Amirbar
eBook - ePub

Amirbar

  1. 144 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Nel sole californiano, stremato dalle febbri malariche, Mutis narra agli amici il viaggio nel sotterraneo, evanescente mondo delle miniere, attorno a cui si muovono personaggi misteriosi e ingenui: la bella Dora, il taciturno fratello di lei Eulogio, e Antonia che trova nell'ossessiva pratica erotica il solo sedativo alla follia. Da tempo seguiamo Maqroll il Gabbiere, eroe e antieroe di quasi tutte le storie di Álvaro Mutis, osservando affascinati le sue avventure e le sue derive sulle mappe dell'anima e del mondo, quel suo inquieto vagabondare di costa in costa, dove ogni approdo diventa l'inizio di una nuova storia.
Ciò che questa volta ci sorprende è l'orizzonte di cui parla il suo racconto: non piú la luce degli oceani ma la notte delle miniere. Perché fra i molti improbabili mestieri di Maqroll non poteva mancare quello piú alchemico: il cercatore d'oro, in grotte dove il vento sussurra il nome di Amirbar, l'Ammiraglio.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
Print ISBN
9788806145873
eBook ISBN
9788858418666

Álvaro Mutis

Amirbar

Traduzione di Fulvia Bardelli

Einaudi

Alla memoria di mio nonno
Jerónimo Jaramillo Uribe,
che un tempo cercò l’oro
sulle rive del fiume Coello nel Tolima

«La vie n’est qu’une succesion de défaites. Il y a de belle façades – il en est de pires. Mais derrière les belles, presque autant que derrière les pires, la défaite, toujours la défaite et encore la défaite – ce qui n’empêche pas de chanter victoire, car au fond l’homme n’est réellement vaincu que par la mort – mais encore, uniquement parce qu’elle lui ôte tout moyen de proclamer contre l’évidence qu’il ne l’est pas. Alors, il s’est fait même un allié de la mort et il compte beaucoup sur elle pour lui donner toute la gloire que lui a refusée la vie».
PIERRE REVERDY, Le livre de mon bord.
«... porque mulleres en las minas sembla cosa del dimoni e es provado que ningun profit se saca de hacerlas treballar allí. Al contrari, los celos y tropelías que con ello suceden sont de molt perill para tots».
SHAMUEL DE CÓRCEGA, Veridíca estoria
de las minas que la judería laboró sin provecho
en los montes de Axartel

Imprenta Capmany, 1776, Soller, Mallorca.

«I giorni piú strani della mia vita li passai ad Amirbar. Ad Amirbar lasciai brandelli di anima e buona parte dell’energia che aveva infiammato la mia gioventú. Da lassú discesi forse piú sereno, non so, ma stanco ormai per sempre. Quanto è accaduto dopo è stato un sopravvivere nell’ostinata avventura di ogni giorno. Poca cosa. Neppure l’oceano è riuscito a restituirmi quella vocazione di sognatore a occhi aperti che esaurii ad Amirbar in cambio di nulla».
Queste parole del Gabbiere mi avevano lasciato pensieroso. Dal momento che non era mai stato uomo incline a confidenze di tal genere, ma piuttosto al racconto scarno delle sue avventure, senza poi trarne conclusioni o derivarne una qualche morale, la rievocazione dei suoi giorni ad Amirbar suscitò in me una particolare curiosità. Prostrato come si trovava, estenuato dalle lunghe cure a cui aveva dovuto sottoporsi per debellare la malaria che lo stava uccidendo, il Gabbiere si era lasciato sfuggire parole che aprivano uno spiraglio rivelatore dell’occulto mondo di sconfitte sul quale era solito esercitare una vigilanza inflessibile. Le aveva pronunciate mentre prendevamo il sole nel patio della casa di mio fratello Leopoldo a Northridge, nella trasparente e interminabile estate della Valle di San Fernando, in California. Era chiaro che, con esse, indicava il suo desiderio di dischiudere la soglia a ricordi per una qualche ragione conservati gelosamente fino ad allora. Molte erano state, nel corso della nostra amicizia, le occasioni in cui aveva provato piacere a raccontare episodi della sua vita. Mai aveva fatto menzione dei giorni trascorsi ad Amirbar, né io sapevo, allora, a che cosa si riferisse con quel nome.
Nelle settimane che seguirono ci raccontò, in effetti, mentre recuperava le forze per riprendere il viaggio verso la costa peruviana, delle sue esperienze di cercatore d’oro sulla cordigliera e del naufragio dei suoi grandiosi progetti nelle intricate gallerie di Amirbar. Ma prima di trascriverle per i miei lettori, sarà forse utile raccontare le circostanze del nostro incontro in quella occasione. Sono cosí tipiche del modo di agire e del destino di Maqroll, che sarebbe impossibile tralasciarle. La digressione che devo fare non è lunga e, ripeto, credo valga davvero la pena di affrontarla per una maggior comprensione di quanto seguirà.
Come si fosse andato a cacciare il Gabbiere nella stanza di un infetto motel perduto sul tratto piú anonimo e cupo di La Brea Boulevard, fu la prima cosa che mi domandai durante il percorso. Mi trovavo a Los Angeles per un viaggio di lavoro e passavo buona parte del giorno negli studios di Burbank. Una notte, mentre andavo a ritirare la mia corrispondenza alla reception dell’hotel Château-Marmont, dove di solito alloggiavo quando ero in viaggio per affari, mi consegnarono un breve messaggio, scritto su un foglio macchiato di grasso e senza intestazione: «Mi trovo a La Brea 1644. Venga non appena possibile. Ho bisogno di lei. Maqroll». Firmava con una calligrafia cosí incerta che, sul momento, non la riconobbi. Salii nella mia stanza per lasciarvi alcune carte e andai subito a trovare il mio amico. Non era solito inviare messaggi cosí perentori e i febbrili tratti del suo nome indicavano che doveva trovarsi in uno stato di salute piú che precario. Il numero menzionato era quello di un piccolo, sordido motel con una angusta entrata per le auto che si prolungava in una fila di stanze dai numeri dipinti in un rabbioso color limone. Tre o quattro vetture erano parcheggiate davanti alle stanze con le finestre illuminate. Il Gabbiere si era dimenticato di indicarmi il numero della sua, o forse preferiva che io parlassi prima con il portiere, chiuso in uno stretto cubicolo all’inizio della fila delle camere. Bussai sui vetri e venne ad aprirmi un uomo corpulento e spettinato, vestito con una maglietta marrone e certi bermuda che gli stringevano la vita sotto un prominente stomaco da bevitore di birra. Parlava un inglese meno che elementare con un marcato accento arabo. Una profonda cicatrice gli attraversava la faccia dal centro della fronte, scendeva lungo il naso e finiva sulla punta del mento. Feci il nome del mio amico e, invece di indicarmi il numero della sua stanza, mi fece passare nel ristretto e maleodorante spazio di quello che poteva considerarsi il suo ufficio. Andò subito al punto, senza neppure presentarsi:
– La stavo aspettando. Il suo amico mi ha detto che vi conoscete da molti anni. Anch’io lo conosco da molto e gli devo diversi favori. Ma il padrone di questo posto è un ebreo che non perdona né sente ragioni. Il nostro uomo deve già tre settimane d’affitto e questa notte Michaelis verrà a riscuotere. Sarebbe meglio che lei mi desse il denaro necessario. Non voglio mettere sulla strada il Gabbiere nello stato in cui si trova. Sono novantacinque dollari in tutto.
Parlò piú con inquietudine che in modo brusco. Era chiaro che si trovava con le spalle al muro. Gli diedi il denaro e, mentre mi allungava la ricevuta, entrò sua moglie, una donna alta, che aveva dovuto essere molto bella in altri tempi, ma a cui l’estrema magrezza e il volto macilento davano un aspetto di fantasma. Anche lei parlava con un forte accento del Medio Oriente. Mi salutò con un sorriso sbiadito e, in un francese un po’ piú fluido e comprensibile dell’inglese del portiere, mi disse di essere molto felice del mio arrivo. Il mio amico aveva urgentemente bisogno di aiuto e della compagnia di qualcuno. Mi congedai da loro e mi diressi verso la stanza che mi avevano indicato. Risultò essere contigua alla portineria, ma, vai a sapere per quale capriccio, aveva il numero 9.
La porta non era chiusa a chiave. Entrai dopo aver bussato e una voce spenta ordinò:
– Entri, entri, non è chiusa.
Lí giaceva Maqroll il Gabbiere, disteso in un letto con le lenzuola di uno stinto color rosa su cui il sudore lasciava grandi macchie scure. L’uomo tremava violentemente. Gli occhi sbarrati e lucidi avevano un’espressione agonica e disperata. La barba di diverse settimane, brizzolata e irsuta, contribuiva ulteriormente a dargli un aspetto di fatale abbandono. L’arredamento della stanza, con sbiadite riproduzioni di nudi femminili e l’immancabile specchio di fronte al letto, sopra una toletta imbellita da polverosi falpalà anch’essi color rosa, dava un tocco tra il patetico e il grottesco alla presenza del Gabbiere in quel luogo. Mi fece segno con la mano che mi sedessi sull’unica poltroncina, foderata con una sudicia cotonina a fiori di un colore ormai indefinibile. La avvicinai al capezzale e mi sedetti, in attesa che si attenuasse l’accesso di febbre che gli impediva di parlare con chiarezza. Prese dal comodino un flacone di pastiglie e se ne cacciò due in bocca. Le ingoiò con un po’ d’acqua che, con gran difficoltà, si serví da una brocca collocata sullo stesso tavolino. Le sue mani tremavano in modo tale che metà dell’acqua si rovesciò sulle lenzuola. Feci il gesto di aiutarlo ma mi respinse con un’ombra di sorriso sulle labbra. I denti gli battevano quando cercava di parlare. Aspettammo un po’ in silenzio, mentre la medicina faceva effetto. Trascorse un quarto d’ora o forse piú e il tremito diminuí a poco a poco. Quando fu in grado di parlare la sua voce arrivava piú ferma.
– È una medicina molto forte che mi stordisce quasi piú della febbre, – spiegò. – Per questo non la prendo con la frequenza che dovrei. Vengo da Vancouver e ho voluto fermarmi qui un paio di giorni prima di proseguire per il sud. Volevo incontrare Yosip per convincerlo a diventare mio socio in un affare che tenterò in Perú.
Prima che io gli domandassi chi era Yosip, il Gabbiere proseguí:
– Yosip è il custode di questo motel. Siamo stati compagni di tante avventure nel Mediterraneo di cui le ho già raccontato qualcosa. È nato in Iraq da genitori georgiani. È stato di tutto, da mercenario in Indocina a prosseneta a Marsiglia. È un uomo dal carattere difficile ma nobile e buon amico. Suppongo abbia dovuto scroccarle il denaro che devo. Non c’era altro rimedio. Ma è una persona di cui ci si può fidare e con cui si possono passare momenti piacevoli. Con un bicchiere gli si scioglie la lingua e ce n’è per un pezzo ad ascoltare le sue storie. Insomma, mi è venuto un attacco di malaria che mi blocca a letto ormai da un mese e mezzo. Porto sempre con me la medicina per controllarne gli effetti, ma ora mi sono trascurato e sono bloccato qui. Queste febbri malariche le ho beccate a Rangoon, tanto tempo fa che a volte penso sia capitato a un altro e non a me. A Rangoon, immischiato in un affare di legno di teck con certi soci inglesi piú imbroglioni di un falso derviscio. Non ne cavai un centesimo da tutta quella fatica. Ci guadagnai queste febbri e alcune teorie erotiche notevoli con una vedova, padrona di una precaria industria di incensi per cerimonie funebri a Kuala Lumpur. Un giorno le racconterò. Ne vale la pena. Un medico a Belfast mi prescrisse queste pastiglie a base di chinino. Sono efficaci ma mi scatenano un mal di testa insopportabile e continue nausee. Me la sono giocata con le febbri usando tale farmaco, ma questa volta hanno avuto partita vinta.
Gli suggerii che prima di ogni altra cosa dovevamo chiamare un medico. Le febbri lo avevano indebolito a tal punto che potevano essere stati danneggiati organi come il cuore e il fegato. Non accolse l’idea con molto entusiasmo. I medici, disse, gli ispiravano sfiducia e complicavano tutto. Insistetti e decidemmo che il giorno seguente ne avrei portato uno. Accettò di malavoglia. Chiacchierammo per un po’ di vecchi ricordi e di persone di cui avevamo condiviso la conoscenza. Mentre mi accingevo a lasciargli del denaro per le spese piú immediate, mi disse:
– No, non mi lasci nulla. Meglio darli a Jalina, la moglie di Yosip. È lei che mi porta da mangiare e quant’altro io necessiti. Se lo lascia qui me lo rubano. C’è un continuo traffico di puttane e di checche che non cessa né di giorno né di notte e, dal momento che devo lasciare la porta aperta perché quando sopraggiungono gli attacchi mi dà angoscia essere rinchiuso, entrano e si portano via tutto ciò che possono. Cosí sono rimasto senza vestiti, senza scarpe, senza documenti. Il passaporto e il denaro per il viaggio in nave fino a Matarani li tengono i portieri. Lí sono al sicuro. Certe donne che vengono e restano con me si sono portate via altri oggetti come pagamento per i loro servizi, il resto se lo portano via ombre che mi vedo ruotare attorno quando arrivano le febbri.
Cercai di tranquillizzarlo dicendogli che, d’ora in avanti, avrei fatto in modo che non gli rubassero altro. Ma ora la cosa piú importante era avere la diagnosi di un medico per sapere come stava e che cosa si dovesse fare per tirarlo fuori da quella situazione. Mi ringraziò con un sorriso che voleva essere caloroso nonostante il tremito delle labbra che cominciava di nuovo a essere evidente. Passata la mezzanotte lo lasciai semiaddormentato, bagnato di un sudore che inzuppava le lenzuola. Yosip e la moglie stavano cenando nella portineria. Li informai che il giorno seguente sarei venuto con un dottore. Gli lasciai il numero di telefono dell’hotel nel caso fosse accaduto qualcosa e qualche dollaro per le spese necessarie. Mi dissero che il Gabbiere mangiava pochissimo e che rifiutava di assaggiare molti dei piatti che la donna gli preparava. C’era un accento di simpatia e di lealtà nei confronti di Maqroll quando i due ne parlavano, piú evidente nella donna, che usava nel nominarlo un diminutivo indecifrabile. Mi sembrò qualcosa come «ruminchu» ma non volli domandarle nulla al riguardo. Capii che era come entrare in un territorio di intimità che non mi apparteneva. Il giorno seguente mi fecero avere agli studios il numero di telefono di un medico che era reperibile durante le riprese. Mi misi in contatto con lui e risultò essere uruguayano. Per telefono si avvertiva nella sua voce una serena autorità che mi ispirò molta fiducia. Rimanemmo d’accordo che sarebbe passato nel pomeriggio al mio hotel e saremmo andati insieme a visitare il Gabbiere. Alle sei in punto ci incontrammo nell’atrio. Lui stava per chiamarmi in camera e io ero sceso ad aspettarlo. Era un uomo di statura media, volto sorridente con occhi espressivi, quasi coperti da spesse ciglia di un nero profondo, nere come i folti baffi che gli davano un’aria da bandito d’operetta. Partimmo alla volta di La Brea e, durante il percorso, lo informai di alcuni precedenti del Gabbiere. Gli raccontai della nostra vecchia amicizia, della sua condizione di perpetuo vagabondaggio e di alcune delle piú marcate originalità del suo carattere. Il medico disse che queste malattie tropicali sono curabili da molti anni in modo assolutamente semplice; ma quando il paziente si trascura e sospende le cure, credendo di essere ormai libero dal male, diventano croniche e danneggiano seriamente la milza, il fegato e arrivano a produrre lesioni cardiache gravi. Entrammo nel motel e il dottore non poté trattenere un gesto di stupore sebbene io lo avessi avvertito delle condizioni in cui viveva il mio amico. I portieri vennero a salutarci e l’aspetto della coppia completò la sua sorpresa. Non fece alcun commento e andammo nella stanza di Maqroll, che dormiva tra leggere convulsioni e con una respirazione intermittente. Aprí gli occhi e salutò con aria assente.
Si sottopose alla visita con una pazienza rassegnata, poco usuale in lui. Ascoltò le prescrizioni per la cura che doveva seguire con un sorriso tra lo scettico e il cortese. Le nuove medicine, secondo il medico, gli avrebbero prodotto un effetto salutare in breve tempo. Avrebbe dovuto, questo sí, ricoverarsi in un ospedale per potersi curare in modo regolare e controllato. Lí dove si trovava era impossibile farlo. Gli attacchi di febbre lo lasciavano per lunghe ore privo di coscienza o semiaddormentato e non avrebbe preso le medicine all’ora dovuta. A tutto ciò il Gabbiere assentiva senza opporre resistenza. La sua unica obiezione fu di ordine economico: non aveva un solo centesimo e non vedeva il modo di poter entrare in ospedale in simili condizioni. Gli spiegai che mi sarei occupato io della cosa. In seguito avremmo regolato i nostri conti. Alzò le spalle e mi ringraziò, fissando il suo sguardo in una lontananza ipotetica ma non per questo meno intensa e dolente. Ritornai con il medico all’hotel perché recuperasse la sua automobile. Mentre percorrevamo l’interminabile e insulso boulevard di Santa Monica, l’uruguayano manteneva un silenzio che voleva essere discreto ma che rivelava la sua impossibilità di conciliare il mio lavoro, di grande responsabilità per i paesi sudamericani sotto la mia tutela, con l’amicizia di uno cosí lontano dal mondo delle grandi industrie cinematografiche di Hollywood. Finalmente, e un po’ con il mio aiuto, si decise a domandarmi dove avevo conosciuto un cosí curioso personaggio, con quel nome impossibile da identificare con qualche nazionalità. Gli risposi che avevamo fatto amicizia durante uno dei miei viaggi di routine nelle Antille su una nave cisterna della Esso, quando lavoravo per quella compagnia. Maqroll era responsabile delle sentine e la nostra relazione ebbe inizio quando lo vidi concentrato, durante uno dei suoi momenti liberi, in un erudito trattato sulla Guerra di Successione di Spagna. Entrammo subito in argomento, dal momento che questo è un tema che interessa anche me, e fummo d’accordo sull’indubbio diritto che spettava a Luigi XVI di reclamare per suo nipote il trono che gli Asburgo lasciavano vacante. Tornammo a incontrarci in viaggi successivi e divenne un’abitudine ritrovarci nei piú inaspettati luoghi del mondo, secondo quanto concedevano i nostri successivi cambiamenti di lavoro.
– Non avrei mai pensato che fosse un uomo con inquietudini intellettuali, – mi disse il medico con una certa cautela professionale.
– Io non lo definirei in questo modo, – gli risposi. – La sola parola intellettuale procurerebbe al Gabbiere il piú alto fastidio. È un uomo con profonde e assai sincere curiosità e un gusto molto personale per il passato, cose che vanno di pari passo con una buona formazione letteraria, conseguita al margine del mondo in cui sono soliti muoversi i cosiddetti intellettuali.
Non vidi del tutto convinto il dottore, che ancora non si rimetteva dall’incontro con un tipo come Maqroll. Gli raccontai in modo sintetico e superficiale alcuni aneddoti sulla vita del mio amico, che non contribuirono per nulla a restituirgli la serenità. Quando giungemmo all’hotel mi diede l’indirizzo dell’ospedale dove avrebbero potuto curare il Gabbiere e si congedò con una certa riserva.
Il giorno seguente mi recai da Maqroll con un’ambulanza. Si poteva appena reggere in piedi. Yosip e sua moglie mi domandarono angosciati che cosa avrebbero fatto al loro ospite, per il quale mostravano un caloroso interessamento che affiorava nella goffaggine delle loro domande e nell’ansia delle timide obiezioni. Maqroll li tranquillizzò dicendogli che non era colpa loro se doveva lasciare quel posto, ma che si trattava di seguire una cura molto rigorosa e che per questo era indispensabile ricoverarsi in ospedale. Diedi loro l’indirizzo perché andassero a fargli visita. Mentre facevano salire la lettiga sull’ambulanza, Jalina si aggrappò al mio braccio con improvvisa angoscia e mi ripeté diverse volte:
– S’il s’agit de le soigner, ça va. Mais vous êtes responsable si ça ne marche pas. C’est un ami comme il n’y en a pas d’autres.
Feci il possibile per tranquillizzarla e tornai a ripeterle che ero anch’io un suo vecchio e buon amico come potevano esserlo loro; che non c’era nulla da temere e che tutto sarebbe andato bene. Ci saremmo rivisti in ospedale. Due grandi lacrime cominciarono a scorrerle sul viso che conservava ancora le fattezze e il contegno altero del Mediterraneo. Yosip osservava la scena con quella tranquillità felina che acquisiscono i mercenari a forza di convivere con il dolore e la morte. Mentre salivamo lungo La Brea per prendere la freeway verso San Fernando Valley, dove si trovava l’ospedale, la sirena dell’ambulanza si faceva strada in mezzo al traffico. Maqroll mi guardava tra il divertito e lo stupito. Mi raccontò che i suoi amici del motel, dopo averlo visto sopravvivere alle piú assurde vicissitudini, si erano fatti un’idea di lui che non escludeva un certo sospetto di immortalità. Vederlo partire su un’ambulanza diretto all’ospedale era un colpo assai duro a quell’immagine che doveva esser loro necessaria per continuare a vivere.
– Uno magari serve come garanzia contro la morte e ciò che fa in realtà è averla sempre alle costole fingendo di ignorarla, – disse tornando su una delle sue piú radicate ossessioni.
La cura a cui fu sottoposto Maqroll nell’ospedale dal nome biblico e dal rigoroso regolamento quacquero cominciò molto presto a dare i suoi risultati. Gli attacchi di febbre si andarono sempre piú diradando e il Gabbiere passò molto presto dalla sedia a rotelle a passeggiare lentamente per i viali dell’asettico giardino i cui fiori sembravano di plastica, cosí come gli aranci carichi di frutti di un improbabile color giallo. Ero solito fargli visita in fine giornata, quando terminavano le mie occupazioni agli studios e nei pomeriggi dei sabati e delle domeniche. Di tanto in tanto incontravo il portiere e sua moglie. La loro diffidenza nei miei confronti aveva lasciato il posto a una cordialità un po’ brusca e commovente. Il recupero del Gabbiere li aveva tranquillizzati, come anche alcuni chiarimenti che lui dovette dar loro sulla nostra amicizia.
Un sabato andai a fargli visita di mattina e lo trovai che aveva riunito i suoi pochi averi in una sacca di quelle che regalano le compagnie aeree. Evidentemente era stata sottopos...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Amirbar
  3. Appendice Le letture del Gabbiere
  4. Il libro
  5. L’autore
  6. Dello stesso autore
  7. Copyright