Bijou
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Bijou

  1. 136 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Nella folla dell'ora di punta, in una stazione della metropolitana parigina, una giovane donna crede di riconoscere la madre, che non vede da quando era piccola. Inizia a seguirla, attratta irresistibilmente dal suo cappotto giallo. Si apre così una delle indagini più incerte e commoventi che sia mai stata narrata. È la storia di un abbandono, della ricerca malinconica di un «paese natale» a cui far ritorno, di una solitudine che nessuna amicizia riesce a spezzare. La bambina che aveva recitato al fianco della madre, la piccola attrice cui era stato dato il nome d'arte di Bijou, è diventata adulta, apparentemente libera di vivere la propria vita. Ma la vita, gli incontri, il caso che governa l'andirivieni dei passanti nelle strade della città, la spingono ancora e sempre verso il passato: un appartamento deserto nel Sedicesimo arrondissement, un garage nei pressi della Gare de Lyon, una scuola accanto al Bois de Boulogne. E la topografia di questa Parigi, così precisa e ricca di dettagli, rivela invece uno spazio labirintico e indecifrabile, proiettato sullo schermo di un sogno. Sarà soltanto uscendo violentemente da quel dedalo di ricordi, che Bijou troverà la sua strada. «Erano passati una dozzina d'anni da quando non mi chiamavano più "Bijou" e mi trovavo alla stazione del metrò Châtelet nell'ora di punta. Ero tra la folla che percorreva il corridoio senza fine, sul tapis roulant. Una donna indossava un cappotto giallo. Il colore del suo cappotto aveva attirato la mia attenzione e la vedevo di spalle, sul tapis roulant. Poi camminava lungo il corridoio in direzione Château-de-Vincennes. Eravamo ora immobili, stretti gli uni contro gli altri a metà scala, aspettando che la porta si aprisse. Lei stava accanto a me. Allora l'ho vista in faccia. La somiglianza di quel volto con quello di mia madre era così sorprendente che ho creduto fosse lei.
Mi era ritornata in mente una fotografia, una delle poche di mia madre che ho conservato. Il volto è illuminato come se un riflettore lo avesse fatto affiorare dall'oscurità. Ho sempre provato fastidio nel guardarla. Nei miei sogni diventava, ogni volta, una fotografia antropometrica che qualcuno - un commissario di polizia, un addetto dell'obitorio - mi porgeva perché potessi identificare la persona ritratta. Ma io restavo in silenzio. Non sapevo niente di lei».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
Print ISBN
9788806170097
eBook ISBN
9788858417553

Patrick Modiano

Bijou

Traduzione di Irene Babboni

Einaudi

Bijou

Per Zina Per Maria
Erano passati una dozzina d’anni da quando non mi chiamavano piú «Bijou» e mi trovavo alla stazione del metrò Châtelet nell’ora di punta. Ero tra la folla che percorreva il corridoio senza fine, sul tapis roulant. Una donna indossava un cappotto giallo. Il colore del suo cappotto aveva attirato la mia attenzione e la vedevo di spalle, sul tapis roulant. Poi camminava lungo il corridoio in direzione Château-de-Vincennes. Eravamo ora immobili, stretti gli uni contro gli altri a metà scala, aspettando che la porta si aprisse. Lei stava accanto a me. Allora l’ho vista in faccia. La somiglianza di quel volto con quello di mia madre era cosí sorprendente che ho creduto fosse lei.
Mi era ritornata in mente una fotografia, una delle poche di mia madre che ho conservato. Il volto è illuminato come se un riflettore lo avesse fatto affiorare dall’oscurità. Ho sempre provato fastidio nel guardarla. Nei miei sogni diventava, ogni volta, una fotografia antropometrica che qualcuno – un commissario di polizia, un addetto dell’obitorio – mi porgeva perché potessi identificare la persona ritratta. Ma io restavo in silenzio. Non sapevo niente di lei.
Si è seduta su una delle panchine della stazione, lontana dagli altri che si accalcavano sul bordo del marciapiede in attesa del treno. Non c’era posto sulla panchina, al suo fianco, e io stavo in piedi, in disparte, appoggiata a un distributore automatico. Il taglio del suo cappotto era stato forse elegante un tempo, e il colore vivace gli dava un tocco estroso. Ma il giallo era sbiadito e ormai quasi grigio. Lei sembrava ignorare tutto ciò che le stava intorno e mi sono chiesta se sarebbe rimasta lí, sulla panchina, fino all’ora dell’ultimo metrò. Il profilo uguale a quello di mia madre, il naso cosí particolare, con la punta leggermente all’insú. Gli stessi occhi chiari. La stessa fronte alta. I capelli erano piú corti. No, non era cambiata molto. I capelli non erano piú cosí biondi, ma, dopo tutto, non sapevo se mia madre fosse stata davvero bionda. La bocca contratta in una piega di amarezza. Ero certa che fosse lei.
Ha lasciato passare un treno. Il marciapiede si era svuotato in pochi istanti. Mi sono seduta accanto a lei. Poi il marciapiede veniva di nuovo invaso da una folla compatta. Avrei potuto attaccare discorso. Non trovavo le parole e c’era troppa gente intorno a noi.
Stava per addormentarsi sulla panchina, ma, quando il rumore del treno ancora non era che un tremolio lontano, si è alzata. Le sono salita dietro sul vagone. Eravamo separate da un gruppo di uomini che parlavano fra loro a voce molto alta. Le porte si sono richiuse ed è allora che ho pensato che avrei dovuto prendere, come sempre, il treno nella direzione opposta. Alla stazione successiva, sono stata spinta sul marciapiede dal flusso di quelli che uscivano, poi sono risalita sul vagone e mi sono riavvicinata a lei.
In piena luce, sembrava piú vecchia che sul marciapiede. Una cicatrice le attraversava la tempia sinistra e parte della guancia. Quanti anni poteva mai avere? Cinquanta? E quanti nelle foto? Venticinque? Lo sguardo era lo stesso dei venticinque anni, limpido, pieno di stupore o di un timore vago, e si induriva all’improvviso. Per caso il suo sguardo si è posato su di me, ma lei non mi vedeva. Ha tirato fuori dalla tasca del cappotto un portacipria, lo ha aperto, ha avvicinato lo specchietto alla faccia, e si passava il mignolo della mano sinistra all’angolo della palpebra, come per togliere dall’occhio un granello di polvere. Il metrò aveva preso velocità, c’è stato un sobbalzo, io mi sono tenuta alla sbarra di metallo, ma lei non ha perso l’equilibrio. Impassibile, continuava a guardarsi nello specchio. A Bastille, sono riusciti bene o male a salire tutti, e le porte si sono richiuse a fatica. Aveva fatto in tempo a riporre il portacipria prima che gli altri si riversassero nel vagone. In quale stazione sarebbe scesa? L’avrei seguita fino in fondo? Era proprio necessario? Avrei dovuto abituarmi all’idea che abitava nella mia stessa città. Mi avevano detto che era morta, molto tempo prima, in Marocco, e non avevo mai cercato di saperne di piú. «Era morta in Marocco», una di quelle frasi che si sentono sin dall’infanzia, senza capirne del tutto il significato. Di quelle frasi, resta nella memoria solo la litania, come certe parole di canzoni che mi facevano paura. «Era un piccolo naviglio…» «Era morta in Marocco».
Sul mio atto di nascita c’era l’anno in cui lei era nata: 1917, e all’epoca delle foto diceva di avere venticinque anni. Ma, già allora, doveva aver barato sull’età e falsificato i documenti per ringiovanirsi. Ha rialzato il collo del cappotto come se avesse freddo in quel vagone dove pure si stava stretti gli uni contro gli altri. Ho visto che l’orlo del colletto era tutto liso. Da quanto indossava quel cappotto? Dai tempi delle foto? Ecco perché il giallo era sbiadito. Saremmo arrivate al capolinea e, da lí, un autobus ci avrebbe portate in una periferia lontana. Allora l’avrei affrontata. Passata la gare de Lyon c’era meno gente nello scompartimento. Di nuovo il suo sguardo si posava su di me, ma era uno di quegli sguardi che i viaggiatori scambiano meccanicamente fra loro. «Scusi, si ricorda che mi chiamavano “Bijou”? Anche lei, all’epoca, aveva adottato un cognome falso. E anche un nome falso, Sonia».
Stavamo sedute, l’una di fronte all’altra, sui due sedili piú vicini alle porte. «Vede, l’avevo cercata sull’elenco telefonico, e avevo anche chiamato le quattro o cinque persone che portavano il suo vero cognome, ma non avevano mai sentito parlare di lei. Un giorno, mi dicevo, sarei dovuta andare in Marocco. Solo cosí avrei potuto verificare se lei fosse davvero morta».
Dopo Nation, lo scompartimento si era svuotato, ma lei restava seduta sul sedile di fronte a me, le mani giunte, e le maniche del cappotto grigiastro che le lasciavano scoperti i polsi. Mani nude, senza nessun anello, nessun braccialetto, mani screpolate. Nelle foto portava anelli e bracciali – gioielli massicci come si usava allora. Ma oggi, piú niente. Aveva chiuso gli occhi. Ancora tre stazioni, poi il capolinea. Il metrò si sarebbe fermato a Château-de-Vincennes e io mi sarei alzata il piú delicatamente possibile e sarei uscita dal vagone, lasciandola addormentata sul sedile. Sarei salita sull’altro metrò, in direzione Pont-de-Neuilly, come avrei fatto anche poco prima, se non avessi notato quel cappotto giallo nel corridoio.
Il treno si è fermato lentamente alla stazione Bérault. Aveva riaperto gli occhi che tornavano a farsi duri. Ha gettato uno sguardo sul marciapiede, poi si è alzata. La seguivo ancora lungo il corridoio, ma ormai eravamo sole. Proprio allora ho notato che portava quelle scarpette di maglia fatte a forma di calzino dette panchos, che accentuavano il suo passo da ex ballerina.
Un ampio viale, fiancheggiato da palazzi, al limitare di Vincennes e di Saint-Mandé. Scendeva la sera. Ha attraversato la strada ed è entrata in una cabina telefonica. Ho lasciato che il rosso del semaforo si accendesse e spegnesse piú volte, e poi ho attraversato. Nella cabina ci ha messo un po’ prima di trovare delle monete o un gettone. Ho finto di interessarmi alla vetrina del negozio piú vicino, una farmacia in cui era esposto il manifesto che mi spaventava da piccola: il diavolo che soffia fuoco dalla bocca. Mi sono voltata. Componeva un numero di telefono con lentezza, come fosse la prima volta. Teneva la cornetta contro l’orecchio, con tutte e due le mani. Ma nessuno rispondeva. Ha riagganciato, ha tirato fuori da una delle tasche del cappotto un pezzo di carta, e, mentre il dito faceva girare il disco, non staccava gli occhi dal foglio. È stato proprio allora che mi sono chiesta se aveva una casa da qualche parte.
Stavolta, qualcuno le aveva risposto. Dietro il vetro, le sue labbra si muovevano. Teneva ancora la cornetta con tutte e due le mani e, di tanto in tanto, scuoteva la testa, come per concentrarsi meglio. Dal movimento delle labbra si capiva che parlava sempre piú forte, ma che la veemenza andava placandosi. A chi stava mai telefonando? Fra i pochi oggetti che nella scatola di latta dei biscotti mi restavano di lei, un’agenda e una rubrica di indirizzi risalivano alla stessa epoca delle fotografie, il tempo in cui mi chiamavano Bijou. In passato non avevo mai provato la curiosità di consultare quell’agenda e quella rubrica, ma, da qualche tempo, la sera ne sfogliavo le pagine. Nomi. Numeri di telefono. Sapevo bene che era inutile comporli. E poi, non ne avevo neppure voglia.
Nella cabina, lei continuava a parlare. Sembrava cosí presa dalla conversazione che mi sarei potuta avvicinare senza essere notata. Potevo addirittura far finta di aspettare il mio turno per telefonare, e cogliere attraverso il vetro qualche parola che mi facesse capire meglio che cosa fosse diventata quella donna in cappotto giallo e panchos. Ma non sentivo niente. Telefonava forse a uno dei nomi annotati sulla sua rubrica, il solo che non avesse perso di vista, o che non fosse morto. A volte qualcuno è presente per tutta la tua vita senza che tu riesca mai a scoraggiarlo. Ti avrà conosciuto nei giorni felici, ma piú tardi, con la stessa ammirazione, ti avrà seguito nella miseria, l’unico a darti ancora fiducia, l’unico, ingenuo, a credere ancora in te. Un barbone come te. Un cane fedele. Un’eterna vittima. Cercavo di immaginarmi che aspetto avesse quell’uomo, o quella donna, all’altro capo del filo.
È uscita dalla cabina. Mi ha rivolto uno sguardo indifferente, lo stesso posato su di me nel metrò. Ho aperto la porta a vetri. Senza introdurre un gettone nella fessura, ho composto a caso, inutilmente, un numero di telefono aspettando che lei si allontanasse un poco. Tenevo la cornetta contro l’orecchio, e non c’era nemmeno il segnale. Silenzio. Non riuscivo a riagganciare.
Lei è entrata nel caffè vicino alla farmacia. Non sapevo se seguirla o no, ma poi ho pensato che non mi avrebbe notata. In fondo, chi eravamo noi due? Una donna di età indefinibile e una ragazza perdute nella folla del metrò. In quella folla nessuno sarebbe riuscito a distinguerci. E una volta uscite all’aria aperta, non eravamo diverse dalle migliaia e migliaia di persone che di sera tornano a casa, in periferia.
Era seduta a un tavolo in fondo alla sala. Il barista biondo e paffuto le aveva portato un kir. Avrei dovuto verificare se veniva qui, ogni sera, alla stessa ora. Mi sono ripromessa di tenere a mente il nome del caffè. Calciat, 96, avenue de Paris. Il nome era scritto sulla porta, in lettere bianche disposte ad arco. Sul metrò, al ritorno, continuavo a ripetermelo insieme all’indirizzo per trascriverli non appena possibile. Non si muore in Marocco. Si continua a vivere una vita clandestina, dopo la propria. Si beve ogni sera un kir al caffè Calciat dove i clienti hanno finito per abituarsi a quella donna col cappotto giallo. Senza mai farle domande.
Mi ero seduta a un tavolino non molto lontano dal suo. Avevo ordinato anch’io un kir, chiedendolo ad alta voce, perché sentisse e scorgesse in questo un segno di complicità. Ma era rimasta impassibile. Teneva la testa leggermente reclinata, lo sguardo insieme duro e malinconico, le braccia incrociate e appoggiate sul tavolo, la stessa posa che aveva nel quadro. Che ne era stato di quel quadro? Mi aveva accompagnato per tutta l’infanzia. Era appeso alla parete della mia camera a Fossombronne-la-Forêt. Mi avevano detto: «È il ritratto di tua madre». Un tale di nome Tola Soungouroff l’aveva dipinto a Parigi. Il nome e la città erano scritti in basso, sulla sinistra. Le braccia erano conserte come adesso, con la sola differenza che un pesante braccialetto a catena le cingeva un polso. Un buon pretesto per attaccare discorso. «Lei somiglia alla donna di cui la settimana scorsa ho visto un ritratto al mercato delle pulci di Porte de Clignancourt. Il pittore si chiamava Tola Soungouroff». Ma non trovavo la forza per alzarmi e per chinarmi verso di lei. Sempre ammesso che riuscissi a pronunciare la frase senza errori: «Il pittore si chiamava Tola Soungouroff, e lei Sonia, ma era un nome falso; quello vero, leggibile sul mio atto di nascita, era Suzanne». Ebbene, una volta pronunciata la frase, in fretta, che cosa ne avrei ricavato? Avrebbe fatto finta di non capire, o forse le parole le si sarebbero affollate sulle labbra e ne sarebbero uscite disordinatamente, perché non parlava piú con nessuno da molto tempo. Ma lei avrebbe mentito, confuso le tracce, come aveva fatto all’epoca del quadro e delle foto barando sull’età e dandosi un nome falso. E un falso cognome. E anche un falso titolo nobiliare. Lasciava intendere di essere nata da una famiglia dell’aristocrazia irlandese. Forse un irlandese lo aveva incrociato sulla sua strada, altrimenti non avrebbe avuto quell’idea. Un irlandese. Mio padre forse – che sarebbe molto difficile ritrovare, e che lei aveva dovuto dimenticare. Aveva probabilmente dimenticato anche tutto il resto, e sarebbe stata sorpresa che io gliene parlassi. Si trattava di un’altra persona. Le menzogne si erano dissipate con gli anni. Ma un tempo, ne ero sicura, a tutte quelle menzogne, lei ci aveva creduto.
Il biondo paffuto le aveva portato un altro kir. Adesso c’era molta gente davanti al bancone e tutti i tavolini erano occupati. In quel vocio era impossibile capirsi. Avevo l’impressione di trovarmi ancora sul vagone del metrò. O piuttosto nella sala d’attesa di una stazione, senza sapere esattamente che treno prendere. Ma, per lei, non c’erano piú treni. Ritardava l’ora del rientro a casa. Forse non molto distante da lí. Ero veramente curiosa di sapere dove. Non avevo nessuna voglia di parlarle, non provavo per lei nessun sentimento particolare. Le circostanze avevano fatto sí che non c’era stato fra noi ciò che si suol dire il latte dell’umana tenerezza. La sola cosa che io volevo sapere, era dove si fosse alla fine arenata, dodici anni dopo la sua morte in Marocco.
Era una piccola strada nei pressi del castello, o del forte. Non so mai bene la differenza fra le due cose. Ai lati case basse, garage e perfino scuderie. Un tempo si chiamava rue du Quartier-de-Cavalerie. Sul marciapiede destro, al centro, si stagliava la massa scura di un palazzo di mattoni. Era ormai notte quando abbiamo imboccato la strada. Camminavo ancora qualche metro dietro di lei, ma, a poco a poco, accorciavo la distanza. Ero sicura che se anche avessi camminato al suo fianco, lei non se ne sarebbe accorta. In quella strada ci sono poi ritornata di giorno. Una volta oltrepassato il palazzo di mattoni, sbucavi quasi nel vuoto. Il cielo era terso. Ma se arrivavi poi in cima alla strada, ti accorgevi che finiva in una specie di terreno incolto che confinava a sua volta con una distesa ancora piú ampia. Un cartello avvertiva: «Campo di manovra». Al di là aveva inizio il Bois de Vincennes. Di notte, quella st...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Bijou
  3. Il libro
  4. L’autore
  5. Dello stesso autore
  6. Copyright