Mi chiamo Arthur Gordon Pym. Mio padre era un commerciante in articoli marittimi assai accreditato a Nantucket, dove sono nato. Mio nonno materno era notaio e aveva una buona clientela. Fu uomo fortunato in ogni cosa e aveva, tra l’altro, speculato con molto profitto sui capitali della Edgarton New Bank, com’essa si chiamava una volta. Con questi e altri mezzi era riuscito a mettere assieme una discreta somma di denaro. Credo che fosse affezionato a me assai piú che a chiunque altro al mondo, cosà che io nutrivo ottime speranze di ereditare, alla sua morte, la maggior parte delle sue sostanze. All’età di sei anni mi mandò alla scuola del vecchio Ricketts, ottima pasta d’uomo; questi aveva un braccio solo e maniere assai eccentriche, come è noto a chiunque sia stato a New Bedford. Rimasi alla sua scuola fino a diciassette anni, quando cioè lo lasciai per l’accademia di Mr E. Ronald, situata in cima alla collina. Là mi legai d’una profonda intimità col figlio di Mr Barnard, un capitano di marina che di solito navigava per conto della ditta Lloyd & Vredenburgh ed è anche egli assai noto a New Bedford e deve avere molti parenti, ne sono sicuro, anche a Edgarton. Suo figlio, Augustus, aveva appena due anni piú di me. Era stato a bordo della John Donaldson, con il padre, alla caccia della balena e non si stancava mai di parlarmi delle sue avventure nel Pacifico meridionale. Andavo spesso a passar la giornata da lui e qualche volta anche la notte. Dormivamo allora nello stesso letto e Augustus era capace di tenermi desto sino al mattino raccontandomi storie meravigliose sugli indigeni dell’isola di Tinian e d’altri luoghi ch’egli aveva veduto nei suoi viaggi. Finii cosà per prestare il piú vivo interesse a quanto mi veniva raccontando e a poco a poco un pazzo desiderio di correre il mare s’impadronà di me. Possedevo un battello a vela – l’Ariel – che poteva avere il valore di un settantacinque dollari; era fornito d’una specie di mezzo ponte ed era armato come una scialuppa. Non rammento piú che tonnellaggio facesse, ma è certo che poteva tenere dieci persone con discreto agio. Prendemmo l’abitudine di darci, con questo battello, alle scappate piú imprudenti che si possano immaginare, tanto che ancor oggi, al pensarvi, mi sembra un miracolo d’averla sempre scampata.
Come introduzione del piú lungo e importante racconto che sto per intraprendere, narrerò una di codeste avventure. Una sera di ricevimento in casa dei Barnard, Augustus e io, verso la fine, ci trovammo un po’ esaltati dal bere. Come di consueto in simili casi, anziché tornarmene a casa, decisi di dividere il letto con lui. Augustus si addormentò subito profondamente – il ricevimento si protrasse oltre l’una – senza, per altro, far parola dell’oggetto favorito dei suoi racconti. Trascorse appena mezz’ora dal momento in cui ci eravamo ficcati sotto le coperte e già anch’io cominciavo a conciliarmi il sonno in capo, quand’ecco che Augustus salta su e giura che neanche per tutti gli Arthur Pym della cristianità sarebbe rimasto a dormire mentre soffiava un cosà bel vento da sud-ovest. Non fui mai piú stupito in vita mia – giacché non sapevo davvero cosa egli intendesse – e credetti subito che il vino e i liquori bevuti gli avessero dato alla testa. Egli continuò nondimeno a parlare con calma e padronanza e disse anche che sapeva bene ch’io lo credevo ubriaco mentre in vita sua non era mai stato tanto lucido come in quel momento. E aggiunse ancora ch’era stanco di doversene restare a letto in una notte cosà bella e che voleva a ogni costo alzarsi e vestirsi per fare una gita in battello. Non saprei certamente riferire i miei pensieri d’allora, ma è pur certo che, come le parole gli uscivano di bocca, subito mi provocarono il brivido dell’eccitazione e mi sentii penetrato d’un indicibile piacere e giudicai che la sua idea, quantunque del tutto priva di senno, fosse la piú giudiziosa di questo mondo. Il vento soffiava con furia di tempesta e l’aria era gelida, giacché l’ottobre era inoltrato. Balzai, comunque, fuori del letto, come rapito in estasi e dichiarai fermamente al mio amico di sentirmi in gamba e coraggioso quanto lui e stanco come lui di dovermene restare, invece, rannicchiato in un letto come un cane e ancora piú pronto a far baldoria di tutti gli Augustus Barnard di Nantucket.
E difatto non perdemmo tempo a vestirci e corremmo al battello – che era ormeggiato al vecchio rudere del pontile nei pressi del cantiere Pankey & Co. e quasi urtava nelle sue travi col parapetto. Augustus vi saltò dentro e cominciò subito a vuotarlo – giacché era colmo d’acqua per metà . Issammo quindi il fiocco e la vela maestra e, preso il vento in pieno, guadagnammo il largo.
Ho già detto che il vento soffiava gelato da sud-ovest. La notte era fredda e chiarissima. Augustus aveva preso il governo del timone e io mi tenevo presso l’albero, sul ponte. Filavamo diritti, a grande velocità , e nessuno aveva piú detta una sola parola da quando ci eravamo staccati dal molo. Chiesi allora al mio compagno quale rotta avesse intenzione di tenere e ancora quando intendesse tornare; Augustus fischiettò qualche minuto, poi disse con sgarbo: – Io, per me, proseguo. Tu puoi anche tornartene a casa, se ne hai voglia!
Gli gettai un’occhiata e m’accorsi subito che, nonostante l’aria disinvolta che cercava di darsi, era preda di una viva eccitazione. E lo vidi assai distintamente perché la luna, quella sera, faceva molto chiaro. Era pallidissimo e la mano gli tremava cosà forte ch’era quasi incapace di reggere la barra. Qualcosa non c’era dubbio andava male e me ne allarmai subito e seriamente giacché, allora, io conoscevo ben poco della manovra d’un battello e mi trovavo cosà costretto a dipendere in tutto e per tutto dall’arte nautica del mio amico. Anche il vento era improvvisamente aumentato e ci trascinava alla deriva con una incredibile velocità . E tuttavia serbavo vergogna a lasciar trapelare il mio stato di ansia e mantenni perciò un risoluto silenzio per piú di mezz’ora. Ma, a lungo andare, fui incapace di contenermi oltre e dissi ad Augustus che oramai ritenevo opportuno tornare. Come l’altra volta solo dopo un minuto mi rispose dando segno di aver recepito il mio suggerimento. – Tra poco, – disse poi, – tempo ne abbiamo... Tra poco. Saremo a casa tra poco. È vero che mi attendevo una risposta simile e nondimeno intesi nella sua voce qualcosa che mi penetrò subito nelle ossa come un senso indescrivibile di terrore. Lo guardai ancora. Le labbra erano livide e le ginocchia tremavano con tale violenza che a malapena poteva star ritto. – Per l’amor di Dio, Augustus! – gridai atterrito: – che hai? che succede? che diavolo vuoi fare? E lui per contro: – Che succede! – balbettò con aria sorpresa e nello stesso momento si lasciò sfuggire la barra di mano e cadde bocconi sul fondo del battello. – E che... che succederà mai?... nulla... andiamo a casa, non lo vedi? La verità mi si svelò, allora, tutt’intera. Mi lanciai su di lui e lo sollevai. Egli era ubriaco, bestialmente ubriaco e non era piú capace di restare in piedi né di parlare né di vedere. I suoi occhi erano vitrei e quand’io, al colmo della disperazione, cessai di reggerlo, rotolò come un ceppo, nell’acqua, in fondo al battello. Era evidente che, quella notte, aveva bevuto assai piú di quanto non sospettassi e che la stravagante idea che gli era saltata in mente poc’anzi, a letto, era il logico risultato d’una ubriachezza intensa e concentrata, d’una di quelle che, come la pazzia, rendono spesso capace, chi ne sia vittima, di serbare le maniere d’una persona perfettamente ragionevole. L’aria gelata della notte aveva avuto nondimeno il suo effetto. La lucidità del suo cervello ne aveva beneficiato e il sentimento confuso del pericolo – che egli dovette provare, senza dubbio – aveva contribuito ad affrettare il collasso. Ora egli giaceva inerte in fondo alla barca e non vedevo alcuna probabilità che il suo stato dovesse migliorare prima di qualche ora.
È impossibile farsi un’idea dell’estremo grado di spavento di cui ero preda. I fumi del vino, che nel frattempo erano svaporati, mi lasciarono doppiamente timoroso e irresoluto. Ero del tutto incapace – questo lo sapevo bene – di manovrare il battello e la furia del vento e del riflusso avrebbe potuto perderci da un momento all’altro. Un uragano si stava addensando con gran rapidità su di noi e, mantenendo la medesima rotta, ancor prima dell’alba, ci saremmo trovati fuori del campo di vista d’ogni terra; ed eravamo senza bussola e senza provviste. Questi pensieri e ancora mille altri in folla non meno spaventosi s’impossessarono di me e mi travolsero cosà che per qualche tempo rimasi paralizzato, del tutto incapace all’azione. Il battello fuggiva con pieno vento in poppa e cosà velocemente da agghiacciar l’ossa – e senza un terzarolo né al fiocco né alla vela maestra. La prua tagliava sicura le ondate – ed era un miracolo, un miracolo che non scuffiasse – perché, come vi ho detto, Augustus aveva lasciato andare la barra del timone e lo spavento m’aveva troppo invaso perch’io pensassi a riprenderla. E nondimeno il vento fu contenuto, per buona ventura, e ciò mi restituÃ, a grado a grado, una parte della mia presenza di spirito. Ma di là a poco il vento aumentò nuovamente e tutte le volte che, tuffati, ci risollevavamo, una paurosa ondata cadeva e inondava il cassero; la barca era piena d’acqua. E poi il freddo era cosà intenso ch’io avevo quasi perduta la sensibilità delle membra. Ma si risvegliò infine in me il coraggio della disperazione e, lanciatomi sulla vela maestra, disormeggiai ogni cosa. E infatti la vela fuggà fuori bordo – da prua, e inzuppatasi d’acqua trascinò con sé l’albero, schiantato. Fu proprio quest’ultimo incidente a salvarci la vita. Di fatto, essendo rimasto soltanto il fiocco, fui in grado di bordeggiare, cosicché, sebbene imbarcassimo ancora pesanti ondate, il pericolo d’una morte imminente era scongiurato. Allora afferrai la barra del timone e trassi un sospiro: potevamo ancora sperare di salvarci. Augustus giaceva inanimato in fondo al battello e poiché correva il pericolo d’affogare là nell’angolo dove era caduto, in cui l’acqua arrivava all’altezza d’un piede, io mi sforzai di sollevarlo un poco e, passatagli una fune attorno la vita la assicurai a un anello del ponte, e riuscii a tenerlo seduto. Avevo cosà aggiustato ogni cosa nel miglior modo possibile. Dopo di che, sconvolto e intirizzito, raccomandai l’anima a Dio e mi preparai a soffrire tutto ciò che sarebbe accaduto in seguito e mi armai di tutta la presenza di spirito di cui disponevo. Avevo appena preso questa risoluzione, quando improvviso, alto, prolungato – come rompendo fuor dalle gole di mille diavoli – un urlo invase tutto lo spazio attorno e sopra al battello. Mai, fin tanto che sarò vivo, potrò scordare l’intensa agonia di terrore che provai in quell’istante. I capelli mi si drizzarono sul capo, il sangue si gelò nelle vene, il cuore fermò i palpiti e io, senza nemmeno levar gli occhi a guardare la causa del mio terrore, caddi con la testa in avanti, un peso inerte e insensibile, sul corpo del mio amico.
Quando ripresi i sensi mi trovai nel castello del Penguin, una grossa baleniera diretta a Nantucket. Alcuni individui stavano chini su di me e tra loro riconobbi Augustus che, pallido come un morto, mi frizionava le mani. Appena mi vide aprir gli occhi, le sue esclamazioni di gratitudine e di gioia eccitarono, alterne, le risa e la commozione pur da quelle grinte che ci stavano attorno. Il mistero di come fummo tratti in salvo ci fu spiegato di là a poco. La baleniera, che navigava a vela spiegata – poteva arrischiarsi a tenerla cosÃ, con quel tempo – e che, conseguentemente, filava in senso quasi normale alla nostra rotta, ci aveva investiti. Non pochi uomini di scolta stavano a prua, eppure non s’accorsero del nostro battello se non quand’era del tutto impossibile scongiurare l’impatto. Erano state proprio le loro grida d’allarme ad atterrirmi. Il grosso scafo – mi fu detto – ci era passato sopra con la medesima facilità con la quale il nostro piccolo battello sarebbe scivolato su una piuma, senza registrare il minimo ostacolo alla sua corsa. Non un grido si levò dal ponte del battello martirizzato; si udà solamente un rumore leggero, uno scricchiolio che si confuse coi muggiti del vento e dell’acqua, nell’istante in cui il fragile battello, già inghiottito, venne a fracassarsi contro la chiglia della baleniera. Null’altro. Credendo che il nostro battello – era disalberato, come si ricorderà – non fosse altro che un guscio inservibile alla deriva, il capitano – un certo E. T. V. Block, da New London – voleva proseguire la sua rotta senza preoccuparsi oltre dell’incidente. E fu ventura che due uomini di scolta cominciassero a gridare e a giurare d’aver visto qualcuno al timone e a dire che, forse, era ancora possibile un salvataggio. Ne seguà una discussione e Block, incollerito, dichiarò che non era tenuto a perder tempo per colpa d’una tal bazzecola, che la baleniera non avrebbe certamente virato di bordo per una sciocchezza simile e che, se qualcuno era affogato, la colpa era sua e non poteva prendersela che con se stesso e che, quindi, poteva bene annegarsi e andare al diavolo. E altri discorsi del genere. Ma Henderson, il secondo, indignato, e a ragione (come, del resto, l’intero equipaggio) per quella totale assenza di umanità , volle riaprire la questione e parlò con molta chiarezza – anche perché si sentiva del tutto appoggiato dai marinai – e disse al capitano che egli lo considerava un soggetto da forca e che, quanto a lui, non avrebbe piú obbedito ad alcuno dei suoi ordini, quand’anche avesse dovuto essere impiccato al momento di toccar terra. Ciò detto, messo da parte Block con una spinta – il capitano divenne pallidissimo e non rispose parola – corse alla barra del timone e gridò con voce ferma: «Forza sotto vento!» Gli uomini si precipitarono ai loro posti e la baleniera virò di bordo. Tutto questo prese cinque minuti, talché credettero che fosse quasi impossibile salvare l’individuo che credevano d’aver visto a bordo del battello. E tuttavia – il lettore ne è informato – Augustus e io fummo ripescati e dovemmo la salvezza a una di quelle insperate fortune che le persone sagge e pie attribuiscono all’intervento speciale della provvidenza.
Mentre il veliero era in panna, il secondo fece calare una scialuppa e vi saltò dentro con i due uomini – suppongo – che pretendevano d’avermi visto alla barra. S’erano staccati proprio allora dal fianco, dalla parte sottovento e la luna non aveva scemato il suo chiarore, allorquando il veliero ebbe un colpo di rullio prolungato e pesante e si piegò sopravvento. Henderson allora si levò sul banco e gridò ai suoi uomini di forzare indietro coi remi. Non diceva altro, ma non si stancava di ripetere con impazienza: «Forzate indietro! Forzate indietro!» Essi vogavano come meglio potevano, ma in quel mentre il veliero aveva volto completamente il fianco e cominciava a spostarsi a prua, sebbene tutte le braccia a bordo s’affannassero a diminuire la vela. Henderson allora – e il pericolo era grande – s’attaccò, non appena gli vennero a tiro, ai grandi reggisartie. Un nuovo colpo di rullÃo trasse fuor d’acqua, fin quasi a scoprire la chiglia, il fianco di tribordo e il secondo vide l’oggetto che aveva attirato la sua curiosità . Un corpo d’uomo era apparso attaccato, nel modo piú bizzarro, al fondo levigato e lustro del Penguin – che era fasciato di rame – e, a ogni scotimento dello scafo, sbatacchiava violentemente su di lui. Dopo aver ripetuto alcuni inefficaci tentativi, approfittando dei colpi di rullÃo, col rischio d’affondare il canotto, io venni infine liberato da quella mia terribile situazione e issato a bordo – giacché quel corpo ero proprio io! A quanto parve, una delle caviglie dell’armatura, sgusciata fuor dal rame, m’aveva afferrato mentre scivolavo sotto la chiglia e cosà ero rimasto appeso al fondo in modo tanto singolare. La punta del paletto mi aveva forato il colletto della giacca di lana e mi s’era conficcata dietro il collo, tra due muscoli, sotto l’orecchia destra. Mi misero subito a letto, sebbene sembrassi già bell’e morto. A bordo non c’era un medico. Nondimeno il capitano mi trattò con ogni sorta di cure, e ciò è da attribuirsi, senza dubbio, al desiderio di fare ammenda, davanti agli occhi del suo equipaggio, del vergognoso contegno durante la prima parte dell’incidente.
Henderson intanto, col suo canotto, s’era nuovamente allontanato dal veliero, quantunque il vento si stesse già tramutando in uragano e non fossero passati che pochi istanti, quand’egli si scontrò con alcuni rottami del nostro battello. Subito, uno dei suoi uomini disse di aver sentito, tra i muggiti della tempesta, una voce che invocava aiuto. Quegli ardimentosi marinai furono cosà indotti a persistere nelle loro ricerche per oltre mezz’ora e non diedero alcun ascolto ai ripetuti segnali che il capitano Block faceva da bordo ingiungendo loro di ritornare, né si preoccuparono troppo del pericolo mortale cui erano esposti di continuo in quella imbarcazione tanto fragile. È veramente difficile concepire come la loro piccola scialuppa abbia potuto scampare, anche per un solo minuto, la sorte di colare a picco – era costruita tuttavia per la pesca alle balene e, l’ho vista io, aveva una camera d’aria come certe scialuppe di salvataggio in uso sulle coste del Galles.
Dopo aver cercato – e invano – per tutto il tempo che ho detto, si decisero infine a tornare a bordo, ma non fecero a tempo a prendere quella risoluzione quando, da un rottame scuro che passò rapidamente presso di loro, udirono un fievole lamento. Si buttarono all’inseguimento e in breve lo raggiunsero. Era il ponte e la cabina dell’Ariel. Augustus, dietro quel rottame, si dibatteva in una estrema agonia. Una volta ripescato, s’accorsero che una fune lo teneva assicurato a quell’armatura fluttuante. Il lettore infatti ricorderà bene come io per mantenerlo seduto, gli avessi passato la fune attorno alla vita e l’avessi annodata poi a un anello. In questo modo a quanto pareva l’avevo salvato dalla morte. L’Ariel era di costruzione leggera e, affondando, era andato in pezzi; il ponte e la cabina, naturalmente, furono sollevati dall’impeto dell’acqua che vi s’era precipitata e, schiantati dallo scafo, s’erano messi a galleggiare, assieme agli altri rottami, sulla superficie. Augustus, trascinato con quello, rimase a galla e scampò da morte terribile.
Occorse un’ora e piú perché egli potesse dare conto di sé e comprendere la natura dell’accidente capitato al nostro battello. Ma infine si destò completamente e discorse a lungo riguardo alle sue sensazioni di quand’era sott’acqua. Egli aveva appena ripreso coscienza che s’era trovato sotto la superficie dell’acqua a esser trascinato, con una rapidità inconcepibile, da una corda avvolta strettamente tre o quattro volte attorno al collo. Un istante appresso aveva sentito di risalire rapidamente allorquando, battendo con violenza la testa contro qualcosa di duro, era sprofondato di nuovo nell’incoscienza. Al riaversi, si era sentito nuovamente padrone dei suoi pensieri, ancorché confusi e annebbiati in modo assai bizzarro. Comprese allora che gli era accaduto un incidente e che egli era immerso nelle onde, quantunque avesse la bocca fuor d’acqua e potesse respirare abbastanza liberamente. Probabilmente a quel punto, il ponte filava velocissimo, portato dal vento e si trascinava dietro il mio amico che galleggiava supino. Fintantoché si fosse mantenuto in quella postura non c’era pericolo che annegasse, ma un’ondata lo sbatacchiò di traverso sul ponte e fu allora che egli s’adoperò con tutta l’energia che gli restava per mantenervisi afferrato, trovando anche la forza di chiamare al soccorso e tutto questo un solo istante prima che Henderson si accorgesse di lui. Il suo stato di debolezza estrema gli aveva impedito di tener oltre la presa ed egli, abbandonandosi all’onda, s’era considerato perduto. Per tutto il tempo che durò la lotta non gli passò nel cervello il piú vago ricordo né dell’Ariel, né di alcuna altra cosa riguardo l’origine della catastrofe. Il terrore e la disperazione – ma vaghi e imprecisi – s’erano impadroniti dell’animo suo e, una volta tratto in salvo, non fu in grado di rammentarsi nulla, come abbiamo già detto, se non dopo un’ora che era stato issato a bordo del Penguin. Per quanto riguarda me, posso ben dire d’essere stato tratto fuor dalla tomba che il mare mi aveva apparecchiato, soltanto dopo tre ore di vani tentativi, dalle vigorose frizioni di flanella intrisa d’olio caldo che Augustus aveva suggerito di farmi. E sono guarito ben presto anche della ferita dietro al collo che, a dire il vero, nonostante ripugnasse all’aspetto, non era molto grave.
Il Penguin entrò in porto alle nove del mattino seguente dopo aver lottato con una delle piú violente libecciate che abbiano mai soffiato al largo di Nantucket. Augustus e io facemmo in modo d’arrivare in casa dei Barnard all’ora della prima colazione che, per fortuna, era stata ritardata a causa del ricevimento della sera innanzi. Ritengo che soltanto la grande stanchezza dei commensali impedà loro di accorgersi del nostro aspetto sfinito, giacché, a rilevarlo, sarebbe bastata una sola occhiata distratta.
È un fatto che gli scolari, in fatto d’inganni, son capaci dei piú strabilianti miracoli e io so per certo che nessuno dei nostri amici di Nantucket ha mai, seppure minimamente, sospettato che la terribile storia riferita in città da certi marinai, d’un vascello colato a picco e di trenta o quaranta poveri diavoli affogati, potesse aver qualche nesso con l’Ariel, col mio compagno e con me.
Da quel giorno io e Augustus abbiamo rievocato spesso quell’avventura e pur tuttavia non abbiamo mai potuto farlo senza rabbrividire. Durante una di queste conversazioni il mio amico mi confessò, in gran sincerità , che egli non aveva mai piú provato, in tutta la vita, l’angoscioso terrore dell’istante in cui, sul nostro battello, s’era reso conto del giogo a cui l’aveva solidamente legato il suo estremo stato di ubriachezza e dell’assoluta impossibilità di liberarsene.
In tutti gli avvenimenti che si riferiscono a qualche disgrazia o sinistro incontriamo difficoltà a trarre conclusioni ben certe anche dai dati piú elementari. È da supporre che un’avventura come quella riferita nelle pagine che precedono avesse raffreddato la mia nascente passione per il mare. Al contrario, trascorse una sola settimana dal nostro salvataggio miracoloso e io provai il desiderio, piú che mai ardente, di sperimentare tutte le piú strane avventure che possano darsi nella vita d’un marinaio. Quel breve spazio di tempo bastò a cancellare dalla mia memoria tutte le parti in ombra e a mettere invece in piena luce tutti i tratti di colore squisitamente eccitanti e tutto il lato pittoresco della nostra ultima pericolosa avventura. Le mie conversazioni con Augustus diventavano ogni giorno piú frequenti e crescevano sempre d’interesse. Egli aveva una maniera di raccontare le sue storie marinare – e io sospetto, ma solo ora, che per buona metà fossero frutto della sua immaginazione – che pareva...