Dei due ingressi del caffè lei sceglieva sempre il piú stretto, quello che tutti chiamavano la porta dell’ombra. Occupava lo stesso tavolino in fondo alla saletta. I primi tempi non parlava con nessuno. Poi ha fatto conoscenza con i clienti abituali del Condé, la maggior parte della nostra età, all’incirca fra i diciannove e i venticinque anni. A volte si sedeva al loro tavolo, ma piú spesso restava fedele al suo posto, giú nell’angolo.
Non veniva mai alla stessa ora. La potevi trovare seduta lí il mattino molto presto. Oppure compariva verso mezzanotte e rimaneva fino alla fine. Con Le Bouquet e La Pergola era il caffè del quartiere che chiudeva piú tardi, e che aveva la clientela piú singolare. Mi domando, dopo tanto tempo, se non fosse proprio la sua presenza a dare al luogo e alle persone quella loro aria strana, quasi li avesse impregnati del suo profumo.
Se per ipotesi ti avessero portato lí con gli occhi bendati, ti avessero fatto sedere a un tavolino, tolto la benda, e concesso pochi minuti per rispondere alla domanda: in che quartiere di Parigi ti trovi?, forse ti sarebbe bastato osservare i vicini e ascoltare i loro discorsi per indovinare: dalle parti del carrefour dell’Odéon, che immagino sempre cosí triste sotto la pioggia.
Un giorno al Condé era entrato un fotografo. Niente, nel suo aspetto, lo distingueva dagli altri clienti. Stessa età, stesso abbigliamento trasandato. Indossava una giacca troppo lunga, calzoni di tela e massicce scarpe militari. Aveva scattato molte fotografie ai clienti del Condé. Era diventato anche lui un frequentatore abituale e, per tutti, era come se scattasse foto di famiglia. Molto tempo dopo, quelle immagini sono state pubblicate in un album fotografico dedicato a Parigi, dove le didascalie riportavano soltanto il nome dell’avventore o il suo soprannome. E lei compare in molte foto. Catturava la luce meglio degli altri, come dicono al cinema. Fra tutti, è lei che si nota per prima. Nelle didascalie, a fondo pagina, è menzionata come «Louki». «Da sinistra a destra: Zacharias, Louki, Tarzan, Jean-Michel, Fred e Ali Cherif…» «In primo piano, seduta al bancone: Louki. Dietro: Annet, Don Carlos, Mireille, Adamov e il dottor Vala». Lei siede ben dritta, mentre gli altri hanno una posa rilassata, quello che chiamano Fred, ad esempio, si è addormentato con la testa appoggiata allo schienale in similpelle ed è evidente che non si rade da molto. Una precisazione: il nome Louki le è stato dato da quando ha cominciato a frequentare Le Condé. Mi trovavo lí la sera che è entrata, era quasi mezzanotte e restavano soltanto Tarzan, Fred, Zacharias e Mireille, seduti allo stesso tavolo. È stato Tarzan a gridare: – Ma guarda, ecco Louki… – Dapprima è parsa spaventata, poi ha sorriso. Zacharias si è alzato e fingendo un tono solenne: – Questa notte ti battezzo. D’ora in poi ti chiamerai Louki –. E a mano a mano che si faceva sempre piú tardi e che tutti continuavano a chiamarla Louki, credo che abbia provato sollievo a portare quel nuovo nome. Sí, sollievo. Piú ci penso, infatti, piú sono sicuro della mia prima impressione: si rifugiava lí, al Condé, come se volesse fuggire qualcosa, sottrarsi a un pericolo. Era stato il primo pensiero vedendola sola, in un angolo, dove nessuno poteva notarla. Cercava di non attirare mai l’attenzione, neppure quando si univa agli altri. Restava in silenzio, in disparte, limitandosi ad ascoltare. Ho addirittura pensato che scegliesse i gruppi rumorosi, gli «spacconi», per sentirsi piú al sicuro, altrimenti non si sarebbe seduta cosí spesso al tavolino di Zacharias, di Jean-Michel, di Fred, di Tarzan e della Houpa… Con loro diventava parte dello sfondo, nient’altro che un’anonima comparsa, di quelle che le didascalie delle foto indicano come «Persona non identificata» o semplicemente «X». Sí, i primi tempi al Condé non l’ho mai vista a tu per tu con nessuno. E in fondo, non era un problema neanche se uno degli spacconi la chiamava Louki destando l’attenzione generale visto che quello non era il suo vero nome.
Eppure, a guardarla bene, si notavano certi particolari che la rendevano diversa dagli altri. C’era una cura particolare nel suo modo di vestire che non apparteneva ai clienti del Condé. Una sera, al tavolo di Tarzan, di Ali Cherif e della Houpa, mentre accendeva una sigaretta ero rimasto colpito dalle sue mani sottili. E le unghie, in particolare, brillavano. Erano ricoperte di smalto trasparente. È un dettaglio che rischia di apparire futile. Cerchiamo di essere seri. Ma allora devo fornire qualche precisazione in piú sui frequentatori abituali del Condé. Avevano fra i diciannove e i venticinque anni, salvo alcuni clienti come Babilée, Adamov o il dottor Vala che andavano per i cinquanta, ma non ci si badava. Babilée, Adamov e il dottor Vala restavano fedeli alla loro giovinezza, a ciò che potremmo chiamare con il bel nome melodioso e desueto di «bohème». Lo cerco sul dizionario: bohémien, persona che conduce una vita anticonformista e spensierata. Ecco una definizione che si attagliava perfettamente agli uomini e alle donne che frequentavano Le Condé. Alcuni come Tarzan, Jean-Michel e Fred sostenevano di aver avuto piú volte a che fare con la polizia, fin dall’adolescenza, e la Houpa a sedici anni era fuggita dall’istituto correzionale Bon-Pasteur. Ma si trattava della Rive gauche e la maggior parte di loro giocava a fare l’artista o il letterato. Anch’io studiavo. Non osavo dirlo e non mi mescolavo mai veramente con loro.
Avevo capito che era diversa dagli altri. Da dove veniva, prima che le fosse dato il suo nome? I clienti abituali del Condé avevano spesso un libro in mano che appoggiavano con noncuranza sul tavolo, la copertina macchiata di vino. I canti di Maldoror. Le illuminazioni. Le barricate misteriose. Ma lei, all’inizio, si era presentata a mani vuote. Poi ha voluto di certo fare come gli altri e un giorno l’ho sorpresa al Condé, da sola, che leggeva. Da allora il suo libro non l’ha piú lasciata. Quando era in compagnia di Adamov e degli altri, lo metteva bene in vista sul tavolo, come fosse un passaporto o un permesso di soggiorno che legittimava la sua presenza accanto a loro. Ma nessuno vi prestava attenzione, né Adamov, né Babilée, né Tarzan, né la Houpa. Era un’edizione tascabile, di quelle comprate d’occasione sulle bancarelle in riva alla Senna, con la copertina sporca e il titolo stampato a grandi caratteri rossi: Orizzonte perduto. Allora non mi diceva niente. Avrei dovuto chiederle di cosa parlasse, ma stupidamente mi ero convinto che Orizzonte perduto fosse per lei un semplice accessorio e che fingesse di leggerlo per sentirsi in sintonia con la clientela del Condé. Una clientela che a un passante che avesse gettato uno sguardo fugace all’interno – e magari appoggiato per un istante la fronte al vetro – sarebbe sembrata fatta di semplici studenti. Ma avrebbe dovuto ben presto ricredersi vedendo la grande quantità di alcol consumata al tavolo di Tarzan, di Mireille, di Fred e della Houpa. Nei tranquilli caffè del Quartiere latino, non si sarebbe mai bevuto cosí tanto. Certo, nelle ore morte del pomeriggio Le Condé poteva trarre in inganno. Ma sul finire del giorno, diventava il luogo di ritrovo di quella che un filosofo sentimentale chiamava: «la gioventú perduta». Perché proprio quel caffè? Per via della proprietaria, una certa Madame Chadly che sembrava non stupirsi di niente e mostrava persino una certa indulgenza verso i suoi clienti. Molti anni dopo, quando ormai le strade del quartiere rilucevano soltanto di vetrine di lusso e una pelletteria aveva preso il posto del Condé, ho incontrato Madame Chadly sull’altra riva della Senna, lungo la salita di rue Blanche. Sulle prime non mi ha riconosciuto. Abbiamo camminato a lungo, fianco a fianco, parlando del Condé. Suo marito, un algerino, aveva comprato il locale nel dopoguerra. Lei ricordava tutti i nostri nomi. Si chiedeva spesso che fine avessimo fatto, ma senza illudersi troppo. Aveva capito fin dall’inizio che le cose per noi sarebbero andate malissimo. Eravamo cani randagi, cani sperduti, ha detto. E sul punto di separarci, davanti alla farmacia di place Blanche, mi ha confidato guardandomi dritto negli occhi: – La mia preferita era Louki.
Quando sedeva al tavolo di Tarzan, di Fred e della Houpa, beveva davvero quanto loro, o fingeva per non deluderli? In ogni caso, la schiena dritta, i gesti lenti e pieni di grazia, e un sorriso appena accennato, Louki reggeva benissimo l’alcol. Al banco è piú facile barare. Basta approfittare di un momento di distrazione dei compagni ubriaconi per vuotare il bicchiere nel lavandino. Ma lí, seduta a uno dei tavolini del Condé, era piú difficile. Ti costringevano a seguirli nelle loro bevute. Erano quanto mai suscettibili in proposito e non ti consideravano degno del gruppo se non li accompagnavi fino in fondo a quelli che chiamavano i loro «viaggi». Riguardo ad altre sostanze tossiche mi era parso poi di capire, senza averne la certezza, che Louki ne facesse uso insieme ad alcuni membri della compagnia. Anche se niente nei suoi occhi e nel suo atteggiamento faceva pensare che visitasse i paradisi artificiali.
Mi sono domandato spesso se qualche conoscente le avesse parlato del Condé ancor prima che lei ci entrasse quella sera. O se qualcuno le avesse invece dato appuntamento lí, senza poi venire. Cosí, un giorno dopo l’altro, una sera dopo l’altra, lei era rimasta di guardia, seduta al suo tavolino, con la speranza di ritrovarlo proprio in quel locale, unico punto di riferimento con lo sconosciuto. Nessun modo di contattarlo. Niente indirizzo. Niente numero di telefono. Solo un nome. O forse lei era approdata lí per caso, proprio come me. Si trovava nel quartiere e voleva ripararsi dalla pioggia. Ho sempre pensato che certi luoghi sono come calamite, che ti attraggono se passi nei paraggi. In modo impercettibile, senza che tu te ne renda conto. Basta una strada in discesa, un marciapiede assolato oppure all’ombra. O magari un forte temporale che ti porta esattamente là dove dovevi approdare. Credo che Le Condé, grazie alla sua posizione, possedesse questo tipo di attrazione magnetica, e anche un calcolo delle probabilità lo avrebbe confermato: in un perimetro piuttosto esteso, era inevitabile scarrocciare nella sua direzione. Io ne so qualcosa.
Bowing, uno del gruppo che tutti chiamavano «il Capitano», si era lanciato in un’impresa approvata anche dagli altri. Da circa tre anni registrava i nomi dei clienti del Condé, via via che entravano, annotando anche la data e l’ora esatta del loro arrivo. Aveva affidato lo stesso compito a due amici al Bouquet e alla Pergola, locali che restavano aperti tutta la notte. Purtroppo in quei due caffè non sempre i clienti volevano dire il loro nome. In fondo, Bowing cercava di salvare dall’oblio le farfalle che volteggiano per qualche secondo intorno alla luce. Diceva di sognare un immenso registro dove fossero annotati i nomi dei clienti degli ultimi cent’anni di tutti i caffè di Parigi, con tanto di indicazione delle sequenze di entrate e uscite. Era ossessionato da ciò che chiamava «i punti fermi». In quel flusso continuo di donne, uomini, bambini, cani che passano per poi perdersi nelle strade, sarebbe bello, di tanto in tanto, ricordare almeno un volto. Ebbene, secondo Bowing, nel mälström delle grandi città occorreva trovare dei punti fermi. Prima di partire per l’estero mi aveva affidato il quaderno dove per tre anni, giorno dopo giorno, erano stati registrati i clienti del Condé. Lei vi figura solo con il suo pseudonimo, Louki, ed è menzionata per la prima volta un 23 gennaio. Quell’anno l’inverno era stato particolarmente rigido e molti di noi trascorrevano l’intera giornata al Condé per ripararsi dal freddo. Il Capitano annotava anche il nostro indirizzo cosí da immaginare il tragitto che facevamo ogni giorno per arrivare al Condé. Secondo Bowing anche questo era un modo per stabilire dei punti fermi. L’indirizzo di Louki non compare subito. Soltanto un 18 marzo si legge: «Ore 14. Louki, 16, rue Fermat, XIV arrondissement». Ma il 5 settembre dello stesso anno ha già cambiato recapito: «Ore 23,40. Louki, 8, rue Cels, XIV arrondissement». Immagino che Bowing evidenziasse su grandi mappe di Parigi le strade che percorrevamo per arrivare al Condé, e che usasse penne a sfera di colore diverso. Forse voleva capire se esisteva una qualche possibilità che ci incrociassimo ancor prima di raggiungere la meta.
E infatti ricordo che un giorno ho incontrato Louki in un quartiere che non conoscevo, dove ero andato a far visita a un lontano cugino dei miei genitori. Uscendo da casa sua stavo camminando verso Porte-Maillot, quando ci siamo incrociati proprio in fondo all’avenue de la Grande-Armée. L’ho riconosciuta e anche lei mi ha fissato con uno sguardo inquieto, come se l’avessi sorpresa in una situazione imbarazzante. Le ho teso la mano dicendo: – Ci siamo già visti al Condé, – e improvvisamente mi è sembrato che quel caffè si trovasse all’altro capo del mondo. Ha sorriso imbarazzata: – Ma certo… al Condé… – Non era da molto che vi era comparsa. Non si era ancora mescolata agli altri e Zacharias non l’aveva ancora battezzata Louki. – Buffo caffè, non è vero, Le Condé?… – Ha annuito. Abbiamo fatto un tratto di strada insieme e mi ha detto che abitava nelle vicinanze ma che quel quartiere non le piaceva affatto. Che stupido sono stato, quel giorno avrei potuto conoscere il suo vero nome. Ci siamo separati all’entrata del metrò di Porte-Maillot, l’ho guardata allontanarsi verso Neuilly e il bois de Boulogne mentre camminavo sempre piú adagio, come per lasciare a qualcuno l’opportunità di trattenerla. Ho pensato che non sarebbe piú venuta al Condé e che mai piú avrei avuto sue notizie. Sarebbe scomparsa in quello che Bowing chiamava «l’anonimato della grande città», e che lui tentava di contrastare riempiendo di nomi le pagine del suo quaderno. Un Clairefontaine con la copertina rossa plastificata e centonovanta pagine. Onestamente, quel quaderno non serve a granché. Se se ne sfogliano le pagine, a parte qualche nome e indirizzo fugace, non si riesce a sapere niente di tutte quelle persone, compreso me. Probabilmente il Capitano pensava che fosse già molto averci nominati e «fermati» da qualche parte. Quanto al resto… Al Condé non ci facevamo mai domande sulle nostre rispettive origini. Eravamo cosí giovani, nessun passato da rivelare, vivevamo al presente. Anche i clienti piú vecchi, Adamov, Babilée o il dottor Vala, non facevano mai allusione al loro passato. Si accontentavano di starsene lí, in mezzo a noi. Soltanto oggi, dopo tanto tempo, provo un rimpianto: vorrei che Bowing fosse stato piú preciso nel suo quaderno, che avesse dedicato a ciascuno di noi una breve notizia biografica. Credeva davvero che un nome e un indirizzo sarebbero bastati per rintracciare in futuro il filo di una vita? O addirittura solo un nome, e neppure quello vero? «Louki. Lunedí 12 febbraio. Ore 23». «Louki. 28 aprile, ore 14». Indicava anche i posti che i clienti occupavano ai tavoli ogni giorno. A volte non c’è né un nome né un cognome. In tre diverse occasioni, nel mese di giugno di quell’anno ha annotato: «Louki e il bruno con la giacca di pelle scamosciata». Non ha chiesto il nome a quel tizio, o forse lui si è rifiutato di dirglielo. Non sembrava un cliente abituale. Il bruno con la giacca di pelle scamosciata si è perduto per sempre nelle strade di Parigi, e Bowing ha potuto soltanto fermare la sua ombra per pochi secondi. Il quaderno contiene anche delle inesattezze. Alla fine sono riuscito a stabilire alcuni punti di riferimento che confermerebbero che la prima volta che lei è arrivata al Condé non era gennaio, come invece Bowing lascerebbe supporre. Ho un ricordo di lei che risale a molto prima. Il Capitano ha iniziato a menzionarla da quando gli altri l’hanno battezzata Louki, e fino ad allora, forse, non aveva notato la sua presenza. Non ha avuto diritto neppure a un appunto vago, del genere: «Ore 14. Una bruna con gli occhi verdi», come per il bruno con la giacca di pelle scamosciata.
È stato nell’ottobre dell’anno precedente che lei ha fatto la sua prima comparsa. Ho scoperto nel quaderno del Capitano un punto di riferimento: «15 ottobre, ore 21. Compleanno di Zacharias. Al tavolo: Annet, Don Carlos, Mireille, la Houpa, Fred, Adamov». Lo ricordo benissimo. Lei era al loro tavolo. Perché a Bowing non è venuta la curiosità di chie...