1.
Su tre cose si regge il mondo: la giustizia, la verità e la pace. Cosí la Mishnah (Avot 1, 18), che commenta: le tre cose sono in realtà una sola, la giustizia. Infatti, appoggiandosi la giustizia sulla verità, segue la pace.
La giustizia.
2.
Vale il detto di Agostino, ricordato dal cardinale Martini nell’introdurre le sue considerazioni sul tempo, argomento dell’XI «Cattedra dei non credenti» (Figli di Crono, Cortina, Milano 2001, p. 138), un detto che si addice a tutte le esperienze esistenziali profonde: le conosco, se non m’interrogo; se m’interrogo, non le conosco piú. I discorsi, forse, si addicono alla superficie, ma il profondo richiede concentrazione e silenzio. Con le parole, tuttavia, cerchiamo di intenderci. E questo, proprio in materia di giustizia, è la cosa piú necessaria. Da questa piccola premessa, un compromesso pratico: parliamo, ma poco.
Definire la giustizia?
3.
Innanzitutto, manca una definizione riconosciuta di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto. L’intera storia dell’umanità è una lotta per affermare concezioni della giustizia diverse e perfino antitetiche, «vere» solo per coloro che le professano. Per lo piú, si è venuti a questo: che giusto è ciò che corrisponde alla propria visione della vita in società (la giustizia, si dice, sta necessariamente in una relazione sociale), ingiusto ciò che la contraddice. Cosí, però, la giustizia rinuncia alla sua autonomia e si perde negli ideali o nelle ideologie o nelle utopie. Si riduce a un artificio retorico per valorizzare questa o quella visione politica: la giustizia proletaria, la giustizia etnica o völkisch del nazismo, la giustizia borghese ecc., ciascuna presentata come giustizia autentica, alternativa alle altrui contraffazioni della giustizia. La terribile legge di pratile sul tribunale rivoluzionario (10 giugno 1794), che significò la ghigliottina per migliaia di francesi accusati di tradimento e privati del diritto di difendersi, fu giustificata con l’argomento che la condanna dei colpevoli era da lasciare alla «coscienza dei giurati, illuminata dall’amor di patria», essendo inteso che il fine della giustizia era «il trionfo della Repubblica e la rovina dei suoi nemici» (art. VIII): pura e semplice lotta politica, dunque, mascherata e nobilitata dal richiamo alla giustizia. Proprio l’esempio di questa, come di qualunque altra, giustizia rivoluzionaria ci dice qualcosa di piú e di piú sconfortante, qualcosa che i realisti conoscono bene: dietro l’appello ai valori piú elevati e universali è facile che si celi la piú spietata lotta per il potere, il piú materiale degli interessi. Quanto piú puri e sublimi sono quei valori, tanto piú terribili sono gli eccessi che giustificano.
4.
Perfino i grandiosi edifici concettuali dei maestri del diritto naturale razionalistico del Sei-Settecento, che pure pretendevano di fondarsi sull’assoluto universale della ragione umana, mostrano il loro lato relativo e storicamente determinato. Siamo loro debitori della fondazione delle moderne dottrine dei diritti umani, per secoli oggetto di una feroce contesa tra mondo laico e mondo cristiano e all’interno dello stesso mondo cristiano (si pensi alla grande questione della libertà di coscienza). I diritti umani sono divenuti patrimonio comune dell’odierna cultura politica occidentale (anche se troppo spesso solo in teoria e solo in casa propria) e ciò è avvenuto da quando le Chiese cristiane hanno assegnato loro un posto eminente nella teologia della fratellanza umana e della dignità dei figli di Dio. Ma, per quanto un’alleanza in nome dei diritti umani sia non solo possibile ma anche in atto, la loro diversa fondazione, nella sovranità della ragione individuale o nell’impronta divina che segna l’uomo (Gn 1, 27), spesso porta e ancora piú spesso probabilmente porterà – sotto la spinta crescente dell’alleanza tra tecnologia ed economia – a sviluppi divergenti proprio nel modo di intendere la giustizia su punti cruciali. Pensiamo ai contrasti attuali su temi come la nascita, la vita e la morte e sulle pretese della scienza di signoreggiare sull’una, sull’altra e sull’altra ancora. Non basta dunque che da parte di tutti si parli di diritti umani perché si sia tutti d’accordo sulla giustizia. Anche le dottrine che concernono i diritti umani, come ogni altra dottrina della giustizia, non si sottraggono alla pluralità dei punti di vista e delle credenze e non sono immuni dall’accusa o dal sospetto di mettere una maschera su meri interessi, talora brutalmente solo economici. Neppure dunque i diritti umani valgono pacificamente, nemmeno nel mondo occidentale, come fondamento obiettivo e indiscusso della giusta convivenza tra gli uomini.
5.
Analoga difficoltà incontrano anche le varianti utilitaristiche delle concezioni razionaliste della giustizia, la cui sintesi trova espressione nella formula di Beccaria: «la massima felicità divisa nel maggior numero». La sua veridicità però è solo apparente. Saremmo infatti concordi, credo, nel ritenere che la giustizia parli piuttosto in favore del «minor numero» degli esclusi dalla felicità, e respingeremmo certamente l’idea, implicita in quella formula, che il bene dei molti sia giusto anche se contempla l’infelicità di pochi; saremmo perfino tutti d’accordo con Ivan Karamazov (nel celebre dialogo col fratello Alëša che introduce alla Leggenda del Grande Inquisitore), che finanche una sola lacrima di un bimbo innocente è prezzo troppo alto da pagare persino per l’armonia universale. Non è dunque questa una definizione della giustizia. Ma anche se lo fosse, quella formula è comunque vuota di contenuto. Gli utilitaristi non sospettano che la felicità è un’aspirazione sul cui contenuto ci si accapiglia da sempre e non considerano che mai la loro idea si è tradotta in pratica per generale consenso, senza prepotenza e violenza degli uni sugli altri.
6.
Sotto quest’ultimo aspetto, la definizione utilitaristica non differisce da ogni altra che, per affrancarsi da contenuti storicamente determinati e quindi politicamente controversi, pretende di valere universalmente. Cosí, quella celeberrima, adottata dai giureconsulti romani e attribuita a Ulpiano (Digesto, 1.1.10), unicuique suum: una formula tautologica e vuota, che appunto perché lascia indeterminato ciò che è decisivo, la nozione di suum, può facilmente essere fatta propria da chiunque – il superuomo nietzschiano, come l’apostolo della fratellanza umana; il combattente per il comunismo universale come il fautore della libertà dello stato di natura o il fanatico dello stato razzista. Come tutte quelle puramente formali, anche questa definizione di giustizia rinvia a chi dispone della forza per stabilirla. Piú che formula della giustizia, è massima del potere.
7.
E lo stesso può dirsi delle odierne eredi del pensiero giusnaturalistico e utilitaristico, le «analisi logiche» del concetto di giustizia che, da determinati postulati circa l’uguaglianza e le naturali aspirazioni dell’essere umano – inevitabilmente astratti e ideologici – pretendono di costruire conseguentemente, attraverso «esperimenti mentali», cioè passaggi razionalmente necessari, interi sistemi normativi. Le piú recenti concezioni formali hanno assunto caratteri procedurali; esse mirano a stabilire non «che cosa sia» la giustizia ma «come sia possibile» che i singoli pervengano a definirla senza cadere in errore. Il compito di queste teorie della giustizia è di determinare le condizioni che consentono di fare un uso retto della propria facoltà di giudizio: ad esempio, che sia garantita l’uguaglianza delle posizioni iniziali di ciascuno e tutti valutino i problemi di giustizia ignorando quelli che possono essere i vantaggi e gli svantaggi immediati che per gli uni e per gli altri derivino da questa o quella decisione: uguaglianza e ignoranza dovrebbero assicurare che le valutazioni non siano distorte dall’egoismo. Tale «posizione iniziale» però è totalmente irrealistica e l’assunto che le divergenze tra gli esseri umani circa la giustizia dipendano esclusivamente da distorsioni, cioè da incidenti nei percorsi razionali individual...