In un'altra lingua
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In another language

  1. 220 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

In un'altra lingua - o meglio: come se la traducesse da un'altra lingua - Primo Levi ci ha descritto l'esperienza di Auschwitz. Da allora in poi, durante l'intera sua vita di scrittore, Levi ha trapiantato nella letteratura italiana nuovi linguaggi, e ha conquistato nuovi territori espressivi: il dialetto degli ebrei piemontesi, il gergo di un tecnico specializzato in montaggi complessi, lo yiddish di una banda partigiana nelle steppe orientali, i codici alieni di apparecchiature avveniristiche quanto minacciose. Oggi, unico tra gli scrittori italiani moderni, Primo Levi sta per essere pubblicato integralmente in traduzione inglese, fino all'ultima delle sue pagine sparse. Ann Goldstein e Domenico Scarpa, una traduttrice e uno studioso che hanno collaborato all'impresa, dialogano appunto su Levi e la traduzione: nel significato artigianale della parola, e nel suo senso più ampio. *** In another language - rather, as if he were translating it from another language - Primo Levi described to us the experience of Auschwitz. From then on, during his entire life as a writer, Levi transplanted into Italian literature new languages, and conquered new expressive territories: the dialect of Piedmontese Jews, the jargon of a technician specializing in complex rigging, the Yiddish of a partisan band in the Russian steppes, the alien codes of threatening futuristic machines. Today, alone among modern Italian writers, Primo Levi is about to be published in his entirety in English, down to the last of the uncollected pages. Ann Goldstein and Domenico Scarpa, a translator and a scholar who contributed to the enterprise, have a dialogue on Levi and translation: in the most concrete meaning of the word and in its broader sense.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
Print ISBN
9788806225483
eBook ISBN
9788858419359
Argomento
Literatur

Leggere in italiano, ricopiare in inglese

Domenico Scarpa

Un linguaggio radicale.
Raccolgo il testimone, in tutti i sensi della parola, da Anna Bravo, e comincio da dove l’anno scorso lei aveva concluso la sua Lezione Raccontare per la storia:
... la parola chiara di Levi è una linea di credito aperta a chi legge o ascolta, tutto il contrario di un esercizio di abilità a uso di colleghi scrittori o critici. La chiamerei una comunicazione democratica. Quale altro pensatore di fronte a un liceale che lo interroga sul rapporto spirito/materia avrebbe saputo rispondere che, per capirlo, basta avere avuto una volta mal di denti?20.
Quello riportato da Anna è già un esempio di traduzione. Nel caso specifico, è la traduzione di un concetto astratto in un’esperienza che capita a tutti. Ed è un’immagine che resta nella memoria: non credo che quello studente liceale l’abbia dimenticata.
Il titolo della Lezione organizzata per quest’anno dal Centro Internazionale di Studi Primo Levi è In un’altra lingua. Cosí come si era fatto con Raccontare per la storia, ci si è affidati alle risorse di una preposizione: stavolta è in, che può indicare a seconda dei casi lo stato o il moto, e che può alludere allo scrivere in un’altra lingua (adottando un diverso codice espressivo; costruendosi un linguaggio nuovo) ma anche al trasferire un testo dalla sua lingua originaria a una lingua diversa; nel secondo caso, In un’altra lingua alluderà al tradurre e all’essere tradotti. Parlerò di questi usi della preposizione, in qualche caso separatamente, altre volte combinandoli insieme.
Esiste un brano dove Levi ci descrive l’invenzione stessa del linguaggio. È l’episodio di Hurbinek nella Tregua. Siamo nel secondo capitolo, «Il Campo Grande».
Dopo una settimana, Henek annunciò con serietà, ma senza ombra di presunzione, che Hurbinek «diceva una parola». Quale parola? Non sapeva, una parola difficile, non ungherese: qualcosa come «mass-klo», «matisklo». Nella notte tendemmo l’orecchio: era vero, dall’angolo di Hurbinek veniva ogni tanto un suono, una parola. Non sempre esattamente la stessa, per verità, ma era certamente una parola articolata; o meglio, parole articolate leggermente diverse, variazioni sperimentali attorno a un tema, a una radice, forse a un nome21.
In questo passaggio vorrei sottolineare, piú che l’intensità drammatica, la precisione del lessico che pertiene alla linguistica. Un bambino di tre anni – che è nato in Auschwitz, ma che nella descrizione di Levi appare come la prima creatura umana mai apparsa sulla terra – costruisce parole dotate di senso usando la materia prima dei suoni, sui quali il suo istinto di sopravvivenza lavora per tentativi. Eppure c’è anche di piú. Nello stesso episodio si trova un punto in cui Levi sembra indicare la radice e il funzionamento del suo linguaggio. È il ritratto fisico di Hurbinek:
Era paralizzato dalle reni in giú, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena22.
Confrontiamo ora queste righe con un brano che fa parte di un breve saggio in forma di lettera, dove Levi offre i suoi consigli A un giovane lettore:
... se Lei ricorda ad esempio che «scatenare» voleva dire «liberare dalle catene», potrà usare il termine in modo piú appropriato ed in sensi meno frusti. Non tutti i lettori si accorgeranno dell’artificio, ma tutti percepiranno almeno che la scelta non è stata ovvia, che Lei ha lavorato per loro, che non ha seguito la linea della massima pendenza23.
Come si può vedere, Levi aveva già applicato per conto proprio la tecnica che suggerisce al suo giovane lettore (o piuttosto, aspirante scrittore). Non è indifferente che a distanza di oltre vent’anni la parola usata in senso letterale – anzi, secondo la sua radice etimologica – sia la stessa: «scatenare», togliersi le catene. Hurbinek si vuole impadronire di un linguaggio per liberarsi dalle catene di Auschwitz, mentre Levi lo usa per descrivere quelle stesse catene: una medesima parola è stata adoperata una prima volta per indicare il bisogno assoluto del linguaggio, e in seguito per mostrare come il linguaggio si possa declinare in una forma comprensibile a tutti, ma anche efficace e memorabile. Proprio come Hurbinek, Primo Levi doveva misurarsi, in quanto prigioniero di un Lager, con una condizione di quasi-paralisi: era in una posizione dalla quale poteva vedere poco, e avvertiva la necessità di fabbricarsi un codice espressivo all’altezza dei fatti, una lingua che arrivasse a esprimere il poco alla sua portata di detenuto senza privilegi, ma che implicasse anche tutto il resto: cioè, il largo panorama morale e materiale del Lager. Di qui l’uso radicale del linguaggio da parte di Levi; di qui la sua speciale pronuncia delle parole, cosí letterale da risultare insolita: piú intensa e piú precisa.
La versione inglese di tutte le opere di Levi, che Ann Goldstein sta curando per Liveright, ha dovuto ovviamente affrontare molti problemi di interpretazione. Una parte notevole è stata risolta proprio risalendo all’etimologia delle parole, al loro significato originario, che ne hanno suggerito la traduzione piú corretta. A osservarla da vicino, l’opera di Levi si rivela come un sistema linguistico complesso e versatile, ma di grande coerenza. E quando, nel realizzare gli apparati storico-critici di mia competenza per l’edizione Liveright, ho dovuto cercare dei brani di Levi per riportarli direttamente in inglese nelle note ai testi, mi sono accorto quasi subito che potevo essere sicuro di trovare tradotti letteralmente alcuni elementi-base del discorso: i sostantivi, i verbi d’azione, gli aggettivi qualificativi. Questo principio di fedeltà letterale a una lingua che ho definito «radicale» si mantiene valido per l’intero arco dell’opera: se Levi usa costantemente una parola in una medesima accezione, quella parola è stata tradotta nello stesso modo a ogni nuova occorrenza, di libro in libro. Nel cercare una sua equipollenza in lingua inglese, la nuova traduzione ha salvaguardato la coerenza di Levi.
Tradurre, testimoniare.
Questa Lezione a due voci con Ann Goldstein è il risultato di due anni di lavoro artigianale svolto insieme sui testi di Primo Levi: Ann come responsabile di tutte le traduzioni e come general editor, io come aiutante esterno che all’occorrenza rispondeva a domande tecniche e in qualche caso suggeriva possibili soluzioni. E se è vero, come credo, che oggi queste opere complete in lingua inglese possono vantare una fedeltà e una compattezza – nel lessico, nella sintassi, nei registri, nei ritmi, nel tono – paragonabili all’originale italiano, bisognerà pure domandarsi quale sia il significato piú ampio dell’operazione che volge al termine (scrivo quando i tre volumi dei Complete Works stanno andando in bozze). Perché il tradurre è cosí importante per Primo Levi? Mettiamo ancora due testi a confronto; il primo brano proviene da un articolo del 1980 intitolato Tradurre ed essere tradotti:
... a livello piú o meno consapevole ... chi parla un’altra lingua è lo straniero per definizione, l’estraneo, lo «strano», il diverso da me, e il diverso è un nemico potenziale, o almeno un barbaro: cioè, etimologicamente, un balbuziente, uno che non sa parlare, un quasi-non-uomo. Per questa via, l’attrito linguistico tende a diventare attrito razziale e politico, altra nostra maledizione24.
Queste righe (molti lettori di Levi se ne saranno accorti) riscrivono con parole appena diverse un passaggio ben noto della Prefazione 1947 a Se questo è un uomo:
A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, piú o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico». Per lo piú questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager25.
Levi ha delineato due distinte situazioni usando quasi le stesse parole: il processo logico che porta a creare i campi di sterminio e lo stato di cose determinato dalla varietà delle lingue. Nell’articolo sul tradurre, al sillogismo perverso che conduce ai Lager è contrapposto un sillogismo diverso: «Ne dovrebbe seguire che chi esercita il mestiere di traduttore o d’interprete dovrebbe essere onorato, in quanto si adopera per limitare i danni della maledizione di Babele». Levi soggiunge che ciò non avviene per una quantità di problemi economici, sociali, politici. Resta il fatto che il suo ragionamento colloca l’attività del tradurre agli antipodi del Lager. Non sarebbe una forzatura affermare che ogni traduttore è un anti-Eichmann, che chiunque lavori a tradurre sia un virtuale antagonista di quel mediocre lavoratore senza personalità che fu Adolf Eichmann. La traduzione non è solo un lavoro umanistico, è un lavoro umano e umanitario che si fa per diminuire la stranezza dello straniero.
Se davvero è questo per Levi il senso generale del tradurre, il significato specifico – per me, madrelingua italiano – della nuova edizione Liveright dei Complete Works si può introdurre rievocando una vicenda italoamericana.
Ai tempi del flusso piú intenso di emigrazione italiana verso gli Stati Uniti, tra il 1880 e il 1920, quei cercatori di fortuna in arrivo da paesi sí e no segnati sulle carte geografiche, non appena sbarcati a New York cadevano nelle mani di connazionali che, invece di offrire loro assistenza e solidarietà, li sfruttavano in tutti i modi. Erano famigerati i «banchisti», i gerenti di piccole banche private irregolari che non offrivano garanzie, e che il piú delle volte sparivano con la cassa. Un giovane ma già autorevole economista, Luigi Einaudi, cosí commentava in un articolo di fondo apparso su «La Stampa» il 4 giugno 1897: «Il piú doloroso si è che le misere sorti degli italiani sono dovute in gran parte ai loro stessi connazionali»26.
Questi personaggi impegnati a tartassare i propri connazionali venivano detti, nel gergo di Little Italy, «prominenti»: e qui il lettore di Primo Levi che non conosca queste vecchie storie farà un salto, non solo di meraviglia: un salto dall’America fine Ottocento ai Lager nazisti, dove i prigionieri che godessero di mansioni o posizioni privilegiate erano definiti Prominenten. Se ne parla nel capitolo «I sommersi e i salvati» di Se questo è un uomo e se ne riparlerà quarant’anni piú tardi nell’ultima opera di Levi, I sommersi e i salvati, che non a caso ne riprende il titolo. Cosí come i «prominenti» di Little Italy erano italiani, allo stesso modo furono ebrei molti Prominenten del Lager di Auschwitz III-Monowitz, dove Levi fu recluso: collaborazionisti ebrei, dunque, in luoghi di sterminio dove gli ebrei rappresentarono piú del 90 per cento delle vittime. È lo stato di cose su cui Levi ha impiantato il celebre saggio dei Sommersi dedicato alla...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. In un'altra lingua
  3. Presentazione di Fabio Levi
  4. Introduction by Fabio Levi
  5. In un’altra lingua - In another language
  6. Ann Goldstein, Quattro giovani soldati
  7. Ann Goldstein, Four young soldiers
  8. Domenico Scarpa, Leggere in italiano, ricopiare in inglese
  9. Domenico Scarpa, Reading in Italian, recopying in English
  10. Apparato iconografico / Illustrations
  11. Appendice / Appendix
  12. Il libro
  13. L’autore
  14. Lezioni Primo Levi
  15. Copyright