Quando lo vide, Kuro sembrò non capire chi fosse, cosa stesse succedendo. In un attimo cancellò ogni espressione dal viso. Spinse sulla fronte gli occhiali da sole e rimase a fissare Tsukuru senza dire nulla. Tornava a casa da una passeggiata fatta dopo pranzo con le figlie e insieme al marito trovava un uomo che sembrava giapponese. Non ricordava di averlo mai visto.
Teneva per mano la bambina piú piccola, che doveva avere tre anni. A fianco c’era la sorella, di due o tre anni piú grande. Le bimbe indossavano dei vestitini a fiori uguali, avevano gli stessi sandali di plastica. La porta era rimasta aperta, si sentiva il cane abbaiare tutto contento. Edvard sporse fuori la faccia e gli disse qualcosa. Il cane smise subito e si accucciò sul pavimento del portico. Le bambine, imitando la madre, guardavano Tsukuru senza dire una parola.
Kuro non era cambiata molto dall’ultima volta che l’aveva vista, sedici anni prima. Soltanto, nella sua fisionomia, la rotondità dell’adolescenza aveva lasciato il posto a dei tratti piú risoluti. Era sempre stata una persona forte, fin da ragazza, ma il suo sguardo aperto, senza ombre, adesso appariva piú riflessivo. I suoi occhi dovevano aver visto tante cose che restavano celate nel suo cuore. La bocca aveva un’espressione decisa, l’abbronzatura dava al suo viso un’aria sana, i capelli neri e lisci le ricadevano sulle spalle, ma la frangetta era tenuta su da una forcina, in modo da lasciare scoperta la fronte. I seni sembravano piú sviluppati di quando era ragazza. Sopra il vestito di cotone azzurro in tinta unita, portava uno scialle color crema. Ai piedi aveva delle scarpe da tennis bianche.
Kuro guardò il marito, come per chiedergli spiegazioni. Edvard però taceva, si limitò a scuotere adagio la testa. Lei tornò a osservare Tsukuru. Poi si morse leggermente le labbra.
Quella che Tsukuru aveva davanti agli occhi era una donna sana e vigorosa, che aveva fatto una vita del tutto diversa dalla sua. Tsukuru non poteva fare a meno di sentire molto forte il peso di questa differenza. In piedi davanti a lei, aveva l’impressione di comprendere tutta l’importanza che avevano sedici lunghi anni. Ci sono cose al mondo che solo la figura di una donna può trasmettere.
Il viso di Kuro, che stava guardando Tsukuru, si contrasse leggermente. Le labbra, come percorse da un’onda, ebbero un fremito, poi si piegarono di lato. Una fossetta le apparve sulla guancia destra. Ma non era esattamente una fossetta. Era un piccolo solco che cercava di nascondere una viva sofferenza. Un’espressione che Tsukuru conosceva bene. Era l’espressione che Kuro prendeva sempre quando stava per fare una battuta ironica su qualcuno. Adesso però non voleva fare dell’ironia: cercava soltanto di trovare conferma a una vaga supposizione.
– Tsukuru? – chiese, dando finalmente un nome alle sue supposizioni.
Tsukuru fece cenno di sí.
La prima reazione di Kuro fu di stringere a sé la figlia piccola, come per proteggerla da una minaccia. La bambina, sempre con lo sguardo rivolto verso Tsukuru, si appiccicò alla gamba della madre. La sorella rimase immobile dove si trovava, poco distante. Edvard andò accanto alla figlia maggiore e le accarezzò con dolcezza i capelli. Capelli biondo scuro. La piú piccola invece li aveva neri.
Tutti e cinque rimasero per qualche secondo fermi com’erano, senza parlare. Edvard che accarezzava i capelli della figlia maggiore, Kuro con un braccio intorno alla spalla della figlia piú piccola, e Tsukuru da solo in piedi dall’altra parte del tavolo. Sembrava posassero per un quadro. Al centro del quale c’era Kuro: lei, o piuttosto il suo corpo, era il punto focale della scena racchiusa nella cornice.
Fu la prima a muoversi. Si staccò dalla figlia, si tolse gli occhiali da sole che aveva sollevato sulla fronte e li posò sul tavolo. Poi prese la tazza del marito e bevve un sorso del caffè ormai freddo che vi era rimasto. Fece una smorfia, come se si chiedesse che razza di schifezza stesse mai bevendo.
– Vuoi del caffè? – le chiese in giapponese il marito.
– Sí, per favore, – rispose lei senza guardarlo. Poi si sedette al tavolo.
Edvard andò di nuovo alla macchina del caffè. Le due bambine, intanto, avevano imitato la madre sedendosi su una panca di legno sotto la finestra. Poi si concentrarono su Tsukuru, le facce rivolte in su.
– Sei veramente Tsukuru? – mormorò Kuro.
– Sí, sono davvero io.
Lei socchiuse gli occhi e lo fissò.
– Sembra che tu stia vedendo un fantasma, – disse Tsukuru. Voleva scherzare, ma le sue parole non suonarono come una battuta nemmeno a lui.
– Sei molto cambiato, – fece Kuro.
– Lo pensano tutti quelli che mi rivedono dopo tanto tempo.
– Sei molto dimagrito, sei… sembri diventato adulto.
– Forse perché lo sono diventato sul serio, – sorrise Tsukuru.
– Già, può darsi.
– Tu invece non sei cambiata quasi per niente.
Kuro scosse piano la testa, ma non disse nulla.
Il marito posò la tazza sul tavolo, una piccola tazza cilindrica che doveva aver fatto lei stessa. Kuro ci mise una zolletta di zucchero, girò col cucchiaino, poi bevve lentamente un sorso.
– Senti, vado un momento in città con le bambine, – disse Edvard in tono gioviale. – Non abbiamo quasi piú niente da mangiare, e devo fare il pieno di benzina.
Kuro si voltò verso di lui e annuí.
– Sí, d’accordo. Per favore, – disse.
– Hai bisogno di qualcosa?
Lei scosse la testa in silenzio.
Edvard si mise in tasca il portafoglio, prese le chiavi della macchina appese alla parete, e disse qualcosa alle figlie in finlandese. Le bambine fecero una faccia contenta e si alzarono immediatamente dalla panca. Tsukuru colse la parola aisukurīmu. Forse c’era stata la promessa di un gelato una volta terminate le commissioni.
Tsukuru e Kuro, in piedi nel portico, li guardarono salire sul furgoncino Renault. Edvard aprí il portellone posteriore e fece un fischio. Il cane accorse scodinzolando e saltò sul ripiano posteriore. Edvard, durante la manovra, si sporse dal finestrino e salutò, dopodiché la vettura bianca si allontanò e scomparve tra gli alberi. Tsukuru e Kuro rimasero fermi dov’erano, lo sguardo di entrambi rivolto in quella direzione.
– Sei venuto con quella Golf? – chiese Kuro. E indicò l’utilitaria blu poco distante.
– Sí. Da Helsinki.
– Come mai eri a Helsinki?
– Per vedere te.
Kuro socchiuse di nuovo gli occhi e scrutò il viso di Tsukuru, come se cercasse di decifrare una cartina muta.
– Mi stai dicendo che sei venuto apposta in Finlandia per incontrare me? Solo per questo?
– Esattamente.
– Dopo sedici anni di silenzio?
– A essere sincero, è stata la mia ragazza a suggerirmelo. È stata lei a dirmi che era venuto il momento di parlare con te.
Di nuovo Kuro fece quella smorfia che lui conosceva bene.
– Ah, ecco, mi pareva! – Adesso c’era una punta di divertimento nella voce. – La tua ragazza ti ha detto che era venuto il momento di parlare con me. Cosí hai preso l’aereo a Narita e sei venuto fin nella lontana Finlandia! Senza avvisare, senza sapere se mi avresti trovata o no.
Tsukuru non rispose subito. Si sentiva solo la barca sbattere ogni tanto contro il molo. Ma il vento era debole e non sembrava sollevare onde molto alte.
– Ho pensato che se ti avessi avvertita prima, magari avresti rifiutato di vedermi.
– Perché mai? – disse Kuro come se la cosa la sorprendesse. – Siamo amici, noi, no?
– Lo eravamo. Adesso non so se lo siamo ancora.
Kuro sospirò piano, gli occhi rivolti al lago che si intravedeva fra gli alberi.
– Mio marito e le bambine non torneranno prima di un paio d’ore. Abbiamo il tempo di parlare di tante cose.
Entrarono in casa e si sedettero al tavolo, uno di fronte all’altra. Kuro si tolse la forcina che le tratteneva i capelli. La frangetta cadde a coprirle la fronte: cosí assomigliava di piú alla Kuro di un tempo.
– Ho solo un favore da chiederti, – disse. – Non chiamarmi piú Kuro. Preferisco che tu mi chiami Eri. E anche Yuzuki, non chiamarla piú Shiro. Possibilmente, vorrei che tu non usassi piú quei nomi.
– Non sono piú validi?
Eri fece cenno di no.
– Quanto a me, il nome Tsukuru ti va ancora bene?
– Sei sempre stato «Tsukuru», – disse Eri con un risolino. – Certo che mi va bene. Tsukuru che costruisce le cose. Tazaki Tsukuru che non ha colori.
– A maggio sono andato a Nagoya, e ho parlato prima con Ao e poi con Aka. Loro posso continuare a chiamarli cosí?
– Sí, per loro va bene. Solo per me e per Yuzu, vorrei che tu usassi i nostri nomi.
– Li ho visti separatamente. Non abbiamo parlato a lungo, però.
– Stanno bene?
– Sí, mi è sembrato che stessero bene, – disse Tsukuru. – Anche sul lavoro, pare che se la cavino egregiamente.
– Ao vende automobili Lexus, e Aka si occupa di formare soldatini per le aziende nella nostra cara vecchia Nagoya.
– Proprio cosí.
– E tu, tu cosa fai? Come ti vanno le cose?
– Bene o male me la cavo, – disse Tsukuru. – Lavoro a Tōkyō in una compagnia ferroviaria, mi occupo delle stazioni.
– Già, è circolata la voce tempo fa. Che Tazaki Tsukuru era impegnatissimo a costruire stazioni ferroviarie a Tōkyō, – fece Eri. – E in piú hai una ragazza sveglia.
– Per il momento…
– Insomma, sei fidanzato o no?
– Piú o meno.
– Segui sempre il tuo ritmo, tu.
Tsukuru non rispose.
– E di cosa hai parlato con Ao e Aka, a Nagoya? – chiese Eri.
– Di quello che è successo fra noi, – rispose Tsukuru. – Di quello che è successo sedici anni fa, e di quello che è successo in questi sedici anni.
– E magari è stata sempre la tua ragazza, a suggerirti di andare a parlare con loro due.
Tsukuru fece cenno di sí.
– Ha detto che c’erano delle cose che dovevo risolvere una volta per tutte. Cose che riguardano il passato. Altrimenti… altrimenti non sarei mai riuscito a liberarmene.
– Ha sentito che avevi qualche problema…
– Sí, l’ha percepito.
– E pensa che sia qualcosa che influenza in modo negativo la vostra relazione.
– Forse, – disse Tsukuru.
Eri pose le mani intorno alla tazza, come per accertarsi che fosse ancora calda. Poi bevve un altro sorso di caffè.
– Quanti anni ha?
– Due piú di me.
Eri annuí.
– Già. In effetti, può darsi che per te sia meglio stare con una donna piú grande.
– Può darsi, – disse Tsukuru.
Per un po’ i due tacquero.
– Ci portiamo dietro un sacco di storie, noi, – disse alla fine Eri. – E ogni storia è legata a tante altre ancora, e ogni volta che proviamo a sistemarne una, scombiniamo quelle accanto. Non è facile risolvere le cose una volta per tutte, temo. Non è facile né per te, né per me.
– Lo so che non è facile, – disse Tsukuru. – Ma questo non vuol dire che sia meglio lasciare i problemi irrisolti. Si possono seppellire i ricordi, metterci un coperchio, ma non si può cambiare il corso della storia. È quello che sostiene la mia ragazza.
Eri si alzò, andò alla finestra e la aprí sollevando il vetro. Poi tornò a sedersi al tavolo. Il vento mosse le tende, si udí lo sbatacchiare della barca contro il molo. Eri si ravviò i capelli sulla fronte con le dita, posò entrambe le mani sul tavolo e guardò Tsukuru.
– Ci sono anche dei coperchi sigillati, sai? Dei coperchi che non si possono piú sollevare, – disse.
– Non voglio forzare nulla, non pretendo tanto. Ma perlomeno vorrei vedere con i miei occhi di che genere di coperchio si tratta.
Eri osservò le proprie mani posate sul tavolo. Erano piú grandi e robuste di quanto lui ricordasse. Le dita erano lunghe, le unghie curate. Tsukuru le immaginò intorno a un pezzo che girava sul tornio.
– Hai detto che sono molto cambiato, – disse. – È vero, lo so anch’io. Sedici anni fa, quando sono stato espulso dal nostro gruppo, per qualche tempo, per sei mesi, ho pensato soltanto a morire. Sul serio, solo a questo. Non avevo nient’altro in testa, non riuscivo a pensare ad altro. Non vorrei sembrarti esagerato, ma sono davvero arrivato a un passo dal baratro. Sull’orlo del baratro vi ho guardato dentro e non riuscivo piú a distogliere lo sguardo da quell’abisso. In qualche modo sono riuscito a tornare indietro, nel mondo, ma se quella volta fossi morto, non ci sarebbe stato nulla di sorprendente. Adesso, ripensandoci, capisco che probabilmente ero uscito di senno. Soffrivo di depressione o di non so quale altra forma di nevrosi. La mia testa aveva qualcosa che non andava. Di questo sono sicuro. Però non è che fossi confuso. Anzi, ero lucidissimo. Nella mia mente il segnale era limpido, senza interferenze. Era davvero una condizione strana, a vederla da qui. Passati quei sei mesi, – continuò Tsukuru guardando le mani di Eri...