Antoine Laurain
La donna dal taccuino rosso
Traduzione di Margherita Botto
Il taxi l’aveva lasciata all’angolo del boulevard. Per arrivare a casa doveva fare solo cinquanta metri a piedi. La via era rischiarata dai lampioni che coloravano le facciate di un riverbero arancione; però non si era fidata, come sempre a notte fonda. Si era voltata e non aveva visto nessuno. La luce dell’hotel, proprio di fronte, inondava il marciapiede fra i due arbusti in vaso che segnalavano l’ingresso del tre stelle. Si era fermata davanti al portone, aveva aperto la lampo centrale della borsa per cercare il mazzo di chiavi e la tessera elettronica, e poi era successo tutto molto in fretta. Una mano l’aveva afferrata alla gola, una mano sbucata dal nulla e appartenente a un uomo bruno, con un giubbotto. La paura ci mise solo un attimo a percorrerle tutte le vene e risalire verso il cuore esplodendo in una pioggia gelida. Di riflesso strinse forte la borsa, l’uomo tirò, e di fronte alla sua resistenza le appoggiò il palmo della mano sul volto scagliandole la testa contro il metallo del portone. L’urto la fece barcollare, vide la strada illuminarsi di microparticelle scintillanti, simili a lucciole sospese, il petto le si riempà di un brivido e le dita mollarono la presa. L’uomo fece un sorriso, la tracolla descrisse un cerchio in aria, e lui fuggÃ. Lei rimase appoggiata al portone seguendo con gli occhi la sagoma che svaniva nella notte. L’ossigeno le entrava nei polmoni a intervalli regolari, la gola le bruciava e aveva la bocca secca – la bottiglia d’acqua era nella borsa. Tese un dito verso i tasti della serratura a codice, spinse adagio il battente con la schiena e scivolò dentro.
Il portone di vetro e ferro interpose una barriera di sicurezza fra lei e il mondo. Sedette con cautela sui gradini di marmo dell’atrio e chiuse gli occhi. Aspettando che il cervello si decidesse a calmarsi e riprendesse a funzionare normalmente. Come quando, in aereo, si spengono a poco a poco le avvertenze di sicurezza, i segnali luminosi: Mi aggrediscono. Morirò. Mi hanno rubato la borsa. Non sono ferita. Sono viva, scomparvero uno dopo l’altro. Alzò lo sguardo verso le cassette della posta, vi lesse il suo nome, il cognome e il piano: quinto a sinistra. Ormai senza chiavi, quasi alle due del mattino, di certo non avrebbe aperto tanto presto la porta del quinto a sinistra. Nella sua mente stava prendendo forma questo fatto molto concreto: Non posso entrare in casa e mi hanno rubato la borsa. Non ce l’ho piú, non la rivedrò mai. Una parte di lei era appena scomparsa nel modo piú brutale. Si guardava intorno come se la borsa stesse per materializzarsi, annullando la sequenza che si era appena svolta. E invece no, non c’era piú. Era lontano, per le strade, strappata via, volava al braccio dell’uomo che correva, lui l’avrebbe aperta e avrebbe trovato le sue chiavi, i suoi documenti d’identità , i suoi ricordi. Tutta la sua vita. Sentà che gli occhi le si riempivano di lacrime cocenti. Paura, disperazione e rabbia si mescolavano al tremito delle mani che sembrava inarrestabile quando il dolore alla nuca si fece piú acuto. La tastò con le dita, sanguinava, e ovviamente il pacchetto di fazzolettini di carta era nella borsa.
L’una e cinquantotto: era impensabile suonare alla porta di un vicino. Nemmeno a quella del tizio simpatico di cui non ricordava il nome, che aveva appena traslocato al secondo piano e lavorava nel campo dei fumetti. L’hotel le parve l’unica soluzione. La luce dell’atrio si era spenta e cercò a tentoni l’interruttore. Quando si riaccese ebbe un lieve capogiro e si appoggiò al muro. Doveva recuperare il sangue freddo, chiedere una camera spiegando che abitava di fronte e avrebbe pagato l’indomani. Sperava che il portiere di notte fosse comprensivo perché non le veniva in mente nessun’altra idea. Aprà il pesante portone dello stabile e fu scossa da un brivido. Non per il freddo notturno, ma per una paura diffusa, come se le facciate avessero assorbito qualcosa di ciò che era accaduto e l’uomo stesse per sbucare fuori da un muro quasi per magia. Laure si guardò intorno. La strada era deserta. Di certo l’uomo non sarebbe tornato, ma non sempre si riescono a controllare le proprie paure, e alle due del mattino non è facile discriminare fra irrazionale e possibile. Attraversò in direzione dell’hotel. Istintivamente strinse a sé la borsa, ma tra il fianco e l’avambraccio trovò solo il vuoto. Entrò nella luce della pensilina e la porta scorrevole si aprà con un suono soffocato. Un uomo con i capelli grigi, seduto dietro il bancone, alzò gli occhi verso di lei.
Aveva accettato. Un po’ controvoglia, ma quando Laure aveva fatto il gesto di sganciare il bracciale dell’orologio d’oro per lasciarglielo in pegno aveva sollevato una mano in segno di resa. Quella giovane donna smarrita diceva senz’altro la verità , sembrava una persona seria; su una scala da uno a dieci, la probabilità che tornasse l’indomani a pagare la sua notte d’albergo raggiungeva tranquillamente il nove. Aveva lasciato nome, cognome e indirizzo. La reception aveva dovuto gestire problemi di insolvenza ben piú ardui di un unico pernottamento di una donna sola che diceva di abitare di fronte da quindici anni. È vero che telefonare agli amici dai quali aveva passato la serata sarebbe stata una soluzione, ma il numero era sul cellulare. E dall’avvento dei cellulari e delle loro rubriche ormai Laure sapeva a memoria soltanto il proprio e quello del posto di lavoro. Quanto all’ipotesi del fabbro suggerita dal portiere, era altrettanto impraticabile. Laure aveva finito il libretto degli assegni e aveva tardato a chiederne un altro, sarebbe stato pronto in banca solo la settimana successiva. A parte la carta di credito e quaranta euro in contanti, che erano nel portafoglio, non disponeva di alcun mezzo di pagamento. Era pazzesco come in quel tipo di situazione migliaia di particolari un’ora prima insignificanti all’improvviso sembrassero coalizzarsi contro. Lo seguà in ascensore, poi lungo il corridoio, verso la camera 52 che dava sulla strada. Lui accese la luce, mostrò rapidamente il bagno, e le consegnò la chiave. Lei lo ringraziò, promettendo ancora una volta di passare l’indomani appena possibile. Il portiere di notte fece un sorriso benevolo, un po’ stufo di sentirselo ripetere per la quinta volta: Le credo, signorina, buonanotte.
Laure si avvicinò alla finestra e scostò le tende; era all’altezza del piano a cui abitava lei. Aveva lasciato accesa la lampada del soggiorno e sistemato una sedia davanti alla finestra socchiusa perché Belfagor potesse guardare fuori. Era strano vedere casa sua da lÃ. Aveva quasi l’impressione che avrebbe scorto la propria silhouette attraversare la stanza. Aprà i vetri. Belfagor… Belfagor…, chiamò a mezza voce, con quei bacini ritmici che sa fare chiunque possieda un gatto. Dopo qualche istante la sagoma nera saltò sulla sedia e due occhi gialli la fissarono sbalorditi. Come mai la sua padrona si trovava di fronte e non nell’appartamento? E sÃ, sono qui…, disse lei alzando le spalle. Gli fece un piccolo cenno e decise di andare a letto. In bagno trovò alcuni kleenex e si pulà la ferita alla testa con un po’ d’acqua. Chinandosi ebbe un altro capogiro. Unica buona notizia, sembrava che non sanguinasse piú. Prese un asciugamano di spugna, lo distese sul guanciale e si spogliò. Sdraiata, non poteva fare a meno di rivedere la scena dello scippo. L’episodio, che era durato al massimo una manciata di secondi, ormai si stiracchiava come una sequenza al rallentatore. Piú elastica dei ralenti a fini estetici nei film, piú lunga. Simile a quelli dei documentari scientifici che mostrano i manichini nei crash test delle auto. Si vedono l’interno dell’abitacolo, il parabrezza che esplode come una pozzanghera verticale, le teste dei manichini proiettate lentamente in avanti, gli airbag che si gonfiano come chewing gum e le lamiere che a poco a poco si accartocciano, quasi per effetto di un lento calore.
Laurent aveva rinunciato a radersi davanti allo specchio del bagno. Appena acceso, l’apparecchio elettrico il cui ronzio accompagnava piacevolmente ogni suo risveglio aveva emesso un grugnito di agonia e poi si era bloccato rimanendo in silenzio. Aveva azionato il pulsante on/off, picchiettato sulla testina, staccato e reinserito la spina: niente da fare, il Braun 860 a tre testine oscillanti aveva reso l’anima. Una vera scocciatura, ma non riuscà a decidersi a buttarlo via, almeno per il momento. Lo depose religiosamente nell’acquasantiera che aveva portato a casa dalla Grecia dieci anni prima. Il rasoio Gillette che teneva da qualche parte, in un cassetto, non gli sarebbe stato di alcuna utilità perché si manifestò un’altra sorpresa: quando aprà il rubinetto della vasca da bagno si udà un sordo cigolio. Niente acqua. La sospensione generale della fornitura era annunciata da una settimana nell’atrio dello stabile, ma se n’era dimenticato. Laurent si guardò allo specchio. Vide la faccia di un uomo con la barba lunga e i capelli bizzarramente scarmigliati dopo una notte con la testa affondata nel guanciale. Nel bollitore rimaneva appena abbastanza acqua per fare un caffè. Uscendo dal palazzo diede un’occhiata alla saracinesca del negozio. Tra poco l’avrebbe aperta con un giro di chiave nella serratura elettrica, poi avrebbe salutato con un cenno del capo il suo vicino Jean Martel (Le temps perdu, antiquariato – oggetti d’epoca – acquisto – vendita) seduto a un tavolino del Jean Bart davanti a un caffè macchiato. Avrebbe salutato con la mano anche la moglie del proprietario della tintoria (La blanche colombe – lavasecco di qualità ), che gli avrebbe risposto da dietro la vetrina, e poi, sollevata la saracinesca, avrebbe dato un’occhiata alla propria, di vetrina, con le «Novità », i «Libri d’arte e fotografia» e «I piú venduti», accanto a «Scelti da noi» e a quelli «Da non perdere». Alle dieci e mezzo in punto sarebbe arrivata Maryse, seguita da Damien. Con la squadra al completo, la giornata avrebbe avuto inizio, tra scatoloni da aprire e richieste di ogni genere: «Cerco un libro di cui non so né l’autore né l’editore, ma la vicenda è ambientata durante la seconda guerra mondiale». Consigli: «Signora Berthier, è un romanzo fatto per lei, cercava qualcosa di leggero per distrarsi, deve assolutamente scoprire questo autore, glielo garantisco». Ordini: «SÃ, buongiorno, qui è Le Cahier rouge, mi servirebbero tre copie del Don Giovanni di Molière, tascabile, collana Biblio lycée». Rese: «SÃ, buongiorno, qui è Le Cahier rouge, sono costretto a rendere le quattro copie di Tristezza d’estate, non si vendono e devo rinnovare gli espositori». Programmazione di eventi: «SÃ, buongiorno, sono Laurent Letellier del Cahier rouge, mi dica, potremmo organizzare un incontro con il vostro autore?»
Quando l’aveva comprata, la libreria era un bar moribondo, Le Celtique, gestito da una coppia anziana che non vedeva l’ora di tornarsene in Auvergne e per la quale Laurent fu un salvatore insperato. Il bar comportava il vantaggio di avere proprio sopra un appartamento «di servizio». Vantaggio indubbio per gli spostamenti, perché li elimina in modo radicale, ma che ha anche il suo lato negativo: non ci si allontana mai dal posto di lavoro.
Laurent girò intorno ai giardinetti su cui si affacciava Le Cahier rouge e risalà rue de la Pentille. Teneva in mano Un’impalcatura di nuvole, l’ultimo romanzo di Frédéric Pichier. L’autore sarebbe venuto a firmare le copie la settimana successiva e Laurent contava di rileggere le annotazioni che si era scritto a margine del volume davanti a un caffè doppio, seduto a un tavolino dell’Espérance, un bar a cui approdava spesso nelle sue passeggiate mattutine. Il libro raccontava le sorti di una giovane contadina durante la guerra del ’14-18. Era il quarto romanzo dell’autore, che si era fatto conoscere con Le lacrime della sabbia, la storia di un soldato che si innamora di una giovane egiziana durante l’occupazione francese ai tempi di Napoleone. Pichier possedeva l’arte di mescolare le tribolazioni dei suoi personaggi alle grandi vicende storiche. La critica letteraria non sapeva bene come trattare il suo caso: era semplicemente bravo a raccontare o era un vero scrittore? La questione restava aperta. Comunque il libro si vendeva benissimo e la firma delle copie avrebbe senz’altro avuto un grande successo. Mentre camminava gli arrivò un sms di Maryse. Il suo treno dall’hinterland si era bloccato a metà strada e forse sarebbe stata in ritardo per l’apertura del negozio. Mi faccia sapere, Maryse, rispose Laurent prima di svoltare in rue Vivant Denon. Al numero 6 alzò gli occhi per verificare se la signora Merlier, una sua cliente, avesse aperto le imposte. Grande lettrice, la vecchia signora, che somigliava in modo straordinario alla defunta attrice Marguerite Moreno, si alzava all’alba. Se le imposte non sono aperte, signor Letellier, significa che sono morta o là là per morire, gli aveva detto un giorno. Erano rimasti d’accordo che in caso di imposte chiuse Laurent avrebbe chiamato il pronto intervento. Ma al numero 6 andava tutto bene, le imposte erano aperte. Peraltro erano praticamente le uniche aperte: gli abitanti approfittavano del sabato mattina per dormire fino a tardi e il quartiere era deserto. Proseguà lungo rue du Passe Musette. Il bar L’Espérance era proprio in fondo, all’angolo con il boulevard e il mercato del weekend. Davanti a ogni portone erano stati portati fuori i bidoni della spazzatura, in certi casi affiancati da qualche pezzo di mobilio obsoleto in attesa del servizio di raccolta dei rifiuti ingombranti. Laurent oltrepassò uno dei bidoni, rallentò – l’immagine ci aveva messo qualche secondo a imprimersi nella mente –, poi fece dietrofront e tornò sui suoi passi.
Appoggiata sul coperchio c’era una borsetta. Di pelle color malva e in ottime condizioni. Con molte tasche e chiusure lampo, due grandi manici, una tracolla e fibbie dorate. Istintivamente Laurent si guardò intorno – un gesto assurdo: nessuna donna si sarebbe materializzata all’improvviso per recuperarla. Da come stava ritta sulla base, la borsa non era vuota. Se fosse stata vuota e malconcia, la proprietaria l’avrebbe buttata nel bidone e non appoggiata sopra. Ma, d’altra parte, le donne buttano via le loro borse? Laurent pensò alla donna con cui aveva condiviso la vita per dodici anni. Ne aveva molte e le cambiava a seconda della stagione. Non buttava via nemmeno le scarpe; anche se i cinturini di quelle col tacco alto erano fuori uso li faceva riparare dal calzolaio. Alla fine, quando neppure il calzolaio poteva fare qualcosa, Laurent non ne aveva mai visto un paio nella pattumiera della cucina, tra gli scarti di verdura. Scomparivano misteriosamente. Nonostante queste considerazioni, che lo riportavano alla sua vita di un tempo, era comunque possibile che una donna si fosse sbarazzata della propria borsa. D’altra parte, che quella borsa in perfetto stato si trovasse là su un bidone della spazzatura sembrava far pensare a un evento piú preoccupante. Un furto, per esempio. Laurent la soppesò. Aprà un poco la lampo dello scomparto centrale, giusto per constatare che conteneva davvero molti «effetti personali», come si suole chiamarli. Stava chinandosi per esaminare l’interno quando da un portone uscà una giovane donna trascinando un trolley. Oltrepassò Laurent e si voltò. Incrociando il suo sguardo la donna accelerò impercettibilmente e scomparve dietro l’angolo. Di colpo lui avvertà fino a che punto quella situazione potesse sembrare sospetta: un uomo solo, spettinato e con la barba lunga, che apre una borsetta su un bidone della spazzatura… L’aveva richiusa in fretta e furia. L’interrogativo che ormai si poneva era quasi di natura morale: prenderla o tirare dritto? Da qualche parte, in città , una donna si è senz’altro fatta scippare e molto probabilmente ha perso ogni speranza di recuperare la sua borsa. Sono l’unico a sapere dove sia, si disse Laurent, e se la lascio qui verrà distrutta dai netturbini o rubata di nuovo. Si decise: la afferrò e tornò indietro. Il commissariato distava solo dieci minuti a piedi. L’avrebbe consegnata lÃ, avrebbe compilato un paio di moduli e poi sarebbe andato a sedersi al bar.
Una presenza strana. Come un animale da compagnia che ti hanno affidato e che acconsente a seguirti solo con la massima circospezione. Laurent stringeva la tracolla come se fosse un guinzaglio, dopo averla un po’ ripiegata nel palmo della mano per evitare che la borsa oscillasse vistosamente davanti a tutti. Trasportava un oggetto che non era suo, che non c’entrava niente con la sua spalla. Un’altra donna aveva abbassato lo sguardo sulla borsa per poi risollevarlo su Laurent. Mano a mano che procedeva lungo il boulevard il senso di disagio aumentava. Ora aveva l’impressione che tutti i passanti che incrociava gli lanciassero occhiate in tralice e cogliessero in una frazione di secondo cosa avesse di anomalo quell’immagine: un uomo con una borsetta. Color malva, per giunta. Non immaginava che andare in giro con quell’accessorio sarebbe stato cosà imbarazzante. Eppure ricordava che qualche volta Claire gli aveva affidato la borsa, giusto il tempo di risalire in casa a prendere le sigarette o di entrare nella toilette di un bar. Allora Laurent si ritrovava per strada con una borsetta. Provava, è vero, una sorta di divertito imbarazzo, ma non a lungo, perché Claire ricompariva subito a recuperarla. In quei brevi istanti gli passavano accanto donne che riconoscevano quell’attributo di una loro consorella, ma non gli sembrava di cogliere diffidenza nei loro occhi, solo un lampo di ironia. Era un tizio fermo per strada che aspettava sua moglie. Era evidente, come se avesse portato un cartello da uomo-sandwich con la scritta: «Mia moglie torna subito». Un gruppo di ragazze, liceali in jeans e Converse, si scostò al suo passaggio e Laurent sentà un risolino seguito da una sghignazzata generale. Ridevano di lui? Preferiva non saperlo. Allo sberleffo seguiva il sospetto? Attraversò e decise di raggiungere il commissariato per i vicoli.
La sala d’attesa dalle pareti grigioline prendeva luce da una finestra con i vetri smerigliati, senza maniglia. Sedie di plastica, un tavolo di formica e due uffici con le porte spalancate: lo spazio concesso alle denunce di scippo non sembrava altro che il limbo delle borsette scomparse. Cinque donne, di età diverse, stavano sedute in silenzio. In uno degli uffici una vecchia signora con il bastone raccontava singhiozzando il furto della propria; aveva un grosso cerotto sopra l’arcata sopraccigliare. L’uomo coi capelli bianchi che l’accompagnava, imbarazzato, non sapeva piú dove guardare. Laurent si trovava in uno dei purgatori della vita, quei luoghi dove si spera di non dover mai entrare: pronto soccorso, dogana aeroportuale, centro di riabilitazione… davanti alle cui facciate si passa pensando che si sta meglio fuori, persino quando piove. Comunque non rivedremo mai le nostre borsette, osservò ad alta voce una brunetta che leggeva «Voici». Passò un giovane brigadiere con un fascio di fotocopie tra le mani. Mi scusi, disse Laurent… Ho riportato una borsetta. Le cinque donne in attesa alzarono gli occhi su di lui. Si rivolga ai colleghi, rispose quello sbrigativamente indicando uno degli uffici. Un uomo robusto con la testa rasata e occhi piccoli e infossati si stava alzando per riaccompagnare alla porta una donna. Posò lo sguardo su Laurent, lui indicò la borsa color malva. Ho riportato una borsetta che ho appena trovato per strada. Ecco un bel gesto di civismo, disse l’altro. Aveva pronunciato la frase con voce virile, aggiungendo: Vieni a vedere, Amélie. Una biondina grassottella uscà dallo stesso ufficio e si avvicinò. Dicevo a questo signore che è un bel gesto di civismo – sembrava che la formula gli piacesse. Ci riporta una borsetta. Ah sÃ, che bravo, rincarò Amélie. Laurent avvertà il rispetto ...