio padre continuava a ripropormelo con timido incoraggiamento. L’aprii. Era una Bibbia. Vidi nelle sue pagine un lungo migrare di animali che scorreva per ampie strade, ramificandosi in cortei nel lontano paese, vidi il cielo tutto a stormi e a voli, enorme piramide rovesciata la cui punta estrema toccava l’Arca.
Sollevai su mio padre gli occhi colmi di rimprovero:
– Tu sai, padre, – gridai, – tu sai perfettamente, non nasconderti, non sfuggire! Quel libro ti ha tradito. Perché mi dai questo apocrifo corrotto, questa millesima copia, miserabile falsificazione? Cosa ne hai fatto del Libro?
Mio padre volse gli occhi.
III.
Trascorsero le settimane e la mia agitazione si attenuò, si placò, ma l’immagine del Libro continuò ad ardere nel mio cuore di vivida fiamma, grande, frusciante Codice, Bibbia in tempesta, attraverso le cui pagine correva il vento saccheggiandola come una immensa rosa spampanata.
Mio padre, vedendomi piú quieto, mi si avvicinò un giorno cautamente e disse con tono di benevola proposta:
– In fin dei conti esistono soltanto i libri comuni. Il Libro è un mito in cui crediamo in gioventú, ma col passare degli anni si smette di trattarlo seriamente.
Io allora avevo già un’altra convinzione, sapevo che il Libro è un postulato, che è un programma. Sentivo sulle spalle il peso di una grande missione. Non risposi niente, pieno di sdegno e di tetro, accanito orgoglio.
A quel tempo infatti ero già in possesso di quel frammento di libro, di quei miserevoli resti che uno strano caso del destino aveva fatto cadere nelle mie mani. Avevo nascosto accuratamente il mio tesoro agli occhi di tutti, rammaricando la profonda decadenza di quel libro, per i cui resti mutili non ero riuscito a conquistare la comprensione di nessuno. Era accaduto cosí.
Un giorno di quell’inverno sorpresi Adela durante le pulizie, mentre se ne stava, con la scopa in mano, appoggiata a un leggio sul quale giaceva semistracciata una scartoffia. Mi chinai al di sopra della sua spalla, non tanto per curiosità, quanto per inebriarmi ancora una volta del profumo del suo corpo, il cui fascino giovane si era rivelato ai miei sensi da poco desti.
– Guarda, – disse accettando senza proteste il mio abbraccio, – è mai possibile che a qualcuno siano cresciuti i capelli fino a terra? Mi piacerebbe averli cosí.
Osservai il disegno. Sull’ampia pagina c’era il ritratto di una donna dalle forme piuttosto robuste e tozze, dal viso pieno di energia e di esperienza. Dalla testa di quella dama scendeva un immenso manto di capelli, che ricadeva pesantemente dalle spalle strascicando al suolo le estremità delle grosse ciocche. Era un inverosimile capriccio di natura, un mantello ricco e ondulato, filato dalle radici dei capelli, ed era difficile immaginare che quel peso non provocasse un dolore sensibile e non immobilizzasse la testa su cui gravava. Ma la proprietaria di quella magnificenza sembrava portarla con orgoglio e il testo stampato accanto in grassetto narrava la storia di quel miracolo, cominciando con queste parole: Io, Anna Csillag, nata a Karlovice in Moravia, avevo una scarsa crescita dei capelli...
Era una lunga storia, simile nel costrutto a quella di Giobbe. Anna Csillag era, per decreto divino, affetta da scarsa crescita dei capelli. Tutta la cittadina si impietosiva per quel difetto di natura che le era perdonato in considerazione della sua vita irreprensibile, anche se non poteva non essere in qualche modo causato da colpa. Ed ecco che in seguito alle ardenti preghiere affinché le fosse allontanata dal capo quella maledizione Anna Csillag ottenne la grazia di una rivelazione, ricevette segni e indicazioni, e confezionò uno specifico, un farmaco miracoloso che ridette fertilità alla sua testa. Cominciarono a crescerle i capelli, e non solo, anche il marito, i fratelli, i cugini da un giorno all’altro si ricoprirono di un vigoroso e nero strato di peli. Nella seconda pagina si vedeva Anna Csillag sei settimane dopo la rivelazione della ricetta, circondata dai fratelli, cognati e nipoti, tutti uomini con barbe fino alla cintola e baffuti, e con stupore si osservava quella vera e propria esplosione di autentica, orsesca virilità. Anna Csillag aveva fatto felice l’intera cittadina, sulla quale si era riversata una vera benedizione sotto forma di capigliature fluenti e criniere immense, e la cui terra i cittadini spazzavano con le barbe ampie come scope. Anna Csillag divenne l’apostolo della pelosità. Dopo aver fatto felice la città natale, desiderava rendere felice il mondo intero e pregava, incitava, implorava di accettare per la propria salvezza quel dono di Dio, quel farmaco miracoloso di cui era l’unica a conoscere il segreto.
Questa storia lessi sopra la spalla di Adela, e ad un tratto mi balenò un’idea, e a quel colpo mi feci di fuoco. Ma sí, quello era il Libro, le sue ultime pagine, la sua appendice ufficiosa, la facciata posteriore, piena di detriti e di rovine! Frammenti di arcobaleno turbinavano nelle tappezzerie volteggianti; strappai dalle mani di Adela quei fogli e con voce che non riuscivo a padroneggiare sibilai:
– Dove hai preso questo libro?
– Sciocco, – disse alzando le spalle, – ma se sta qui da sempre e ogni giorno ne strappiamo un foglio per involtare la carne dal macellaio e la colazione di tuo padre...
IV.
Corsi in camera mia. Sconvolto, il viso in fiamme, presi a sfogliare con mani che volavano quelle pagine. Disgraziatamente ce n’erano appena una quindicina. Neppure una pagina del testo vero e proprio, soltanto pubblicità e annunci. Subito dopo le profezie della sibilla lungicrinita seguiva una pagina dedicata a un farmaco miracoloso per tutte le malattie e infermità. «Elsa – fluido di cigno» si chiamava quel balsamo, e faceva miracoli. Il foglio era pieno di testimonianze accreditate, di commoventi relazioni di persone sulle quali il miracolo si era compiuto.
Dalla Transilvania, dalla Slavonia, dalla Bucovina giungevano convalescenti entusiasti a testimoniare, a raccontare con parole ardenti e commosse la propria storia. Camminavano fasciati e curvi, agitando un’ormai inutile stampella, strappandosi i cerotti dagli occhi e le bende dalle scrofole.
Attraverso quei cortei di infermi si intravedevano lontane e tristi cittadine dal cielo bianco come carta, indurite dalla prosa e dalla quotidianità. Erano città dimenticate nelle profondità del tempo, dove la gente era legata al suo piccolo destino da cui non si staccava neppure per un istante. Un calzolaio era fino in fondo un calzolaio, odorava di cuoio, aveva il viso piccolo e segnato dalla miseria, occhi pallidi e miopi sopra baffi incolori e fiutanti, e si sentiva interamente calzolaio. E se i loro foruncoli non dolevano, se non avevano le ossa rotte e l’idropisia non li costringeva sui giacigli, erano felici, di una felicità incolore, grigia, fumavano tabacco da poco prezzo, il giallo tabacco imperial-regio, o sognavano ottusamente davanti al botteghino del lotto.
Gatti tagliavano loro la strada, ora da destra, ora da sinistra, appariva loro in sogno un cane nero e prudeva loro una mano. A volte scrivevano lettere, copiandole dal Segretario galante, vi incollavano accuratamente il francobollo e le affidavano, non senza esitazione e diffidenza, alla cassetta postale, picchiandovi sopra col pugno, quasi volessero svegliarla. E nei loro sogni volavano poi bianche colombe con lettere nel becco che sparivano nelle nubi.
Le pagine seguenti si sollevavano oltre la sfera dei problemi quotidiani, verso regioni di pura poesia.
C’erano fisarmoniche, cetre e arpe, un tempo strumenti di cori angelici, oggi, grazie ai progressi dell’industria, resi accessibili a prezzi popolari all’uomo semplice, alla gente timorata, per rinfrancare il cuore e godersi una lecita distrazione.
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C’erano organetti di Barberia, veri miracoli della tecnica, che celavano flauti, ugole e zufoli, armoniche dal trillo soave come nidi di usignoli singhiozzanti, inestimabile tesoro per gli invalidi, fonte di lucro per gli infermi, e assolutamente indispensabili in ogni casa musicale. E questi organetti bellamente dipinti li si vedevano poi aggirarsi sulle spalle di insignificanti vecchietti grigi, i cui volti, svuotati dalla vita, erano come coperti da una ragnatela e completamente indistinti, volti dagli occhi lagrimosi, immobili, che scivolavano lentamente, volti privi di vita, scoloriti e innocenti come la corteccia degli alberi screpolata dalle intemperie e al pari di questa odorosi ormai solo di pioggia e di cielo.
Da tempo hanno dimenticato come si chiamavano e chi erano, e cosí, perduti in se stessi, si sono trascinati con le ginocchia piegate, a passi piccoli e uguali, nelle loro enormi e pesanti scarpe, lungo una linea perfettamente diritta e uniforme fra le strade tortuose e confuse dei passanti.
Nelle bianche mattinate senza sole, irrigidite dal freddo, immerse nei problemi quotidiani, essi sgusciavano furtivamente fuori dalla folla, sistemavano l’organetto sul trespolo a un incrocio di strade, sotto una fetta gialla di cielo disegnata dal filo del telegrafo, fra gente che si affrettava ottusamente con il colletto alzato, e cominciavano la loro melodia non dall’inizio, ma dal punto in cui si erano interrotti il giorno prima, e suonavano: «Daisy, Daisy, tu mi risponderai...», mentre dai comignoli si alzavano gonfiandosi bianchi pennacchi di fumo. E il fatto strano era che quella melodia appena iniziata balzava subito in una breccia vuota, al suo posto in quell’ora e in quel paesaggio, come se da sempre appartenesse a quel giorno assorto e smarrito in se stesso, e al suo ritmo corressero i pensieri e i grigi affanni dei passanti frettolosi.
E quando dopo un certo tempo quella musica terminava con un lungo, prolungato acuto, strappato alle viscere dell’organetto che stava già passando ad altro, pensieri e affanni si arrestavano per un istante, come in una danza, per mutare passo, e poi, senza fermarsi, prendevano a girare nella direzione opposta, al ritmo di una nuova melodia che prorompeva dalle canne dell’organetto: «Margherita, tesoro dell’anima mia...»
E nell’apatia di quella mattinata, nessuno si era accorto che il senso del mondo era totalmente mutato, che non correva piú al ritmo «Daisy, Daisy...», bensí a quello «Mar-ghe-rita...»
Voltiamo ancora pagina... Che è mai? Forse una pioggia primaverile? No, quel cinguettio di uccellini si riversa come un grigio fiotto di granelli sull’ombrello, perché qui si vendono veri canarini di Hartz, gabbie piene di cardellini e storni, ceste di canterini e garruli volatili. Affusolati e leggeri quasi fossero imbottiti d’ovatta, convulsamente saltellanti, agili come se ruotassero su perni cigolanti e lisci, loquaci come i cucú degli orologi, erano il conforto della solitudine, sostituivano per gli scapoli il calore del focolare domestico, strappavano ai cuori piú incalliti la soavità di un sentimento materno, tanto avevano di pulcinesco e commovente; e quando si voltava la pagina sopra di loro, inviavano ancora a chi se ne andava il loro collettivo, seducente cinguettio.
Ma in seguito quel miserevole scritto precipitava sempre piú in basso. Adesso aveva imboccato la strada di una dubbia ciarlataneria. Avvolto in un lungo mantello, col sorriso seminascosto dalla barba nera, chi mai si presentava al servizio del pubblico? Il signor Bosco di Milano, sedicente maestro di magia nera, che parlava a lungo e oscuramente, mostrando qualcosa sulla punta delle dita, senza pertanto rendere la cosa piú comprensibile. E benché egli fosse convinto di essere giunto a stupefacenti conclusioni, che pareva soppesare per un attimo fra le dita sensibili, prima che il loro senso alato fuggisse dalle dita in aria, e benché punteggiasse i sottili nessi della dialettica con un ammonitore surcigliare che preparava a cose non comuni, non lo si capiva e, quel che è peggio, non si aveva voglia di capire niente e lo si lasciava col suo gesticolare, col suo tono in sordina e con tutta la gamma dei suoi oscuri sorrisi, per sfogliare velocemente le ultime pagine, che cadevano ormai a pezzi.
In quegli ultimi fogli, che scivolavano evidentemente in un delirio febbrile, in un chiaro non-senso, un gentleman offriva il suo metodo infallibile per diventare energici e risoluti ne...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Le botteghe color cannella
  3. Agosto
  4. La visitazione
  5. Gli uccelli
  6. I manichini
  7. Trattato dei manichini, ovvero secondo Libro della Genesi
  8. Trattato dei manichini (seguito)
  9. Trattato dei manichini (conclusione)
  10. Nemrod
  11. Pan
  12. Il signor Karol
  13. Le botteghe color cannella
  14. La Via dei Coccodrilli
  15. Gli scarafaggi
  16. La bufera
  17. La notte della Grande Stagione
  18. Il Sanatorio all’insegna della Clessidra
  19. La cometa
  20. Frammenti
  21. Testi critici e autocritici
  22. Testi politici
  23. Appendice Il Libro idolatrico
  24. Maturare verso l’infanzia Introduzione a Bruno Schulz di Francesco M. Cataluccio
  25. Il libro
  26. L’autore
  27. Dello stesso autore
  28. Copyright