Ranocchi sulla luna
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Ranocchi sulla luna

e altri animali

  1. 248 pagine
  2. Italian
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Ranocchi sulla luna

e altri animali

Informazioni su questo libro

Un repertorio di storie incantevoli, in cui una inesausta curiosità zoologica diventa racconto e poesia, e ci fa scoprire uno scrittore fantasioso, umoristico, di sorprendente inventiva. Gabbiani, giraffe, talpe, formiche, dromedari, elefanti, farfalle, scoiattoli, ragni, buoi, ranocchi, corvi, topi, chiocciole... Nelle pagine di Primo Levi gli animali non rappresentano una curiosità marginale o un divertimento accessorio, ma sono parte integrante del suo immaginario e della sua moralità: rappresentano un diverso modo di parlare delle scelte che ogni uomo deve affrontare. Primo Levi è affascinato dalle capacità con cui esseri d'ogni specie, compresi i parassiti, hanno risposto alle difficoltà dell'ambiente elaborando soluzioni ingegnose, quasi altrettante filosofie di vita. «Ci sono animali enormi e minuscoli, estremamente forti ed estremamente deboli, audaci e fuggitivi, veloci e lenti, astuti e sciocchi, splendidi e orrendi», ma proprio uscendo dall'isola umana uno scrittore può scoprire una miniera di storie possibili, ricca di metafore, simboli, allegorie. Sino dalla fine degli anni Cinquanta Primo Levi ha dedicato loro racconti, articoli, interviste immaginarie e poesie, in cui ha messo a frutto l'acutezza delle sue osservazioni, e la curiosità di uno sguardo sorridente e pensoso, mai sentimentale o antropomorfo. L'insuperabile analista del «termitaio» del Lager si è rivelato anche un brillante zoologo ed etologo, capace di aprire al lettore orizzonti inconsueti. Nelle sue pagine l'evoluzione diventa il gioco dei possibili. Novello demiurgo, vagheggia una sorta di laboratorio sempre aperto in cui può creare egli stesso animali fantastici (i vilmy, gli atoúla, le nacunu...), perfettamente verosimili e sottilmente inquietanti. Le pagine che Ernesto Ferrero raccoglie e presenta in questo volume sono forse tra le meno note di Primo Levi, ma ne arricchiscono e completano l'immagine, ennesima prova della complessa grandezza dello scrittore. Come ha scritto lo stesso Levi, sottolineando la continuità tra queste invenzioni e i suoi primi libri, «vi si possono trovare satira e poesia, nostalgia del passato e anticipazione dell'avvenire, epica e realtà quotidiana, impostazione scientifica e attrazione dell'assurdo, amore dell'ordine naturale e gusto di sovvertirlo con giochi combinatori, umanesimo ed educata malvagità». Una gradita sorpresa, specie per i piú giovani, che sanno guardare al mondo animale con una sensibilità speciale.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
Print ISBN
9788806221591
eBook ISBN
9788858420393

Racconti

Angelica Farfalla

Sedevano nella jeep rigidi e silenziosi: facevano vita comune da due mesi, ma fra loro non c’era molta confidenza. Quel giorno toccava al francese guidare. Percorsero il Kurfürstendamm sobbalzando sul selciato sconnesso, svoltarono nella Glockenstrasse aggirando di misura una colata di macerie, e la percorsero fino all’altezza della Magdalene: qui un cratere di bomba sbarrava la strada, pieno di acqua melmosa; da una conduttura sommersa il gas gorgogliava in grosse bolle vischiose.
– È piú oltre, al numero 26, – disse l’inglese; – proseguiamo a piedi.
La casa del numero 26 sembrava intatta, ma era quasi isolata. Era circondata da terreni incolti, da cui le macerie erano state sgomberate; già vi cresceva l’erba, e qua e là ne era stato ricavato qualche orto rachitico.
Il campanello non funzionava; bussarono a lungo invano, poi forzarono la porta, che cedette alla prima spinta. Dentro c’era polvere, ragnatele e un odore penetrante di muffa. – Al primo piano, – disse l’inglese. Al primo piano trovarono la targhetta «Leeb»; le serrature erano due e la porta era robusta: resistette a lungo ai loro sforzi.
Quando entrarono, si trovarono al buio. Il russo accese una pila, poi spalancò una finestra; si udí una rapida fuga di topi, ma gli animali non si videro. La camera era vuota: non un mobile. C’era soltanto una rozza impalcatura, e due pali robusti, paralleli, che andavano orizzontalmente da una parete all’altra all’altezza di due metri dal pavimento. L’americano prese tre fotografie da diversi angoli e fece un rapido schizzo.
Per terra era uno strato di stracci immondi, cartaccia, ossa, penne, bucce di frutta; grosse macchie rossobrune, che l’americano raschiò attentamente con una lametta raccogliendone la polvere in un tubetto di vetro. In un angolo, un monticello di una materia indefinibile, bianca e grigia, secca: odorava di ammoniaca e di uova guaste e pullulava di vermi. – Herrenvolk! – disse il russo con disprezzo (fra loro parlavano tedesco); anche di questa sostanza l’americano prelevò un campione.
L’inglese raccolse un osso, lo portò presso la finestra e lo esaminò attentamente. – Di che animale sono? – chiese il francese. – Non so, – disse l’inglese: – mai visto un osso simile. Si direbbe di un uccello preistorico: ma questa cresta si trova soltanto… be’, bisognerà farne una sezione sottile –. Nella sua voce c’era ribrezzo, odio e curiosità.
Radunarono tutte le ossa e le portarono nella jeep. Attorno alla jeep era una piccola folla di curiosi: un bambino vi era salito e frugava sotto i sedili. Come videro i quattro soldati, si allontanarono in fretta. Riuscirono a trattenerne solo tre: due uomini anziani e una ragazza. Li interrogarono: non sapevano niente. Il professor Leeb? Mai conosciuto. La signora Spengler, del piano terreno? Era morta nei bombardamenti.
Salirono sulla jeep e avviarono il motore. Ma la ragazza, che già si era voltata per andarsene, ritornò e chiese: – Avete sigarette? – Ne avevano. La ragazza disse: – Quando hanno fatto la festa alle bestiacce del professor Leeb, c’ero anch’io –. La caricarono sulla jeep e la portarono al Comando Quadripartito.
– Allora, era proprio vera, la storia? – fece il francese.
– Pare, – rispose l’inglese.
– Buon lavoro per gli esperti, – disse il francese palpando il sacchetto delle ossa; – ma anche per noi: adesso ci tocca stendere il rapporto, nessuno ce lo toglie. Sporco mestiere!
Hilbert era inferocito: – Guano, – disse. – Cos’altro volete sapere? Di che uccello? Andate da una chiromante, non da un chimico. Sono quattro giorni che mi rompo la testa sui vostri reperti schifosi: che mi possano impiccare se il diavolo stesso ne può cavare qualcosa di piú. Portatemi altri campioni: guano di albatros, di pinguini, di gabbiani; allora potrò fare dei confronti, e forse, con un po’ di fortuna, se ne potrà riparlare. Non sono uno specialista in guano, io. Quanto alle macchie sul pavimento, ci ho trovato dell’emoglobina: e se qualcuno mi chiede di che provenienza, finisco in fortezza.
– Perché in fortezza? – domandò il commissario.
– In fortezza, sí: perché se qualcuno me lo chiede, gli rispondo che è un imbecille, anche se è un mio superiore. C’è di tutto, là dentro: sangue, cemento, pipí di gatto e di topo, crauti, birra, la quintessenza della Germania, insomma.
Il colonnello si alzò pesantemente. – Per oggi basta, – disse. – Domani sera siete miei ospiti. Ho trovato un posto niente male, nel Grünewald, in riva al lago. Allora ne riparleremo, quando avremo tutti quanti i nervi un po’ piú distesi.
Era una birreria requisita, e ci si poteva trovare di tutto. Accanto al colonnello sedevano Hilbert e Smirnov, il biologo. I quattro della jeep erano ai due lati lunghi; in fondo alla tavola, stavano un giornalista e Leduc, del tribunale militare.
– Questo Leeb, – disse il colonnello, – era una strana persona. Il suo era un tempo propizio alle teorie, sapete bene, e se la teoria era in armonia coll’ambiente, non occorreva molta documentazione perché venisse varata e trovasse accoglienza, anche molto in su. Ma Leeb, a modo suo, era uno scienziato serio: cercava i fatti, non il successo.
– Ora, non aspettatevi da me che vi esponga le teorie di Leeb per filo e per segno: in primo luogo perché le ho capite solo quanto può capirle un colonnello; e in secondo, perché, membro quale sono della Chiesa presbiteriana… insomma, credo in un’anima immortale, e tengo alla mia.
– Senta, capo, – interruppe Hilbert dalla fronte testarda, – senta. Ci dica quello che sa, per favore. Non per niente, ma dal momento che sono tre mesi ieri che tutti noi non ci occupiamo di altro… Mi pare giunto il momento, insomma, di sapere a che gioco si gioca. Anche per poter lavorare con un po’ piú di intelligenza, capisce.
– È piú che giusto, e d’altronde stasera siamo qui per questo. Ma non stupitevi se prendo le cose un po’ alla lontana. E lei Smirnov mi corregga se esco dal seminato.
– Dunque. In certi laghi del Messico vive un animaletto dal nome impossibile, fatto un po’ come una salamandra. Vive indisturbato da non so quanti milioni di anni come se niente fosse, eppure è il titolare e il responsabile di una specie di scandalo biologico: perché si riproduce allo stato larvale. Ora, a quanto mi hanno fatto intendere, questa è una faccenda gravissima, un’eresia intollerabile, un colpo basso della natura ai danni dei suoi studiosi e legislatori. Insomma, è come se un bruco, anzi una bruca, una femmina insomma, si accoppiasse con un altro bruco, venisse fecondata, e deponesse le uova prima di diventare farfalla. E dalle uova, naturalmente, nascessero altri bruchi. Allora a cosa serve diventare farfalla? A cosa serve diventare «insetto perfetto»? Si può anche farne a meno.
– Infatti, l’axolotl ne fa a meno (cosí si chiama il mostriciattolo, avevo dimenticato di dirvelo). Ne fa a meno quasi sempre: solo un individuo ogni cento o ogni mille, forse particolarmente longevo, un bel po’ di tempo dopo di essersi riprodotto, si trasforma in un animale diverso. Non faccia quelle smorfie, Smirnov, oppure parli lei. Ognuno si esprime come può e come sa.
Fece una pausa. – Neotenia, ecco come si chiama questo imbroglio: quando un animale si riproduce allo stato di larva.
La cena era finita, ed era giunta l’ora delle pipe. I nove uomini si trasferirono sulla terrazza, e il francese disse: – Va bene, è tutto molto interessante, ma non vedo il rapporto che…
– Ci stiamo arrivando. Resta ancora da dire che su questi fenomeni, da qualche decennio, pare che loro – (e accennò con la mano dalla parte di Smirnov) – riescano a mettere le mani, a pilotarli in certa misura. Che, somministrando agli axolotl estratti ormonali…
– Estratto tiroideo, – precisò Smirnov di mala voglia.
– Grazie. Estratto tiroideo, la muta avvenga sempre. Avvenga cioè prima della morte dell’animale. Ora, questo è quanto Leeb si era fitto in capo. Che questa condizione non sia cosí eccezionale come sembra: che altri animali, forse molti, forse tutti, forse anche l’uomo, abbiano qualcosa in serbo, una potenzialità, una ulteriore capacità di sviluppo. Che al di là di ogni sospetto, si trovino allo stato di abbozzi, di bruttecopie, e possano diventare «altri», e non lo diventino solo perché la morte interviene prima. Che, insomma, neotenici siamo anche noi.
– Su quali basi sperimentali? – fu chiesto nel buio.
– Nessuna, o poche. È agli atti un suo lungo manoscritto: una ben curiosa mistura di osservazioni acute, di generalizzazioni temerarie, di teorie stravaganti e fumose, di divagazioni letterarie e mitologiche, di spunti polemici pieni di livore, di rampanti adulazioni a Persone Molto Importanti dell’epoca. Non mi stupisce che sia rimasto inedito. C’è un capitolo sulla terza dentizione dei centenari, che contiene anche una curiosa casistica di calvi a cui i capelli sono rispuntati in tardissima età. Un altro riguarda la iconografia degli angeli e dei diavoli, dai Sumeri a Melozzo da Forlí e da Cimabue a Rouault; contiene un passo che mi è parso fondamentale, in cui, al suo modo insieme apodittico e confuso, ma con insistenza maniaca, Leeb formula l’ipotesi che… insomma, che gli angeli non sono una invenzione fantastica, né esseri soprannaturali, né un sogno poetico, ma sono il nostro futuro, ciò che diventeremo, ciò che potremmo diventare se vivessimo abbastanza a lungo, o se ci sottoponessimo alle sue manipolazioni. Infatti, il capitolo successivo, che è il piú lungo del trattato e di cui ho capito assai poco, si intitola I fondamenti fisiologici della metempsicosi. Un altro ancora contiene un programma di esperienze sulla alimentazione umana: un programma di tale respiro che cento vite non basterebbero a realizzarlo. Vi si propone di sottoporre interi villaggi, per generazioni, a regimi alimentari pazzeschi, a base di latte fermentato, o di uova di pesce, o di orzo germinante, o di poltiglia di alghe: con esclusione rigorosa della esogamia, sacrificio (proprio cosí sta scritto: «Opferung») di tutti i soggetti a sessant’anni, e loro autopsia, che Dio lo perdoni se può. C’è anche, in epigrafe, una citazione dalla Divina Commedia, in italiano, in cui è questione di vermi, di insetti lontani dalla perfezione e di «angeliche farfalle». Dimenticavo: il manoscritto è preceduto da una epistola dedicatoria, indirizzata sapete a chi? Ad Alfred Rosenberg, quello del Mito del XX secolo, ed è seguito da una appendice in cui Leeb accenna ad un lavoro sperimentale «di carattere piú modesto» da lui avviato nel marzo 1943: un ciclo di esperienze a carattere pionieristico e preliminare, tanto da poter essere svolto (con le dovute cautele per la segretezza) in un comune alloggio civile. L’alloggio civile che a tale scopo gli fu concesso era situato al numero 26 della Glockenstrasse.
– Mi chiamo Gertrud Enk, – disse la ragazza. – Ho diciannove anni, e ne avevo sedici quando il professor Leeb installò il suo laboratorio nella Glockenstrasse. Noi abitavamo di fronte, e dalla finestra si potevano vedere diverse cose. Nel settembre 1943 arrivò una camionetta militare: ne scesero quattro uomini in divisa e quattro in borghese. Erano molto magri e non alzavano il capo: erano due uomini e due donne.
– Poi arrivarono varie casse, con su scritto «Materiale di guerra». Noi eravamo molto prudenti, e guardavamo solo quando eravamo sicuri che nessuno se ne accorgesse, perché avevamo capito che c’era sotto qualcosa di poco chiaro. Per molti mesi non capitò piú niente. Il professore veniva solo una o due volte al mese; solo, o con militari e membri del partito. Io ero molto curiosa, ma mio padre diceva sempre: «Lascia andare, non occuparti di quanto capita là dentro. Noi tedeschi, meno cose sappiamo, meglio è». Poi vennero i bombardamenti; la casa del numero 26 restò in piedi, ma due volte lo spostamento d’aria sfondò le finestre.
– La prima volta, nella camera al primo piano si vedevano le quattro persone coricate per terra su dei pagliericci. Erano coperte come se fosse inverno, mentre invece, in quei giorni, faceva un caldo eccezionale. Sembrava che fossero morti o dormissero: ma morti non potevano essere perché l’infermiere lí accanto leggeva tranquillamente il giornale e fumava la pipa; e se avessero dormito, non si sarebbero svegliati alle sirene del cessato allarme?
– La seconda volta, invece, non c’erano piú né pagliericci né persone. C’erano quattro pali messi per traverso a mezza altezza, e quattro bestiacce posate sopra.
– Quattro bestiacce come? – chiese il colonnello.
– Quattro uccelli: sembravano avvoltoi, per quanto io gli avvoltoi li abbia visti solo al cinematografo. Erano spaventati, e facevano dei versi terrificanti. Sembrava che cercassero di saltare giú dai pali, ma dovevano essere incatenati, perché non staccavano mai i piedi dagli appoggi. Sembrava anche che si sforzassero di prendere il volo, ma con quelle ali…
– Come avevano le ali?
– Ali per modo di dire, con poche penne rade. Sembravano… sembravano le ali dei polli arrosto, ecco. Le teste non si vedevano bene, perché le nostre finestre erano troppo in alto: ma non erano niente belle e facevano molta impressione. Assomigliavano alle teste delle mummie che si vedono nei musei. Ma poi arrivò subito l’infermiere, e tese delle coperte in modo che non si potesse guardare dentro. Il giorno dopo le finestre erano già state riparate.
– E poi?
– E poi piú niente. I bombardamenti erano sempre piú fitti, due, tre al giorno; la nostra casa crollò, tutti morirono salvo mio padre e io. Invece, come ho detto, la casa del numero 26 rimase in piedi; morí solo la vedova Spengler, ma in strada, sorpresa da un mitragliamento a bassa quota.
– Vennero i russi, venne la fine della guerra, e tutti avevano fame. Noi ci eravamo fatta una baracca là vicino, e io me la cavavo alla meglio. Una notte vedemmo molta gente che parlava in strada, davanti al 26. Poi uno aprí la porta, e tutti entrarono spingendosi uno coll’altro. Io allora dissi a mio padre: «vado a vedere cosa succede»; lui mi faceva il solito discorso, ma io avevo fame e andai. Quando arrivai su era già quasi finito.
– Finito che cosa?
– Gli avevano fatto la festa, con dei bastoni e dei coltelli, e li avevano già fatti a pezzi. Quello che era in testa a tutti doveva essere l’infermiere, mi è parso di riconoscerlo; e poi era lui che aveva le chiavi. Anzi, mi ricordo che a cose finite si prese la briga di richiudere tutte le porte, chissà perché: tanto dentro non c’era piú niente.
– Che ne è stato del professore? – chiese Hilbert.
– Non si sa con precisione, – rispose il colonnello. – Secondo la versione ufficiale, è morto, si è impiccato all’arrivo dei russi. Io però sono persuaso che non è vero: perché gli uomini come lui cedono solo davanti all’insuccesso, e lui invece, comunque si giudichi questa sporca faccenda, il successo lo ha avuto. Credo che, cercando bene, lo si troverebbe, e forse non tanto lontano, credo che del professor Leeb si risentirà parlare.

L’amico dell’uomo

Le prime osservazioni sull’ordinamento delle cellule epiteliari della tenia risalgono al 1905 (Serrurier). Flory fu però il primo a intuirne l’importanza ed il significato, e lo descrisse in una lunga memoria del 1927, corredata da nitide fotografie in cui per la prima volta il cosiddetto «mosaico di Flory» fu reso visibile anche ai profani. Come è noto, si tratta di cellule appiattite, di forma irregolarmente poligonale, disposte in lunghe file parallele, e caratterizzate dal ripetersi a intervalli variabili di elementi simili, in numero di qualche centinaio. Il loro significato fu scoperto in circostanze singolari: il merito non ne va ad un istologo né a uno zoologo, ma ad un orientalista.
Bernard W. Losurdo, docente di assiriologia presso la Michigan State University, in un periodo di forzata inattività dovuta appunto alla presenza del fastidioso parassita, e mosso pertanto da interesse puramente occasionale, ebbe sott’occhio casualmente le fotografie di Flory. Alla sua esperienza professionale non sfuggirono tuttavia alcune singolarità che nessuno fin allora aveva colto: le file del mosaico sono costituite da un numero di cellule che varia entro limiti non troppo larghi (da 25 a 60 circa); esistono gruppi di cellule che si ripetono con frequenza molto alta, quasi fossero associazioni obbligate; infine (e fu questa la chiave dell’enigma) le cellule terminali di ogni fila sono disposte talvolta secondo uno schema che si potrebbe definire ritmico.
Fu indubbiamente una circostanza fortunata che proprio la prima fotografia di cui il Losurdo ebbe ad occuparsi presentasse uno schema particolarmente semplice: le ultime 4 cellule della prima fila erano identiche alle ultime 4 della terza; le ultime 3 della seconda fila erano identiche alle ultime 3 della quarta e della sesta; e cosí di seguito, secondo lo schema ben noto della terza rima. Occorreva tuttavia un grande coraggio intellettuale per fare il passo successivo, e cioè per formulare l’ipotesi che l’intero mosaico non fosse rimato in puro senso metaforico, ma costituisse nulla meno che una composizione poetica, e convogliasse un significato.
Il Losurdo ebbe questo coraggio. La sua opera di decifrazione fu lunga e paziente, e confermò la intuizione originaria. Le conclusioni a cui lo studioso pervenne si possono riassumere brevemente cosí.
Il 15% circa degli individui adulti di Tenia Solium sono portatori di un mosaico di Flory. Il mosaico, quando esiste, è ripetuto identico in tutte le proglottidi mature, ed è congenito: è quindi un carattere peculiare di ogni singolo individuo, paragonabile (l’osservazione è del Losurdo stesso) alle impronte digitali dell’uomo od alle linee della sua mano. Esso consta di un numero di «versi» variabile da una decina fino a duecento e piú, talora rimat...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione di Ernesto Ferrero
  4. Nota ai testi
  5. Ranocchi sulla luna
  6. Racconti
  7. Elzeviri
  8. Interviste immaginarie
  9. Poesie
  10. Appendice. La salvazione del capire
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Dello stesso autore
  14. Copyright