Il maestro di Vigevano. Il calzolaio di Vigevano. Il meridionale di Vigevano
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Il maestro di Vigevano. Il calzolaio di Vigevano. Il meridionale di Vigevano

Lucio Mastronardi

  1. 576 pagine
  2. Italian
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Il maestro di Vigevano. Il calzolaio di Vigevano. Il meridionale di Vigevano

Lucio Mastronardi

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«L'universo di Mastronardi ha un nome, dichiarato fin dall'inizio dai titoli in copertina: Vigevano. Non so quanti e quali nessi si possono trovare tra questa Vigevano romanzesca e la Vigevano reale: ma so che come immagine dell'Italia, di trent'anni di storia della società italiana, la Vigevano mastronardiana funziona egregiamente. [...]
Che un risultato di tanta forza sia stato ottenuto da un'esistenza in fragile equilibrio col mondo come quella di Lucio Mastronardi, dalla sua sensibilità di scorticato vivo, dà a quest'opera un carattere ancor piú raro, perché pagine cosí sapienti nel costruire e nel giudicare le storie umane sono state come strappate dal gorgo di sofferenza che Lucio si portò dentro per tutta la vita».
Italo Calvino

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858415610

Il maestro di Vigevano

© 1962 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino
Prima edizione «I coralli» 1962

Parte prima

Sono un maestro elementare e ho famiglia. Ho moglie e figlio, e il mio guadagno è sufficiente per arrivare alla fine del mese. Ada, mia moglie, mi ripete spesso: – Lasciami andare a lavorare! – Oppure:
– A Vigevano lavorano tutte le donne!
Ella vede che mi esaurisco fra scuola e lezioni private e ne profitta: – Perché non mi lasci andare a lavorare?
Comprendo che il suo lavoro sarebbe essenziale all’economia della casa, oltreché delle mie forze; ma il pensiero che mia moglie – moglie di un piccolo borghese – entri in una fabbrica, si metta alla stregua degli operai, mi è insopportabile. – Devi pensare alla casa, – le rispondo.
Nella mia casa non c’è in verità molto da fare. Siamo io, Ada e nostro figlio Rino.
– Sei smorbio e vanitoso, – mi rimprovera Ada.
Mi sono accorto di essere smorbio e vanitoso alcuni giorni fa.
Rino dovrebbe cresimarsi. A Vigevano la Cresima è la grande festa dei ragazzini. In quella mattinata di Cresima il Duomo ne pullula, e sono tutti elegantissimi. Posso mandare mio figlio davanti al vescovo, in mezzo a quel lusso, con una muda appena decente?
Dissi: – Rino, la Cresima la farai un altr’anno!
Rino accondiscese. – Lo dico a don Licodori, – disse.
È sera. Da qualche minuto i bambini che tengo a ripetizione se ne sono andati. L’aria della sala è ancora pregna di loro. Sul tavolo una fresca macchia d’inchiostro si sta asciugando.
Il mio tavolo è pieno di quelle macchie, che osservo con soddisfazione, forse perché mi ricordano il lavoro.
Ho la testa piena di problemi e analisi logica, e numeri e parole.
La mia giornata è finita, penso, aprendo la finestra. Quattro ore di scuola stamattina, altre quattro ore di ripetizioni al pomeriggio. Ho pagato il mio dazio alla vita, penso come al solito a quel momento. Finito di lavorare provo la sensazione che si prova, appunto, dopo che si è pagata una tassa.
Sono un abitudinario, e ormai sono come affezionato alle mie abitudini. A quell’ora è mia abitudine sdraiarmi sul divano e gustarmi l’unica sigaretta della giornata.
È quasi un rito che da dieci anni ripeto tutti i giorni feriali. Ada mi porta una tazza di caffè e quindi accendo la sigaretta.
Mi stendo, ma ecco che qualcuno è sulla porta che mi cerca. Non posso restare sdraiato, non posso bermi il caffè, non posso fumare in pace. Provo un’ingrata sensazione di fastidio.
Don Licodori siede ora davanti a me.
– Le responsabilità che si assume davanti a Dio e a Rino sono gravissime, – disse impacciato ma tranquillo. Le parole contrastavano col suo modo pacato di parlare.
– Un altr’anno!
– Lo sa che se il ragazzo dovesse morire finisce al Limbo?
La sua voce ora si fa incalzante. – Lo sa che la grazia che il Battesimo gli ha data non è completa che con la Cresima?
Mi guarda. Abbasso gli occhi giú fino alle sue scarpe.
Chissà come ci avrà le dita dei piedi, penso.
– Perché non permette che si cresimi?
Mi fissa.
– Perché... sono statale, – borbotto.
– Ma Gesú guarda la veste dell’anima, – risponde lui e la sua voce mi suona nasale, pedante.
– Un altr’anno, – ripeto meccanicamente.
– Ci ripensi. C’è ancora tempo! – risponde lui.
2.
È arrivato venerdí. Lo detesto questo giorno; anzi, detesto la sera del venerdí. Ogni sera mi vado a intrattenere un’ora al caffè, gioco a scopa coi miei amici. Al venerdí non posso andarci: Ada vuole andare al cinema e devo accompagnarla.
Ho guardato la pellicola pensando alla scopa. Il film trattava di una donna di provincia, che fugge a Parigi e riesce a diventare l’amante di pezzi grossi. Durante gli intervalli Ada mi guardava con un’aria provocante. Il marito della donna del film era un impiegato modesto; l’ambiente dove si svolgevano le scene di provincia assomigliava molto a Vigevano. Una piazza nel centro, quelle facce di abitudinari, quell’aria sonnolenta che hanno i piccoli borghesi di provincia, con quelle sfumature di presunzione e di distacco che mi si svelavano dinanzi. Quell’impiegato borghese potevo essere io. Seguivo il film col fiato sospeso, come si trattasse di un giallo. Il film metteva in risalto i miei difetti, le mie abitudini, il catrame. E le ambizioni soffocate di Ada.
Sentivo il suo sguardo bucare l’oscurità della sala. «Questo sei tu», sembrava dicessero i suoi occhi. «E quella sei tu», le rispondeva il mio sguardo.
Al terzo tempo non ne potevo piú. – Andiamo, – le dissi.
– No, – rispose lei.
L’epilogo del film era cosa scontata. La moglie fa le corna al marito, il quale continua nelle sue abitudini provinciali.
Mi sembrava di avvertire un presagio. «Questo film è un avvertimento», mi diceva una voce dentro.
Guardai Ada e la sua faccia ormai amorfa, né brutta né bella, mi tranquillizzò.
«Devo liberarmi dalle abitudini», pensai uscendo dalla sala.
Per tornare a casa Ada volle passare dalla Piazza.
– Di qui facciamo prima, – dissi indicando la strada.
– Dalla Piazza, – insisté lei.
La Piazza a quell’ora assomigliava alla piazza vista nel film. Non dal punto di vista architettonico, naturalmente, ma come atmosfera. Al caffè Sociale un gruppetto di industrialotti se ne stavano stravaccati sulle poltroncine con un’aria soddisfatta e beata. A un tavolo vicino sedeva un grosso industriale con un operaio tirapiedi accanto. E tutti e due ci avevano l’aria contenta di essere vicini: l’industriale sembrava voler mostrare il suo attaccamento agli operai; l’operaio sembrava soddisfatto, come se la ricchezza e la potenza dell’industriale si riflettessero su di lui. Ada mi indicò un tale che scendeva sotto i portici.
– Questo ha messo su una fabbrica di scarpe. Ha un anno meno di te! – disse sibillina. – Era operaro, – seguitò: – ha tentato e ora guadagna venti milioni all’anno!
– Non sapevo che ti contasse i suoi interessi, – risposi a denti stretti.
Ella sorrise sufficiente: – L’ho letto sull’«Informatore Vigevanese»: i redditi Vanoni!
Piú avanti m’indicò un altro. – Quello, vedi, ha un anno piú di te e ha impiantato due fabbriche di scarpe. Ha l’alfetta!
Ci siamo seduti al bar Principe. Accanto a noi il giornalista Pallavicino dell’«Informatore» teneva cattedra a una dozzina di operari.
– Questa Piazza si sta rovinando, – gridava.
– Ma io ce l’ho detto al sindico, ce l’ho detto: quattro imbianchini che ci diano una bella manata di bianco e la vegne fantastica. Ci scriverò un articolo.
– Quello ha sei anni meno di te e guadagna duecento bolli al mese, – mi disse Ada.
Mentre bevevamo il caffè si fermò una fuoriserie. Scesero un industrialotto con la moglie. Tutti e due bei grassi, di quella grassezza flaccida e molle. La moglie avrà avuto su venti chili di oro fra braccialetti anelli collane spille; lui almeno la metà. Camminavano sussiegosi.
– Quello fino all’anno scorso era un operaio, – mi disse Ada; – e lei una giuntora, – aggiunse con voce alta e aspra.
– Non farti sentire! – mormorai.
I due erano proprio dietro noi. – E ora usano la fuoriserie per venire a farsi vedere in Piazza. Come se la fuoriserie ce l’avessero solo loro, – gridò.
I due se ne andarono. Risalirono in macchina con calma. Prima hanno aperto la portiera, poi hanno messo su la gamba sinistra, quindi si sono seduti, quindi hanno infilato l’altra gamba, hanno chiuso la portiera e sono partiti.
– Cerca di controllarti, – dissi ad Ada.
Il giornalista Pallavicino la stava menando ancora. – Io vi dico che Vigevano vale duecento Parigi. Cosa c’è a Parigi che non ci sia a Vigevano? A Parigi c’è Pias Pigal; a Vigevano ioma Pias Ducal; a Parigi c’è la Senna; a Vigevano c’è il Tisin; a Parigi c’è la tur Eifel, num ioma la tur Bramant, – diceva. Il campanone della torre rintoccò mezzanotte. Le insegne colorate dei bar tremolavano umide.
– Andiamo a casa! – dissi.
Ella si alzò con scatto: – Città bastarda, – disse fra i denti. – Andiamo, è l’unica, – disse poi.
– Non si dice: è l’unica, – le disse il giornalista; – si dice è il cioccolato!
– Il cioccolato? – dissi, visto che aspettava questa domanda.
– Eh sí! L’Unica non fa il cioccolato? – rispose Pallavicino scoppiando a ridere di gusto.
Camminavo rasente a portoni sprangati, a finestre chiuse. Dai muri trapelavano rumori di martelli che battevano, di macchinari che andavano.
– Noi andiamo a dormire! – disse Ada.
Il tono di voce era aspro. Non le risposi, ché sentivo che aspettava solo una parola per scatenarsi.
– Ma non possiederemo mai né una macchina né una casa...
– Il pane non ci manca, – dissi offeso.
Lei rise con il suo solito sorriso materno.
– Prima di sposarti le mie amiche mi dicevano: la Ada sposa un maestro!, con aria invidiosa. Ora dicono: povera Ada. Ha sposato un maestro!
Guardai la luna che rovesciava la sua luce gialla su tutto; attorno aveva un alone verde. – Stai facendo della lirica! – le dissi. – Pensa a quelli che sentono i nostri passi; penseranno che siamo due amanti!
– La luna ti dà al cervello! – grugní Ada.
Nella camera da letto Ada indugiava a guardarsi allo specchio.
– Non trovi che abbia qualcosa della Ingrid Bergman? – mi domandò.
– Una certa aria di somiglianza c’è davvero! – le risposi.
Ella si sorrideva, poi tornava seria; quindi assunse un aspetto drammatico: – Ma che stai facendo? – le dissi pensando: cosí imparerai a mostrarmi quelli che alla mia età hanno le fabbriche; uno a uno.
Lei mi guardò con odio. Si svestí e se ne stette con indosso solo gli indumenti intimi. Una maglia rattoppata da tutte le parti, con una manica rossa l’altra celeste, e allungata con un altro pezzo di lana. Un paio di mutande mie, accomodate per lei. In quello stato mi seguitava a passeggiare davanti.
– Pensa un po’ se dovessi sentirmi male per strada! – disse a un tratto con un riso nervoso. – Oppure se uno di noi dovesse finire all’ospedale!
Riprese a passeggiare.
– Saranno due mesi che mi sono fatta il bagno, – disse sarcastica.
Alzai le spalle.
– Me lo auguro di sentirmi male per strada. Cosí vedrebbero che...

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Stili delle citazioni per Il maestro di Vigevano. Il calzolaio di Vigevano. Il meridionale di Vigevano

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Mastronardi, L. (2015). Il maestro di Vigevano. Il calzolaio di Vigevano. Il meridionale di Vigevano ([edition unavailable]). EINAUDI. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3427472/il-maestro-di-vigevano-il-calzolaio-di-vigevano-il-meridionale-di-vigevano-pdf (Original work published 2015)

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Mastronardi, Lucio. (2015) 2015. Il Maestro Di Vigevano. Il Calzolaio Di Vigevano. Il Meridionale Di Vigevano. [Edition unavailable]. EINAUDI. https://www.perlego.com/book/3427472/il-maestro-di-vigevano-il-calzolaio-di-vigevano-il-meridionale-di-vigevano-pdf.

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Mastronardi, L. (2015) Il maestro di Vigevano. Il calzolaio di Vigevano. Il meridionale di Vigevano. [edition unavailable]. EINAUDI. Available at: https://www.perlego.com/book/3427472/il-maestro-di-vigevano-il-calzolaio-di-vigevano-il-meridionale-di-vigevano-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Mastronardi, Lucio. Il Maestro Di Vigevano. Il Calzolaio Di Vigevano. Il Meridionale Di Vigevano. [edition unavailable]. EINAUDI, 2015. Web. 15 Oct. 2022.