Il nero e l'argento
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Il nero e l'argento

  1. 128 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il nero e l'argento

Informazioni su questo libro

Questa è la storia di un amore giovane. Di una coppia felice e inesperta, spaventata di scoprire, giorno dopo giorno, le molteplici forme dell'abbandono. Perché anche le famiglie possono soffrire di solitudine, proprio come le persone. Ad accudire in silenzio tutte le incertezze, oltre a prendersi cura del loro bambino, ci ha sempre pensato la signora A. Per questo, quando arriva un male a portarsela via, si spalanca in casa un vuoto improvviso. Nora e suo marito devono ancora accorgersi che il coraggio della signora A., ormai, appartiene anche a loro. È dentro le stanze che le famiglie crescono: strepitanti, incerte, allegre, spaventate. Giovani coppie alle prime armi, pronte ad abbracciarsi o a perdersi. Come Nora e suo marito. Ma di quelle stanze bisogna prima o poi spalancare porte e finestre, aprirsi al tempo che passa, all'aria di fuori. «A lungo andare ogni amore ha bisogno di qualcuno che lo veda e riconosca, che lo avvalori, altrimenti rischia di essere scambiato per un malinteso». È cosí che la signora A., nell'attimo stesso in cui entra in casa per occuparsi delle faccende domestiche, diventa la custode di una relazione, la bussola per orientarsi nella bonaccia e nella burrasca. Con le pantofole allineate accanto alla porta e gli scontrini esatti al centesimo, l'appropriazione indebita della cucina e i pochi tesori di una sua vita segreta, appare fin da subito solida, testarda, magica, incrollabile. «La signora A. era la sola vera testimone dell'impresa che compivamo giorno dopo giorno, la sola testimone del legame che ci univa. Senza il suo sguardo ci sentivamo in pericolo». Ci sono molti modi per raccontare una storia d'amore. Paolo Giordano ha scelto la via piú sensibile: registrare come un sismografo le scosse del quotidiano, gli slanci e i dolori, l'incapacità e il desiderio. Solo un piccolo naufragio, il primo fra i tanti che una coppia si troverà ad affrontare.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
Print ISBN
9788806221614

La tabellina del sette

Fra gli articoli incollati nella credenza della signora A. ce n’erano alcuni che mi avevano incuriosito in modo speciale: un americano, Terry Feil, era morto a trent’anni di distanza per via delle radiazioni assorbite a Nagasaki, dov’era sbarcato appena dopo l’esplosione della bomba; nella Gran Bretagna degli anni Settanta morivano cinquantamila persone l’anno a causa di patologie polmonari e cardiovascolari, s’ipotizzava – secondo l’articolo – che il consumo di nicotina avesse a che fare con i decessi; un farmaco dannoso era rimasto in commercio nel nostro paese per oltre cinque anni. Radiazioni ionizzanti, carcinomi polmonari, farmaci: era come se l’ombra della morte, che a quel tempo anneriva già in parte la visuale di Renato, avanzasse verso la signora A. e lui ne fosse consapevole. Davanti ai ritagli di giornale conservati con una simile meticolosità, mi era nato il sospetto che avesse il presagio della fine della moglie e la temesse piú della propria, che in quelle cronache all’apparenza scollegate cercasse un disegno e una possibile cura, una via per portarla in salvo.
E invece, trentacinque anni dopo, la signora A. sta offrendo il braccio sinistro a un ago nel quale transita una concentrazione preoccupante di isotopi instabili del fluoro. Ha sempre avuto vasi sanguigni sottili e pallidi, il che rende i prelievi e le iniezioni una tortura, ma oggi è piena di ottimismo e non si preoccupa dei tentativi maldestri dell’infermiera. Se fa caso a come si sente da un paio di settimane – di nuovo energica, grintosa, con la pelle liscia e quel briciolo di appetito che le ha permesso di riguadagnare velocemente due chili –, non può che convincersi di essere guarita o per lo meno di avere imboccato la via rapida del miglioramento. La PET lo confermerà senz’altro. Non la sfiora che il merito della ripresa vada tutto alle dosi abnormi di cortisone che assume da mesi, il dubbio non le sorge neppure quando, al termine dell’esame, incrocia lo sguardo imbarazzato del tecnico che dall’interno del cubicolo protetto da pareti di piombo ha visto comporsi sul monitor il suo corpo diafano, il fantasma di una donna che si è acceso in molte zone oltre il polmone: sulla vertebra L1, sull’ileo e sul collo femorale destro. Le cellule tumorali hanno emesso pacchetti di positroni che nell’annichilazione con i loro gemelli negativi si sono convertiti in luce, segno inequivocabile che il cancro ha ormai imboccato la via del sangue e sta prendendo pieno possesso dell’organismo.
Ma la signora A. non lo sa ancora e per il momento prova sollievo, un sollievo alla cui origine c’è anche una ragione diversa dal benessere fisico, che la fa vergognare un po’. Una settimana fa il pittore è morto, dolcemente, nel mezzo del sonno. La sera aveva mangiato e bevuto di gusto e la mattina non si è svegliato. Questo significa, oltre all’accorciarsi inesorabile dell’elenco di persone con le quali ha condiviso il passato, che l’uccello del paradiso non era venuto per lei: entrambi si erano sbagliati. È una buona notizia, inutile fingere il contrario, e comunque il pittore non ha nulla di cui lamentarsi: – Per essere un nano ha tirato avanti ben oltre il previsto, – è il commento sommario della signora A., – e se l’è goduta, con tutta quella gloria e le ragazze. Se l’è goduta eccome!
Credo che nel periodo della PET, prima di essere informata del suo esito disastroso, Nora fosse partecipe dell’ottimismo infondato della signora A., che in un certo modo lo incoraggiasse perfino, anche se quando gliel’ho chiesto ha negato, sostenendo che non si trattava di essere ottimista e che, in ogni caso, l’idea dell’agopuntura non era stata sua, ma di sua madre.
– L’agopuntura? L’avete sul serio portata a fare l’agopuntura? E quando esattamente?
– Prima che arrivasse il referto.
– Lei aveva un cancro in stadio avanzato e voi… non posso crederci.
La confessione tardiva di Nora è arrivata una sera in cui avevamo a cena una coppia di amici non troppo stretti (una figlia della stessa età di Emanuele, una situazione di vita affine e un’accettabile vicinanza geografica). Succede piú spesso di quanto non vorremmo che certe omissioni emergano tra noi mentre siamo in compagnia, quasi volessimo assicurarci dei testimoni, dei complici, o piú vigliaccamente cercassimo di limitare le reazioni possibili dell’altro con una presenza esterna.
Nora si è messa sulla difensiva: – Se è inefficace come credi tu, allora non fa alcuna differenza, mi pare.
Il ragionamento era ineccepibile, eppure mi sembrava che qualcosa di sbagliato ci fosse, che cadere nella trappola della superstizione, convincersi dell’esistenza di un rimedio facile fosse l’ennesima presa in giro nella quale il tumore aveva coinvolto la signora A. I sedici mesi di calvario non mi erano stati sufficienti per decidere se il favore piú grande che potevamo farle fosse di avvicinarla alla verità o, al contrario, di fomentare in lei una speranza fittizia, ma ero certo piú orientato verso un crudo realismo.
– Cosa preferireste voi? – ho domandato ai nostri ospiti. – Con una diagnosi del genere, intendo. Non vorreste avere almeno il privilegio di non essere scambiati per degli sciocchi?
Si sono schermiti entrambi. Percepivano che ero piú coinvolto di quanto non dessi a vedere e, forse, il cancro di una persona vicina non sembrava loro argomento da dessert.
– Io tengo alla mia lucidità piú che a tutto il resto, – ho detto, – non mi andrebbe di tradirla proprio alla fine.
– Che tristezza, – ha commentato Nora, dando a intendere che non solo stavo mettendo in imbarazzo i nostri amici, ma l’avevo appena offesa.
– Perché lo trovi triste?
Ha raccolto le ciotole vuote con delle movenze brusche. – Lascia perdere. Tanto non riesci a capire.
Rimasti soli, ho cercato il suo perdono, facendola ridere. Le ho rammentato di quanto avesse insistito, anni prima, perché consultassimo un pediatra vegano per Emanuele: – Te lo ricordi? Voleva che lo svezzassimo con semi di cumino e miglio, come un pollo, – e della volta in cui mi aveva mandato da un celebre ipnotista della città per curare l’insonnia (suggerimenti, entrambi, di sua madre). Con l’ipnosi non ero caduto in stato di trance, anzi, ero rimasto piú che mai vigile per tutto il tempo. «Che cosa visualizza?» mi domandava la voce baritonale del dottore.
«Niente, mi dispiace».
Percepivo il suo nervoso aumentare e mi agitavo a mia volta perché mi sembrava di mancargli di rispetto. A un certo punto del rilassamento aveva preso a girarmi forte la testa. Lui si era subito aggrappato a quel sintomo, interpretando il capogiro come il residuo di un disturbo cocleare: «Scommetto che ha avuto gli orecchioni».
«In effetti. A cinque anni, però».
«Ah, ecco. Era spaventato vero?»
«Non saprei dire».
«Certo che era spaventato! Pensi a quel bambino indifeso che sente le vertigini per la prima volta, non ha idea di ciò che gli capita e ha paura, tanta paura. Lo vede?»
«Non…»
«Lo prenda in braccio».
«In braccio? Chi?»
«Prenda in braccio quel bambino. Lo culli dolcemente, lo accarezzi. Si prenda cura del se stesso di allora, gli sussurri di non temere…»
Uno due tre!, e mi aveva svegliato, soddisfatto.
– Tutti quelli che ho sempre scambiato per traumi atroci potrebbero essere una conseguenza degli orecchioni, – dicevo a mia moglie che finalmente sorrideva, – capisci cosa mi avete fatto scoprire, tu e quella visionaria di tua madre? Vieni qui, un po’ piú vicino, aiutami a cullare il bambino sofferente che c’è in me.
Fatto sta che dall’agopuntore ci erano andate sul serio, Nora, sua madre e la signora A., tutte e tre insieme dal dottore cieco che aveva portato mia suocera a smettere di fumare e successivamente a smettere di ingozzarsi di gelato in piena notte, le aveva risolto la lombalgia, le emicranie divenute atroci dopo la separazione, un episodio di emorroidi e certi problemi generici di autostima.
– Come può un agopuntore essere cieco? – mi sono permesso di domandarle un giorno.
– È diventato cieco per il diabete. Qualche volta si dimentica di togliere un ago, ma te ne accorgi appena fai la doccia.
Per lo meno, in quell’occasione la signora A. si era spogliata davanti a qualcuno che non poteva constatarne il triste deperimento. Il dottore cercava i punti dove inserire gli aghi, sondando la pelle con i polpastrelli tiepidi e leggerissimi. La signora A. tremava (anche per il freddo), lui se n’era accorto e le aveva appoggiato per qualche secondo i palmi sopra le orecchie, i brividi erano cessati all’istante. Da quanto tempo un uomo non la sfiorava con quella dolcezza? I medici si proteggevano sempre con i guanti ed erano quasi tutti giovani e glaciali, invece l’agopuntore con gli occhi velati… lui aveva un tatto delicato e una bella voce, suadente e profonda.
Le aveva spiegato come nelle volute del padiglione auricolare sia riprodotta la forma di un feto con la testa capovolta, un feto che aspetta di vedere la luce, e di come sia possibile, stimolando opportunamente i centri nervosi di quell’individuo in miniatura, curare il corpo nella sua interezza. La signora A. ascoltava con attenzione, inghiottiva le parole e immaginava la copia rimpicciolita della massa tumorale all’interno del suo orecchio, la immaginava trafitta dall’ago: nel medesimo istante, per magia, anche quella dentro il petto si scioglieva.
– Farà male? – aveva domandato.
– Per niente. Gli aghi sono molto sottili.
– Peccato.
Voleva che la bestia dentro di lei morisse con dolore, che provasse almeno per un attimo ciò che aveva sofferto lei. Era curiosa l’ambivalenza che arrivata a quello stadio dimostrava nei confronti del cancro: ne parlava in certe occasioni come di una parte acciaccata di se stessa, in altre come di una vita aliena installata dentro il suo organismo, da sradicare e basta.
– Ora chiuda gli occhi, – aveva detto il dottore cieco, – pensi a qualcosa di gradevole.
Qualcosa di gradevole. E cosí, per la prima volta dopo tanto tempo, mentre è distesa sull’ennesimo lettino dell’ennesimo studio medico, immobile perché gli aghi che le spuntano dal corpo come a un istrice non si curvino o spostino o conficchino ulteriormente, la signora A. si ricorda del giorno di fine ottobre in cui Renato l’aveva sposata, degli aceri con le foglie rosso sangue, come ferite sul fianco della valle. Portava un vestito che una sarta le aveva confezionato identico a quello di Paola Ruffo di Calabria, ma per renderlo piú personale aveva commissionato una coroncina di boccioli bianchi a una modista di via XX Settembre. Doveva essere ancora tutto dentro l’armadio, l’abito e il telaio della coroncina, insieme al corredo delle nozze che lei aveva subito riposto per poi non osare piú estrarlo. L’afferra una malinconia pungente ripensando alle lenzuola e alle tovaglie, cosí preziose e mai utilizzate per un eccesso di premura.
Poi, chissà per quale collegamento, forse perché lui aveva il vizio di aprire tutti gli sportelli della casa per spiare cosa c’era dentro, la concentrazione della signora A. si sposta su Emanuele. Lo ritrova la mattina in cui si era deciso a staccare le mani dalla gamba della sedia e a muovere tre passi incerti verso di lei, per aggrapparsi infine alle sue calze. Era stata la signora A. ad assistere a quel miracolo domestico. Nora e io ci eravamo offesi in un certo senso, anche perché se n’era vantata a lungo. – Ha iniziato a camminare con me, – proclamava fiera, e partiva a descrivere la scena dal principio. Emanuele l’ha ascoltata ripeterlo cosí tante volte che ha finito per scambiare quel racconto con una memoria: – Sí, sono sicuro. Ho lasciato la sedia e ho camminato fino a lei, mi sono aggrappato alle sue calze –. Da quando Babette è scomparsa, abbiamo rinunciato a contraddirlo.
C’era una frase che la signora A. diceva spesso a proposito di nostro figlio: – Tu prova a metterlo fra dieci altri della sua età. Confronto a lui sembrano tutti degli scoiattoli –. Non si sbagliava, in parte. Fin dalla nascita il corpo di Emanuele è stato proporzionato e armonico, i suoi lineamenti impeccabili, la differenza con i coetanei già visibile quando era attorniato dalle altre culle di plastica dentro il reparto. Nella stanza d’ospedale Nora e la signora A. si complimentavano a vicenda per la forma perfetta della sua testa, cosí piccola e rotonda – il taglio cesareo lo aveva avvantaggiato in questo – e per come la pelle fosse dal principio chiara e uniforme, priva degli arrossamenti che rendevano gli altri neonati un po’ mostruosi.
Alcune settimane piú tardi anch’io, che mi ritenevo immune dallo stordimento, ero caduto nella trappola della sua bellezza. L’ho tenuto incollato a me per tutto il tempo che ho potuto, fino ai quattro o ai cinque anni. Talvolta mi succedeva un incidente vergognoso: stringere il corpo nudo e morbido di mio figlio mi provocava delle manifestazioni incontrollate di eccitamento sessuale. Erano risposte fisiche slegate da qualsivoglia pensiero, ma lo stesso mi lasciavano sgomento e piú di una volta l’ho allontanato per questo. Quando Nora se n’è accorta, ha accarezzato prima me e poi lui: – Non c’è niente di male, – ha detto, – anch’io lo sento con tutti gli organi.
Poi Emanuele è cresciuto, piú in fretta del previsto, e noi ci siamo trovati a voler accelerare la sua maturazione a tutti i costi, senza accorgerci di agire a nostro esclusivo svantaggio. Non era mai abbastanza svelto, non era mai abbastanza responsabile, non ragionava mai in modo sufficientemente strutturato. Soltanto con la signora A. Emanuele si permetteva di regredire alla condizione del bambino piccolo che ancora sentiva di essere. Lei lo teneva in braccio, cullandolo a lungo quando noi non lo facevamo piú da tempo, gli permetteva di essere capriccioso e ripetitivo nelle esternazioni, lo accudiva in ciò che secondo noi avrebbe già dovuto sbrigare in autonomia (ma Nora e io non ci comportavamo allo stesso modo con lei, abbandonandoci alle sue cure?) Forse è stata la sua presenza ammortizzante a impedirmi di vedere Emanuele per chi veramente era: non un prodigio, bensí un bambino nella media se non appena al di sotto, un bambino incline alla permalosità per il quale la comprensione, specie dell’astratto, si accompagna sempre alla fatica, alla paura, alla necessità d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il nero e l’argento
  4. La signora A.
  5. L’uccello del paradiso (I)
  6. Gli orfani
  7. Insonnia
  8. La locandiera
  9. La stanza dei cimeli
  10. Beirut
  11. La tabellina del sette
  12. Inverno
  13. Lo spaventapasseri
  14. I vasi comunicanti
  15. L’uccello del paradiso (II)
  16. Il libro
  17. L’autore
  18. Copyright