Scrivere di sé
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Scrivere di sé

Identità ebraiche allo specchio

  1. 280 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Scrivere di sé

Identità ebraiche allo specchio

Informazioni su questo libro

L'identità ebraica, in tutte le sue innumerevoli accezioni, è estroversa. In fondo ama parlare di sé. Parlarne, scriverne, è anche un modo - forse l'unico - per esorcizzarla. Scendere a patti con questa appartenenza non è facile. È invadente ma sottile, capace di improvvisi colpi di scena. Soprattutto non è una soltanto, malgrado una comunanza quasi eterna di destini: persino le tavole della Legge furono tante. Qualcosa ci manca, da allora. Resta da colmare, attendere, disperare: le tavole spezzate. La promessa mancata. Il riscatto ancora da venire. Per questo, forse, l'identità ebraica ha bisogno di parlare di sé. Guardarsi allo specchio - da Adamo ai profeti, da Arthur Miller a Philip Roth, a Saba e altri ancora - è il modo per scendere a patti con quella cosa scomoda e dolorosa che è l'essere ebrei. Guardarsi allo specchio, se non altro in quello specchio particolare che è la pagina ancora da scrivere, è una prova tutt'altro che superficiale. Piuttosto, interiore: va irrimediabilmente al cuore della faccenda, cioè dell'immagine. È, anzi, un'esperienza quasi scabrosa.
Lo specchio svela, trasfigura, immancabilmente scalza l'immagine mentale che a priori pensavamo di trovare: l'una mai corrisponde all'altra. Chiama sempre la domanda: quanto c'è davvero di noi in quel simulacro d'io che leggiamo sopra, dentro lo specchio? Siamo noi? E se sì, siamo proprio così?
Insomma, la presenza del sé resta un enigma. Il principio d'individuazione non è affatto una legge, piuttosto un rovello. Che cosa veramente, e come, ci distingue dagli altri? Che cosa identifica quella cosa che siamo noi? La domanda non è ovviamente solo letteraria, ma sulla pagina, prima bianca e poi nera, si snocciola.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
Print ISBN
9788806190507
eBook ISBN
9788858418871
Argomento
Literatura

Capitolo terzo

Umberto Saba e quella cosa dolorosa

Il giovane Philip Roth scopre fra i banchi della scuola ebraica che dietro, al di là di una legge inflessibile – se non altro perché dettata da Dio – e di una tradizione che apparentemente ripete se stessa all’infinito, brulica un disordine anarchico. Scopre anche che, oltre la solidità di una fede monogama come nessun’altra, si nasconde un’insicurezza abissale: frutto, certo, di circostanze storiche non propriamente benevole, quelle che accompagnano da millenni i figli d’Israele. Ma anche di un senso biologico – che potrei persino chiamare etico – di precarietà umana. Siamo, ma appena. Tutto è fragile. Tenace, forse proprio in virtú di tale fragilità.
Con la parabola di Lawrence Newman, Arthur Miller racconta in fondo quella stessa, solida precarietà. Ad ogni modo, anche la sua immagine ebraica ha poco o nulla di convenzionale. «Senza paura, – racconta cosí gli esordi della sua coscienza, – naturalmente, non vi è religione, ma se una piccola vita nella sinagoga della 114a Strada significa qualcosa, la transazione chiamata fede si riduce a un confronto con un potere schiacciante seguito dal sollievo di sapere che il peggio ci è stato risparmiato. Ma questo lo imparai come del resto, a quanto sembra, ho imparato quasi tutto, in un modo piuttosto curioso» [Miller 1988, p. 44].
Saba è, per contro, uno scrittore trasparente. Difficilmente si lascia tentare dall’implicito, anche quando racconta di sé e delle proprie complicazioni. Non è uno specchio ma una figura che si fa attraversare dalla luce. Il suo io è, peraltro, una faccenda complicata: il tempo lo attraversa come la luce la sua figura, lasciando depositi. Ricordi e rinunce. Brontolii e rivendicazioni. Non ha scritto nessuna prosaica autobiografia, ma dalle lettere, dalle tracce nella prosa e nella poesia emerge una biografia completa. Niente affatto inconscia.
Certo, oltre la trasparenza che la sua figura concede, oltre il rifiuto dell’implicito, l’identità ebraica di Saba – dalla quale non si tira affatto indietro – è avvertita come una specie di equivoco. Riposa profonda dentro di lui, all’origine di gran parte della sua fenomenologia umana. È il frutto di un caso, di un destino cieco e anche non poco sbadato.
1. (Auto)ritratto.
1.1. Eccolo, l’uomo.
Eccolo, l’uomo: «Quella fronte alta e rasserenata, quel naso poetico, quel colore di terra nuda, quella bocca, che, muta, pare sposi ancora l’intelligenza col canto; quegli occhi azzurri, penetranti e infantili, ora velati dalle tenebre palpebre chiuse» [Ghiazza 2002, p. 263]. Carlo Levi non riconosce, in quel viso di morte, nulla di «mutato da quello che altre volte, vivo, avevo dipinto». Questa somiglianza cosí ravvicinata fra la vita e la morte, nella cappella funebre dell’ospedale, è per lui fonte di turbamento. Fissando il «volto antico», Levi prova a lasciare impresso nella propria memoria ogni cosa che esso racconta: una vita amara e storie remote. Vorrebbe trattenere tutto, ora che lo guarda per l’ultima volta, spinto da un impulso umano, comune – qui confuso nel sentimento che piange un poeta – «il piú italiano, il piú moderno, il piú antico, il piú classico» –, come se con lui se ne stesse andando la memoria di tutti.
Questo ritratto di Saba post mortem ha un solo colore, che traspare da sotto le palpebre abbassate nella pietà dell’estremo istante. Saranno pur diafane, queste «tenebre», ma il colore non è piú una presenza, è ormai soltanto un’eco di memoria: non è disegno, bensí ricordo.
Saba aveva gli occhi azzurri. Eccoli, ma vivi: «La nota dominante è cupa. Gli occhi ti scrutano con fastidio, con sospetto. Lo sguardo è rivolto verso l’interno, non con serenità, ma con paura. Tu indovini un uomo tutto occupato di sé, smarrito nei suoi tic nervosi, e nelle sue idiosincrasie, nei suoi “complessi”» [Colorni 1975, p. 23]. Sarà, ma già l’indomani chi scrive queste righe, cioè Eugenio Colorni in una specie di racconto di cui però è detto esplicitamente, «un giorno mi accadde il fatto che tentai di narrare», quel poeta lo ama per sempre. Anche se, prima di intavolare qualche parola con il poeta, l’autore frequenta sí il negozio da libraio, ma ne evita il padrone perché non può «soffrire il suo fare livido». Livido: il versante malmostoso del celeste.
Gli occhi azzurri, un berretto sempre in testa, una pipa piccolissima in bocca. «Raffinato sí, non bonario».
Da un ultimo ricordo, passando per uno di un giorno qualunque nella sua libreria antiquaria, s’arriva alla memoria di un Saba visto per la prima volta. È il 1923 e il poeta si presenta «con un vestito blu e un berretto da ciclista all’uscio di una casa di Torino». È venuto a conoscere di persona, traversando l’Italia per largo, quel suo critico «vergognosamente giovane»: il critico è Giacomo Debenedetti, che effettivamente a quell’epoca dei suoi primi, illuminanti scritti su Saba, ha soltanto ventidue anni. Sono ancora gli occhi del poeta a spiccare sopra tutto il resto: «Mi riporta l’immagine di un uomo dallo sguardo limpidissimo, pronto a passare dalla dolcezza all’aggressività; e tuttavia in quello sguardo la pupilla aveva improvvisi guizzi sfuggenti, come di chi si guardi alle spalle» [Debenedetti 1999, p. 1072].
Gli occhi, il berretto.
Passano piú di vent’anni, e Debenedetti ne dipinge un altro ritratto. Anche se «è lo stesso Saba […]: i tratti sono forse un poco rasciugati, ma il pallore è il medesimo, levigato e caldo, e uguale è nel volto quello “sguardo azzurrino”… Non è invecchiato: semmai, anzi, gli è venuta fuori una piú rinfrancata giovinezza che si incornicia in taluni aspetti piú tranquilli e decorosi della maturità (ma la corona dei capelli è ancora nera e il viso senza rughe)». Nemmeno il berretto è invecchiato: «Se appena qualche spiffero filtrerà dalle finestre o dalle porte di lucido mogano, forse si farà coraggio e chiederà di poter tenere in testa il suo inseparabile cappello da ciclista» [ibid., pp. 1056-57].
Un po’ come Carlo Levi di fronte alla salma dell’amico, anche Giacomo Debenedetti è quasi stupefatto dalla staticità della sua figura. Morto come in vita, vecchio come giovane. Anzi no. Di piú: «Se verso i quarant’anni poteva parere un giovane vecchio, ora che ha passato i sessanta è certamente un vecchio giovane. Le due antitesi si compensano e ci ripetono che, grazie a Dio, Saba è immutato» [ibid.]. Certo, l’impressione dettata dalla soggettività conta anch’essa: il critico conosce il suo poeta quando il primo ha appena vent’anni, un’età dall’alto della quale tutti o quasi paiono piú vecchi di quello che sono. E poi siamo nel 1945, nella stagione dell’immediato dopoguerra, quando Saba sembra persino poter concepire un abbozzo, una chimera di felicità. Ma non è questo, almeno non soltanto. Saba era proprio cosí: dice che forse «la vecchiezza non esiste» o forse è la dannazione di questo tempo atroce, che impedisce di invecchiare e con ciò nega a lui il meritato riposo dalla Musa.
Un uomo senza età. Ansioso di invecchiare invece di restare sempre eguale? Non si direbbe: «Sono – sono sempre stato – un povero bambino (infinitamente comprensivo) sperduto in un mondo di adulti infinitamente stupidi e feroci» [Saba 2001, p. 890]. Come nei bambini (e negli artisti) tutto in lui si trasforma rapidamente in immagini: quando sente raccontare che nel «territorio dell’U.S.R.R.» ci sono tribú nomadi cosí refrattarie alla vita civile che il governo «le lascia vagare in libertà», Saba a che cosa pensa? Non pensa: «VEDO un vecchio chino a cogliere delle fascine» che, levatisi all’orizzonte i fumi della civiltà industriale, corre «con grida e gesti scomposti» ad avvertire la sua tribú: via di qui, piú lontano. Quel vecchio, Saba lo odia e lo ama al tempo stesso [id. 1991b, pp. 36-37 (lettera a Flescher del 14 marzo 1949)]. A leggere fra le righe, un po’ vi si riconosce, un poco no. Insomma, Saba è un bambino da vecchio, un vecchio da bambino: persino fra le braccia della sua amata balia, cui forse deve lo pseudonimo adottato fin dall’inizio della sua carriera. Si chiamava Poli, adottò il cognome Saba storpiando presumibilmente il cognome della Peppa, benché, va detto, in ebraico saba significa «nonno». Il poeta bambino che già s’intende anziano?
1.2. Il poeta bambino.
Prima di essere un vecchio bambino, e un bambino vecchio, il poeta conosce una specie di Eden: è l’infanzia dell’infanzia. Cioè quel che viene prima della coscienza, ed è soltanto calore d’affetto. È «il primo, amoroso seno», sono i «verdi paradisi dell’infanzia» [Il piccolo Berto – Tre poesie alla mia balia, in id. 1988, p. 405]. Di quei verdi paradisi torna in cerca adesso che «è un uomo, quasi un vecchio». La balia è figura di questa pre-infanzia alla quale viene strappato – con dolore di lei e di lui. Da allora, quella cosa che «non far gli è pena grande» [Infanzia, ibid., p. 408], cioè giocare, divenne pura nostalgia, un addio che non è per sempre perché lui, si sa, è rimasto un fanciullo!
L’infanzia che viene prima dell’infanzia a Trieste, con una madre stanca di delusioni, è un luogo sempre presente nella vita di Saba, ed è forse questo che spiega come mai piú diventa vecchio piú diventa bambino, spensierato. Perché anche quel suo Eden remoto diventa vecchio insieme a lui. Non è un territorio vago: l’ha davanti agli occhi. È un ricordo nitido anche se primordiale, afasico, incosciente, avvolto soltanto di calore. La balia è ciò che viene prima del sé, con tutti i guai e i fardelli che il sé comporta. Prima della famiglia monca, delle malinconie, del ghetto. Persino prima e altrove dalla sua Trieste. È tutto il contrario di ciò che la vita gli riserva.
L’infanzia non è però sempre un’età dell’oro.
Per Miller, per esempio, è la muta contemplazione di un mistero che non capirà mai: uomini che danzano e gli attraversano la memoria, mentre il pio (e un poco burlone) bisnonno gli ingiunge «Adesso non guardare!» La sera dopo cena il bisnonno parlava e parlava «attraverso la sua grande barba», ma in un incomprensibile yiddish.
Quando giunge il momento di andare a scuola, il piccolo Miller ha al suo attivo «quei pochi anni passati sul pavimento a studiare le scarpe della gente, la polvere sotto il divano, le rotelle di ottone sotto le gambe del pianoforte», e ha
assorbito attraverso la pelle duemila anni di storia europea, di cui, a mia insaputa, ero diventato parte, un personaggio di un’epopea a me ignota, un grumo non disciolto che galleggiava sulla superficie del mitico calderone americano di popoli. Per usare un gergo di epoca posteriore, ero già stato programmato a optare per qualcosa d’altro che non fosse l’orgoglio delle mie origini [Miller 1988, pp. 30-31].
Dunque è cosí: dal basso, sotto i tavoli, all’altezza di gambe di pianoforte, l’infanzia assorbe ignara un’identità ineludibile. Ma questa identità non è solubile, e per questo rimane problematica. Si comporta diversamente dalle altre, pronte a fondersi nel mitico calderone americano. È diversa, irriducibile: resta avvolta da quel mistero che il bisnonno, forse soltanto per scherzo, gli ordina di non guardare: un rito occulto, vietato al suo sguardo ingenuo. Che, detto a un bambino, è come brandire una bacchetta magica capace di rendere trasparenti le sue palpebre.
Mistero e presentimento chiaro: queste sono le due opposte coordinate dell’infanzia. Non solo per Arthur Miller. La consapevolezza che non tutto è comprensibile, anzi. La certezza di un destino in cui sei capitato per caso biologico ma ormai è troppo tardi. È sempre troppo tardi per sfuggirvi. Malgrado la pia illusione del poeta Saba che piú diventa vecchio e piú si sente bambino.
Nello scrivere di sé, l’infanzia è un momento cruciale proprio per questo: perché prefigura quella mistura di consapevolezza e smarrimento. Di solidità esistenziale e certezza di non capire che una parte infinitesima (e forse sbagliata) del tutto. Non dell’universo, beninteso. Solo di se stessi e di quell’identità che nascendo ti sei trovato appiccicata addosso. Dentro.
Non per nulla la moglie di Zuckerman dice di Roth, e con piena conoscenza di causa, che lui «torna sempre ai ricordi d’infanzia» [Roth 1989, p. 178].
L’inizio della scuola, l’incontro con l’alfabetizzazione, la scoperta della parola scritta è spesso, in questo periodo cruciale, un istante altrettanto cruciale. Per Miller e anche per Roth, che vive quel periodo con maggiore continuità, con la beata e innocente consapevolezza di non essere fuori posto.
Mingherlino, di statura insignificante, accuratamente vestito con giacca e gilet, il pince-nez appeso al cordoncino, baffetti di rigore sotto il naso, occhi dall’espressione stancamente buona – se oggi mi capitasse di incontrarlo nel metrò, sulle scale mobili, lo riconoscerei all’istante sotto la scossa tellurica della memoria» [Metter 1998, p. 263, Genealogia].
È il maestro Prachovnik, che fece sforzi tremendi per indurre il piccolo Metter e i suoi compagni di classe a credere alla storia alla creazione, ai prodigi dei profeti, all’immortalità dell’anima.
L’autobiografia, o meglio la «genealogia di Metter», è un deposito di memoria. Ricordi di ricordi che lo scrittore lascia intatti: «Non ho voglia di colmare le lacune della memoria con illazioni di raccordo. Il rombo sordo del tempo ha serbato frammenti di ricordi – per i quali sono controindicate la consequenzialità e persino l’attendibilità» [ibid., p. 262]. Il ricordo non va preso alla lettera, «tutto quanto ci è accaduto è come se fosse avvenuto». Lasciata intatta, la memoria vaga fra momenti di lucidità estrema, dolorosa, e altri dai contorni vaghi. Il primo funerale cui il bambino assiste: incontro inatteso con la morte. Il mistero di quel che siamo nella porzione di azzima che il bambino deve far sparire, per un gioco che è rituale pasquale. Non si conosce il significato di quel gioco, ma ciò non esclude la dedizione al rituale. Nemmeno Elia, atteso puntualmente a ogni Pasqua, verrà. I suoi passi sono silenziosi, proprio come certi ricordi d’infanzia.
In Genealogia Metter articola con una chiarezza straordinaria e sofferta il rapporto fra i ricordi e l’infanzia. È un processo non voluto, come non voluti sono i fiotti di ricordi che arrivano dal passato: «I ricordi sono come uova d’uccello nel nido, l’anima li scalda per lunghi anni, e d’un tratto essi rompono il guscio disordinatamente, inesorabilmente» [ibid., p. 246]. Sono anche «importuni e imperiosi» [ibid., p. 245] perché irrompono nella vecchiaia e non sai come abbiano fatto a rimanere cosí intatti, mentre tutto è andato talmente allo sfacelo che è come se non fosse mai esistito, e cosí non bisogna prenderli alla lettera, quei ricordi intatti dell’infanzia.
Per Aharon Appelfeld, scrittore israeliano nato in Bucovina nel 1932, che della propria vita ha fatto scrittura, i ricordi sono invece disordine. Vaga e consumata traccia. L’autobiografia inizia con una domanda: «Quand’è che la mia memoria comincia a ricordare?» [Appelfeld 2001, p. 11]. Il principio è incerto, al confronto con la catastrofe che giunge poco dopo. Per lui come per Saba, c’è un’infanzia morbida, tenue, che viene prima dell’infanzia vera – questa inizia per l’uno quando viene strappato alla balia, per l’altro all’arrivo dei Tedeschi.
Per il poeta Bialik, che affida le proprie prime memorie a un lungo racconto dal titolo Pianta spontanea, l’infanzia è l’immenso recipiente in cui tutto si vede e si capisce prima, meglio, come in nessun altro momento della vita: «Si dice che l’uomo veda e comprenda una sola volta: durante l’infanzia. Ed è vero. Le prime visioni, quando sono ancora vergini, come nel giorno in cui uscirono dalle mani del Creatore, sono l’essenza delle cose, la loro sostanza originale» [Bialik 2003, p. 200].
Luogo troppo vago?
Troppo nitido, tanto da far soffrire? («Non esistono immagini chiare e limpide come queste, né c’è realtà pari alla loro» [ibid., p. 198]).
L’infanzia è la destinazione di una nostalgia inguaribile e disperata, o un luogo impossibile, che non si può prendere alla lettera?
Per tutti è una specie di patria, remota.
Perché è il posto dove si imparare a ricordare. Dove l’oblio fa per la prima volta la sua comparsa.
1.3. Il vecchio poeta bambino.
Certo Saba si sente a suo agio nei panni dell’età avanzata. Sembra strano, ma il tempo che passa lo rende piú spensierato. Inizia a scrivere per trovare sollievo alle pene; piú tardi lo farà mosso da gratitudine alla vita [Saba 2001, p. 118, Storia e cronistoria del Canzoniere]. I posteri, invece, non lo interessano affatto: non è per loro che scrive, né da giovane «malnato» né da vecchio rasserena...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Scrivere di sé
  3. Premessa
  4. Scrivere di sé
  5. Prologo. Risalire la corrente
  6. I. Perché sono nudo, io! Parola di Adamo
  7. II. Sei tu che assomigli a me o sono io che assomiglio a te? (Arthur Miller a suo padre)
  8. III. Umberto Saba e quella cosa dolorosa
  9. IV. Credo di avere un’idea di ciò che può essere la solitudine ebraica
  10. V. Rimpianti: non aver imparato l’ebraico
  11. Una specie di epilogo. Di cosa mai scriviamo quando non scriviamo di noi?
  12. Bibliografia
  13. Il libro
  14. L’autore
  15. Dello stesso autore
  16. Copyright