Forse sono troppo ottimista (o troppo pessimista: dipende dalla prospettiva), ma non credo che vivrò abbastanza per partecipare ai funerali del congiuntivo. Anche nel beneaugurato caso in cui dovessi raggiungere o superare la soglia dei cent’anni – cosa di cui purtroppo dubito – ho ragione di credere che il congiuntivo mi sopravviverà, e sopravviverà anche a tutti coloro che guardano alla sua scomparsa come al presagio inequivocabile dell’apocalisse finale.
Catastrofi ben piú spaventose attendono, nei prossimi decenni, me, i miei figli e i figli dei miei figli: la liquefazione dei ghiacci eterni, la moria delle api, il dietrofront della corrente del Golfo e un import-export di terrorismo e democrazia sempre piú ipocrita e spregiudicato. Ma il congiuntivo no. Il congiuntivo non teme il cambio climatico né il mutare degli equilibri politici mondiali. Il congiuntivo guarda al futuro con grande fiducia e ancor maggiori speranze. Non a caso il verbo «sperare» regge proprio il congiuntivo.
E da dove traggo tutte queste speranze e tutta questa fiducia? Dal fatto che, tanto per cominciare, il congiuntivo è molto piú diffuso oggi di cinquant’anni fa. Cinquant’anni fa, metà abbondante del paese parlava dialetto, l’istruzione scolastica si esauriva – quando andava bene – con la terza media, e il televisore era un elettrodomestico costosissimo che solo le famiglie abbienti e i locali pubblici potevano permettersi.
Il televisore. Allora era il lavacro pubblico – non il solo, ma uno dei piú importanti – in cui l’italiano veniva mondato dallo «sporco» delle sue radici contadine. Oggi viene considerato una specie di cloaca dove confluiscono tutte le scorie piú tossiche della nostra lingua. Eppure non risulta che il congiuntivo sia stato bandito dal piccolo schermo. Tutt’altro. Fate un rapido zapping col vostro telecomando e scoprirete che la stragrande maggioranza dei vostri idoli televisivi lo usa abitualmente: da Maria De Filippi a Gerry Scotti, da Balotelli alle Iene, da SpongeBob a Peppa Pig. Paradossalmente sarà piú facile sentire sbagliare un congiuntivo al politico di turno che al personaggio di una serie tivú, mentre i presentatori, anche i meno istruiti, non sgarreranno quasi mai, perché loro sono i ministri della funzione e non possono permettersi di sbagliare il cerimoniale.
La tivú ha altri difetti: la volgarità, la semplificazione, la povertà avvilente di un linguaggio modulare che si presta a essere montato e smontato come una cucina di Ikea ma che non lascia alcun margine alla creatività. Il congiuntivo però non c’entra. Il congiuntivo è colla, chiodi e vitine, e serve tanto al fine ebanista come al bricoleur della domenica.
Per quanto strano possa sembrare, il congiuntivo fa parte ormai del nucleo solido dell’italiano, di quella zona della nostra lingua capace di resistere all’erosione della pigrizia e al dilavamento dell’ignoranza. Ciò non significa che non esistano vandali che quotidianamente attentano alla sua integrità, ma questo avviene in ambiti per lo piú circoscritti («vuoi che te lo presto?», «pensavo che venivi» e poco altro) al riparo da possibili rischi di contagio ad altre aree della sintassi (chi mai userebbe l’indicativo con affinché o malgrado?) Anzi: se a maltrattare il congiuntivo sono personaggi pubblici, si espongono a una sanzione sociale che va ben al di là della censura scolastica di qualche prof parruccone e rischiano di finire addirittura in prima pagina.
Qualche anno fa, l’inviato di «Striscia la Notizia» Valerio Staffelli consegnò a Lapo Elkann un Tapiro d’Oro. Mica per i suoi improbabili look, ma perché aveva sbagliato a coniugare un congiuntivo (sii invece di sia)2. Era, a ben vedere, un peccato decisamente veniale per un giovane cresciuto tra Svizzera e Stati Uniti, eppure l’ineleganza dell’errore di grammatica bastava ad appannare la sua immagine di raffinato cosmopolita, e la appannava a tal punto che persino il pubblico di «Striscia la Notizia», trasmissione nazional-popolare per eccellenza, veniva considerato capace di cogliere la caduta di stile.
Anzi, lo spettatore medio ne poteva trarre la seguente conclusione: «Questo qui sarà anche pieno di soldi, ma l’italiano lo so meglio io». L’italiano, non solo il congiuntivo. Perché quando si parla di congiuntivo – ed è questo un punto su cui bisogna insistere – spesso si intende, per sineddoche, l’italiano tout court. Quante volte ci è capitato di leggere o sentir parlare del tale che «non azzecca neanche un congiuntivo» o dell’altro tale che «mette tutti i congiuntivi al posto giusto»? Che altro vogliono dire quelle frasi se non che il primo tale è un bifolco senza speranza di redenzione e il secondo un gentiluomo colto e perbene? Esiste forse, nel nostro immaginario, un marcatore piú affidabile del congiuntivo per misurare lo stato di salute della lingua e persino dell’educazione di una persona?
Nel piangere la scomparsa del famoso radiocronista Sandro Ciotti, il collega e sodale Gianni Mura faceva esordire il suo ricordo su «Repubblica» con le seguenti parole: «Ciotti non avrebbe sbagliato un congiuntivo neanche sotto tortura». Non un indicativo o un condizionale. Proprio un congiuntivo. Perché il congiuntivo ha fama di essere una bestia molto ostica, e chi, come Ciotti, era capace di domarlo senza farsi sbalzare via dalla sella, poteva ben dire di avere l’italiano in pugno.
Eppure anche sulla presunta «difficoltà» del congiuntivo ci sarebbe molto da discutere. Di sicuro non è difficile la sua coniugazione. Prova ne sia che quasi nessuno direbbe sii o facci, oppure dasse invece di desse come capitò qualche anno fa all’assessore alla cultura del Comune di Milano Finazzer, che incorse in questo increscioso scivolone morfologico finendo con la foto segnaletica sulle pagine di una nemmeno troppo metaforica cronaca nera culturale3.
È invece un po’ piú ambigua la sua sintassi, che lascia talvolta margini di incertezza (sicuro che una frase come «credo che hai ragione» sia per forza sbagliata?) e soprattutto molte scorciatoie (il classico «se potevo venivo») per evitarne l’uso. Ma la verità è che la sintassi è comunque effetto di una complessità, di una qualche articolazione e stratificazione del pensiero, e la vera difficoltà, a ben vedere, risiede proprio in quello: nel disporre, organizzare e collegare i propri argomenti in modo da farli sembrare parte di un progetto unico e non monadi sparpagliate senza un disegno comune.
Il congiuntivo, sosteneva Gesualdo Bufalino, non è amato dal politico perché «è di dissonante natura, buono solo a esprimere allarmi, supposizioni, congiunge il dubbio alla verità». Vero. Ma se le cose stanno davvero cosí, a essere in pericolo non è il congiuntivo, bensí il dovere del dubbio, la capacità di parlare in termini di possibilità e non di sole (e improbabili) certezze, la credibilità di una classe dirigente abituata da vent’anni a vendere promesse coniugate al futuro («faremo», «costruiremo», «approveremo») e non speranze declinate al congiuntivo («che si possa», «che si riesca», «che funzioni»).
Preoccupiamoci dunque per la politica, invece che per il congiuntivo. E impariamo a distinguere i congiuntivi sbagliati dai congiuntivi assenti. I primi sono errori di grammatica. I secondi sono errori di approccio al mondo. Come quello della mia prof di religione degli anni del Liceo che un giorno si lanciò in un’acrobatica difesa delle posizioni della Chiesa cattolica in materia di omosessualità, chiosando la sua intemerata con una frase che non ho mai dimenticato: «Io non ho nulla contro gli omosessuali: basta che non lo fanno piú». Una sciocchezza prima di tutto logica, di cui la forma grammaticale costituiva il degno pendant, ma che sarebbe stata tale anche con la consecutio temporum in ordine.
Ciò detto, ripeto che il congiuntivo, nel suo complesso, non corre al momento alcun rischio. Personalmente ho il sospetto che il tam tam incontrollato di notizie sempre piú allarmistiche sul suo conto abbia prodotto una sorta di psicosi collettiva che è arduo pensare di arginare facendo appello alla ragione. È la stessa cosa che succede quando le televisioni fanno a gara a chi racconta i fatti di cronaca nera piú atroci e raccapriccianti: per mesi la gente non parla d’altro, si pubblicano inquietanti sondaggi secondo cui la maggior parte degli italiani sarebbero favorevoli al ritorno della pena di morte e l’ordine pubblico diventa il primo problema nazionale (e primissimo tema elettorale), salvo scoprire, nelle pagine interne dei quotidiani, che il numero dei delitti in realtà diminuisce. È quello che i sociologi definiscono il problema della sicurezza «percepita» che, come nel caso dell’inflazione percepita e della temperatura percepita, non coincide mai con quella reale. Ecco, non so se il paragone regga, ma quando sento parlare di tramonto del congiuntivo, di quello che lo sbaglia e l’altro che lo aggira, di gruppi su Facebook che organizzano crociate per difenderlo quando sa difendersi perfettamente da solo, ho l’impressione che siamo di fronte al classico problema di «congiuntivo percepito».
Poi, certo, nella vita troverai sempre un elettricista o un idraulico o un dentista o un architetto che, al momento di riscuotere il pagamento per un impianto o un’otturazione, ti chiederà: «Vuole che le faccio la fattura?» Il che è abbastanza orrendo, lo ammetto, ma è orrendo non tanto e non solo per il congiuntivo mancato, quanto per l’impagabile faccia di tolla con cui certi professionisti fanno ricadere sul cliente la responsabilità di pagare le (loro) tasse. Lungi da me voler paragonare un errore grammaticale a un orrore morale (e legale), ma in un paese in cui le tasse si evadono tuttora assai piú dei congiuntivi, non ho dubbi su chi meriti di piú la mia indignazione. E se proprio devo indignarmi, non vedo perché dovrei farlo solo con chi dimentica i congiuntivi e non anche con chi ne abusa. È come quando ti incazzi – giustamente – con l’automobilista che passa col rosso e rischia di stirare il pedone, ma se è il pedone a gettarsi sotto le ruote di un macchinone sfidando la sorte e la legge, gli concedi la tua misericordia con un sorriso e uno sguardo di benevola riprovazione. L’auto è piú pericolosa di un pedone? Il conducente dovrebbe comunque prestare maggiore attenzione? Il congiuntivo è di sinistra e l’indicativo di destra? Può darsi, ma se un congiuntivo attraversa la strada fuori dalle strisce pedonali sbucando all’improvviso davanti a un indicativo mite e disciplinato che viaggia a cinquanta all’ora, quelli del movimento a difesa dei pedoni farebbero bene a starsene zitti. Se la regola stabilisce che il congiuntivo va impiegato in dipendenza da verbi che esprimono incertezza, opinione, volontà, ipotesi, e l’indicativo in tutti gli altri casi, una frase come «sono sicuro che tu abbia ragione» è sbagliata tanto quanto «penso che hai ragione», e sostenere il contrario non aiuta certo a far guadagnare consensi alla causa delle onlus pro congiuntivo.
Dopodiché si può anche decidere di chiudere un occhio. Ma solo a patto di essere disposti, quando il congiuntivo latita, a chiudere anche l’altro. Vengono in mente Giorgio Gaber e la sua irresistibile Destra-Sinistra, in cui a un certo punto, a proposito della «piscina bella azzurra e trasparente» usava anche lui un congiuntivo a sproposito («è evidente che sia un po’ di destra»). Peccato veniale, per uno dei piú grandi artisti italiani del secolo scorso, che aveva dalla sua il solido alibi della metrica da rispettare. Un po’ meno per i fondamentalisti del congiuntivo: che certamente hanno anche qualche ragione, ma che se difendono solo i tempi e i modi che piacciono a loro, rischiano di passare dalla parte del torto.
Ammesso – e niente affatto concesso – che il congiuntivo sia da considerare una specie a rischio, bisognerà comunque menzionare, per par condicio, le altre forme verbali in via d’estinzione che non godono dello stesso prestigio sociale e di cui pertanto quasi nessuno si preoccupa, tipo il trapassato remoto o il futuro anteriore o il condizionale composto. A differenza del congiuntivo, che ha una coniugazione e una gamma d’usi sufficientemente ampi e articolati da rendere improbabile la sua completa scomparsa dall’ecosistema della lingua, questi tre tempi svolgono una serie di mansioni molto limitate, una volta esaurite le quali la loro funzione biologica di fatto si esaurisce. Il trapassato remoto, ad esempio, serve solo a stabilire una relazione di anteriorità rispetto a un passato remoto («dopo che ebbe terminato il lavoro, uscí a prendere una boccata d’aria»), e cosí anche il futuro anteriore con il futuro semplice («ti chiamerò quando avrò finito»). Si tratta insomma di tempi gregari, di forme verbali parassitoidi che possono vivere unicamente in simbiosi con altre forme verbali; e siccome a loro volta anche il passato remoto e il futuro semplice tendono a prediligere certi habitat piuttosto circoscritti (la narrativa, i registri piú colti, i contesti piú formali), è facile prevedere che, di qui a poche generazioni, il futuro anteriore non avrà piú futuro e il trapassato remoto diventerà «trapassato» e basta. Non sto lanciando una campagna di sensibilizzazione per salvare le mie specie preferite, sto soltanto invitando a considerare le cose da un punto di vista diverso da quello del panda. Perché è facile provare tenerezza e solidarietà per l’animale di peluche o il cartoon umanizzato che pratica arti marziali (sto parlando ancora del congiuntivo, casomai non avessi colto la metafora), ma se si vuole essere sensibili e premurosi bisogna esserlo con tutte le creature nella stessa misura.
Poi ciascuno ha diritto di battersi per le proprie cause perse predilette. A me, ad esempio, spiace un po’ che la seconda e la terza coniugazione siano diventate sostanzialmente sterili. Sterili nel senso che è almeno un secolo che, eccezion fatta per i composti, non nascono piú verbi in -ere e -ire ma soltanto in -are, come se l’italiano fosse stato sottoposto a un trattamento eugenetico che gli consente di produrre unicamente parole con quel certo dna. Pensa solo ai nuovi verbi creati a partire da una base straniera: flirt > flirtare, clic > cliccare, post > postare, spam > spammare, fino all’inascoltabile lovvare, che immagino essere farina del sacco di quegli stessi esemplari umani che agganciano lucchetti alle balaustre dei ponti a imperituro ricordo di amori quasi sempre transitori. O pensa invece a quell’altra fonte inesauribile di neologismi verbali che è il suffisso -izzare, con cui sono formati verbi di ultima generazione come calendarizzare, indicizzare, balcanizzare, per non parlare di invenzioni giornalistiche di cortissimo respiro quali deberlusconizzare o addirittura debriatorizzare, occasionalismi che nascono per durare fino a sera, piú spesso anche meno, e che dimostrano solo quanto facile sia «neologizzare» in una lingua come la nostra.
Come si spiega questo fenomeno? Si spiega col fatto che nella lingua, cosí come in natura, tende spesso a prevalere il piú forte. E chi è il piú forte tra -are, -ere e -ire? Ovvio: il paradigma che procura meno rogne ai parlanti. Prendi un qualunque verbo in -are (dare e fare meritano un discorso a parte) e lo vedrai seguire disciplinatamente gli specchietti delle coniugazioni regolari riportate sulle grammatiche: amo, amerò, amavo, amai, ami, amassi, amerei; porto, po...