La tregua
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La tregua

  1. 240 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La tregua

Informazioni su questo libro

Diario del viaggio verso la libertà dopo l'internamento nel Lager nazista, La tregua, seguito di Se questo è un uomo, piú che una semplice rievocazione biografica è uno straordinario romanzo picaresco. L'avventura struggente tra le rovine dell'Europa liberata - da Auschwitz, attraverso la Russia, la Romania, l'Ungheria, l'Austria, fino a Torino - si snoda in un itinerario tortuoso, punteggiato di incontri con persone appartenenti a civiltà sconosciute, e vittime della stessa guerra: da Cesare, "amico di tutto il mondo", ciarlatano, truffatore, temerario e innocente, al Moro di Venezia, il gran vecchio blasfemo che sembra uscito dall'Apocalisse, a Hurbineck, il bimbo nato ad Auschwitz, "che non aveva mai visto un albero", alle bibliche tradotte dell'Armata Rossa in disarmo. L'epopea di un'umanità ritrovata dopo il limite estremo dell'orrore e della miseria.

***

«La tregua, libro del ritorno, odissea dell'Europa tra guerra e pace... storia movimentata e variopinta d'una non piú sperata primavera di libertà».

Italo Calvino

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
Print ISBN
9788806219338
eBook ISBN
9788858420423

Il greco

Verso la fine di febbraio, dopo un mese di letto, mi sentivo non già guarito, ma stazionario. Avevo l’impressione netta che, finché non mi fossi rimesso (magari con sforzo) in posizione verticale, e non mi fossi messo scarpe ai piedi, non avrei ritrovato la salute e le forze. Perciò, in uno dei rari giorni di visita, chiesi al medico di essere messo in uscita. Il medico mi visitò, o fece mostra di visitarmi; constatò che la desquamazione della scarlattina era terminata; mi disse che per conto suo potevo andare; mi raccomandò risibilmente di non espormi alla fatica e al freddo, e mi augurò buona fortuna.
Allora mi ritagliai un paio di pedule da una coperta, arraffai quante piú giacche e calzoni di tela potei trovare in giro (poiché altri indumenti non si trovavano), mi congedai da Frau Vita e da Henek, e me ne andai.
Stavo in piedi piuttosto male. Appena fuori della porta, c’era un ufficiale sovietico: mi fotografò e mi regalò cinque sigarette. Poco oltre, non mi riuscí di evitare un tale in borghese, che stava cercando uomini per sgomberare la neve; mi catturò, sordo alle mie proteste, mi consegnò una pala e mi aggregò a una squadra di spalatori.
Gli offersi le cinque sigarette, ma le respinse con stizza. Era un ex Kapo, e naturalmente era rimasto in servizio: chi altro infatti sarebbe riuscito a fare spalare neve a gente come noi? Provai a spalare, ma mi era materialmente impossibile. Se fossi riuscito a girare l’angolo, nessuno mi avrebbe piú visto, ma era essenziale liberarsi dalla pala: venderla sarebbe stato interessante, ma non sapevo a chi, e portarmela dietro, anche per pochi passi, era pericoloso. Non c’era abbastanza neve per seppellirla. La lasciai cadere infine nella finestrella di una cantina, e mi ritrovai libero.
Mi infilai dentro un Block: c’era un guardiano, un ungherese anziano, che non mi voleva lasciare entrare, ma le sigarette lo convinsero. Dentro era caldo, pieno di fumo e di fracasso e di facce sconosciute; ma a sera la zuppa la diedero anche a me. Speravo in qualche giorno di riposo e di allenamento graduale alla vita attiva, ma non sapevo di essere caduto male. Non piú tardi del mattino seguente, incappai in un trasporto russo verso un misterioso campo di sosta.
Non posso dire di ricordare esattamente come e quando il mio greco scaturí dal nulla. In quei giorni e in quei luoghi, poco dopo il passaggio del fronte, un vento alto spirava sulla faccia della terra: il mondo intorno a noi sembrava ritornato al Caos primigenio, e brulicava di esemplari umani scaleni, difettivi, abnormi; e ciascuno di essi si agitava, in moti ciechi o deliberati, in ricerca affannosa della propria sede, della propria sfera, come poeticamente si narra delle particelle dei quattro elementi nelle cosmogonie degli antichi.
Travolto anch’io dal turbine, in una gelida notte, dopo una copiosa nevicata, molte ore prima dell’alba, mi trovai dunque caricato su di una carretta militare a cavalli, insieme con una decina di compagni che non conoscevo. Il freddo era intenso; il cielo, fittamente stellato, si andava schiarendo a levante, a promessa di una di quelle meravigliose aurore di pianura a cui, al tempo della nostra schiavitú, assistevamo interminabilmente dalla piazza dell’appello del Lager.
Nostra guida e scorta era un soldato russo. Sedeva a cassetta cantando alle stelle con voce spiegata, e rivolgendosi ogni tanto ai cavalli in quel loro modo stranamente affettuoso, con inflessioni gentili e lunghe frasi modulate. Lo avevamo interrogato sulla nostra destinazione, naturalmente, ma senza cavarne nulla di comprensibile, salvo che, a quanto pareva da certi suoi sbuffi ritmici e dal movimento dei gomiti piegati a stantuffo, il suo compito doveva limitarsi a condurci fino ad una ferrovia.
Cosí infatti avvenne. Al sorgere del sole, la carretta si arrestò al piede di una scarpata: sopra correvano i binari, interrotti e sconvolti per una cinquantina di metri da un recente bombardamento. Il soldato ci indicò uno dei due tronconi, ci aiutò a scendere dal carro (ed era necessario: il viaggio era durato quasi due ore, il carro era piccolo, e molti di noi, per la posizione incomoda e il freddo penetrante, erano talmente intorpiditi da non potersi muovere), ci salutò con gioviali parole incomprensibili, voltò i cavalli e se ne andò cantando dolcemente.
Il sole, appena sorto, era scomparso dietro un velo di caligine; dall’alto della scarpata ferroviaria non si vedeva che una sterminata campagna piatta e deserta, sepolta nella neve, senza un tetto, senza un albero. Passarono altre ore: nessuno di noi aveva un orologio.
Come ho detto, eravamo una decina. C’era un «Reichsdeutscher» che, come molti altri tedeschi «ariani», dopo la liberazione aveva assunto modi relativamente cortesi e francamente ambigui (era questa una divertente metamorfosi, che già in altri avevo visto avvenire: talora progressivamente, talora in pochi minuti, al primo apparire dei nuovi padroni dalla stella rossa, sui cui larghi visi era facile leggere la tendenza a non andare troppo per il sottile). C’erano due alti e magri fratelli, ebrei viennesi sulla cinquantina, silenziosi e cauti come tutti i vecchi Häftlinge; un ufficiale dell’esercito regolare jugoslavo, che pareva non fosse ancora riuscito a scuotersi di dosso la remissione e l’inerzia del Lager, e ci guardava con occhi vuoti. C’era una specie di rottame umano, dall’età indefinibile, che parlava senza tregua da solo in jiddisch: uno dei molti che la vita feroce del campo aveva distrutti a mezzo, lasciandoli poi sopravvivere involti (e forse protetti) da una spessa corazza di insensibilità o di aperta follia. E c’era finalmente il greco, con cui il destino doveva congiungermi per una indimenticabile settimana randagia.
Si chiamava Mordo Nahum, e a prima vista non presentava nulla di notevole, salvo le scarpe (di cuoio, quasi nuove, di modello elegante: un vero portento, dato il tempo e il luogo), e il sacco che portava sul dorso, che era di mole cospicua e di peso corrispondente, come io stesso avrei dovuto constatare nei giorni che seguirono. Oltre alla sua lingua, parlava spagnolo (come tutti gli ebrei di Salonicco), francese, un italiano stentato ma di buon accento, e, seppi poi, il turco, il bulgaro e un po’ di albanese. Aveva quarant’anni: era di statura piuttosto alta, ma camminava curvo, con la testa in avanti come i miopi. Rosso di pelo e di pelle, aveva grossi occhi scialbi ed acquosi e un gran naso ricurvo; il che conferiva all’intera sua persona un aspetto insieme rapace ed impedito, quasi di uccello notturno sorpreso dalla luce, o di pesce da preda fuori del suo naturale elemento.
Era convalescente di una malattia imprecisata, che gli aveva provocato accessi di febbre altissima, sfibrante; anche allora, nelle prime notti di viaggio, cadeva talvolta in uno stato di prostrazione, con brividi e delirio. Pur senza sentirci particolarmente attirati l’uno dall’altro, eravamo avvicinati dalle due lingue in comune, e dal fatto, assai sensibile in quelle circostanze, di essere i soli due mediterranei del piccolo gruppo.
L’attesa era interminabile; avevamo fame e freddo, ed eravamo costretti a stare in piedi o a sdraiarci nella neve, perché a perdita d’occhio non si vedeva un tetto né un riparo. Doveva essere press’a poco mezzogiorno quando, annunciata di lontano dall’ansito e dal fumo, si tese caritatevolmente verso di noi la mano della civiltà, sotto forma di uno striminzito convoglio di tre o quattro carri merci trainati da una piccola locomotiva, di quelle che in tempi normali servono a manovrare i vagoni all’interno delle stazioni.
Il convoglio si arrestò davanti a noi, al limite del tratto interrotto. Ne scesero alcuni contadini polacchi, da cui non riuscimmo a cavare alcuna informazione sensata: ci guardavano con facce chiuse, e ci evitavano come se fossimo stati appestati. In realtà lo eravamo, probabilmente anche in senso proprio, e comunque il nostro aspetto non doveva essere gradevole: ma dai primi «civili» che incontravamo dopo la nostra liberazione, ci eravamo illusi di ricevere un’accoglienza piú cordiale. Salimmo tutti su uno dei vagoni, e il trenino ripartí quasi subito a ritroso, sospinto e non piú trainato dalla locomotiva-giocattolo. Alla fermata successiva salirono due contadine, dalle quali, superata la prima diffidenza e la difficoltà del linguaggio, apprendemmo alcuni importanti dati geografici, e una notizia che, se vera, ai nostri orecchi suonava poco meno che disastrosa.
L’interruzione dei binari era poco lontana da una località denominata Neu Berun, a cui a suo tempo faceva capo una diramazione per Auschwitz, allora distrutta. I due tronconi che si dipartivano dall’interruzione conducevano l’uno a Katowice (a ponente), l’altro a Cracovia (a levante). Entrambe queste località distavano da Neu Berun sessanta chilometri circa, il che, nelle condizioni spaventose in cui la guerra aveva lasciato la linea, significava almeno due giorni di viaggio, con un numero imprecisato di tappe e di trasbordi. Il convoglio su cui ci trovavamo era in viaggio verso Cracovia: su Cracovia i russi avevano smistato fino a pochi giorni prima un numero enorme di ex prigionieri, ed ora tutte le caserme, le scuole, gli ospedali, i conventi traboccavano di gente in stato di bisogno acuto. Le stesse strade di Cracovia, a detta delle nostre informatrici, brulicavano di uomini e donne di tutte le razze, che in batter d’occhio si erano trasformati in contrabbandieri, in mercanti clandestini, o addirittura in ladri e banditi.
Da vari giorni ormai, gli ex prigionieri venivano concentrati in altri campi, nei dintorni di Katowice: le due donne erano molto stupite di trovarci in viaggio verso Cracovia, dove, dicevano, la stessa guarnigione russa soffriva la carestia. Ascoltato il nostro racconto, si consultarono brevemente, indi si dichiararono persuase che doveva semplicemente trattarsi di un errore del nostro accompagnatore, il carrettiere russo, il quale, poco pratico del paese, ci aveva indirizzati al troncone est invece che a quello ovest.
La notizia ci precipitò in un intrico di dubbi e di angosce. Avevamo sperato in un viaggio breve e sicuro, verso un campo attrezzato per accoglierci, verso un surrogato accettabile delle nostre case; e questa speranza faceva parte di una ben piú grande speranza, quella in un mondo diritto e giusto, miracolosamente ristabilito sulle sue naturali fondamenta dopo una eternità di stravolgimenti, di errori e di stragi, dopo il tempo della nostra lunga pazienza. Era una speranza ingenua, come tutte quelle che riposano su tagli troppo netti fra il male e il bene, fra il passato e il futuro: ma noi ne vivevamo. Quella prima incrinatura, e le molte altre inevitabili, piccole e grandi, che seguirono, furono per molti di noi occasione di dolore, tanto piú sensibile quanto meno previsto: poiché non si sogna per anni, per decenni, un mondo migliore, senza raffigurarlo perfetto.
Invece no: era avvenuto qualcosa che solo pochissimi savi tra noi avevano previsto. La libertà, l’improbabile, impossibile libertà, cosí lontana da Auschwitz che solo nei sogni osavamo sperarla, era giunta: ma non ci aveva portati alla Terra Promessa. Era intorno a noi, ma sotto forma di una spietata pianura deserta. Ci aspettavano altre prove, altre fatiche, altre fami, altri geli, altre paure.
Io ero digiuno ormai da ventiquattro ore. Sedevamo sul pavimento di legno del vagone, addossati l’uno contro l’altro per proteggerci dal freddo; i binari erano sconnessi, e ad ogni sobbalzo le nostre teste, malferme sui colli, urtavano contro le tavole della parete. Mi sentivo stremato, non solo corporalmente: come un atleta che abbia corso per ore, spendendo tutte le proprie risorse, quelle di natura prima, e poi quelle che si spremono, che si creano dal nulla nei momenti di bisogno estremo; e che arrivi alla meta; e che nell’atto in cui si abbandona esausto al suolo, venga rimesso brutalmente in piedi, e costretto a ripartire di corsa, nel buio, verso un altro traguardo non si sa quanto lontano. Meditavo pensieri amari: che la natura concede raramente indennizzi, e cosí il consorzio umano, in quanto è timido e tardo nello scostarsi dai grossi schemi della natura; e quale conquista rappresenti, nella storia del pensiero umano, il giungere a vedere nella natura non piú un modello da seguire, ma un blocco informe da scolpire, o un nemico a cui opporsi.
Il treno viaggiava lentamente. Comparvero a sera villaggi bui, apparentemente deserti; poi scese una notte totale, atrocemente gelida, senza luci in cielo né in terra. Solo i sobbalzi del vagone ci impedivano di scivolare in un sonno che il freddo avrebbe reso mortale. Dopo interminabili ore di viaggio, forse verso le tre di notte, ci arrestammo finalmente in una stazioncina sconvolta e oscura. Il greco delirava: degli altri, quale per paura, quale per pura inerzia, quale nella speranza che il treno ripartisse presto, nessuno volle scendere dal vagone. Io scesi, e mi aggirai nel buio col mio bagaglio ridicolo finché vidi una finestrella illuminata. Era la cabina del telegrafo, gremita di gente: c’era una stufa accesa. Entrai, guardingo, come un cane randagio, pronto a sparire al primo gesto di minaccia, ma nessuno badò a me. Mi buttai sul pavimento e mi addormentai all’istante, come si impara a fare in Lager.
Mi svegliai qualche ora dopo, all’alba. La cabina era vuota. Il telegrafista mi vide alzare il capo, e mi pose accanto, a terra, una gigantesca fetta di pane e formaggio. Ero sbalordito (oltre che mezzo paralizzato dal freddo e dal sonno) e temo di non averlo ringraziato. Mi infilai il cibo nello stomaco e uscii all’aperto: il treno non si era mosso. Nel vagone, i compagni giacevano inebetiti; al vedermi si riscossero, tutti salvo il jugoslavo, che cercò invano di muoversi. Il gelo e la immobilità gli avevano paralizzato le gambe: a toccarlo urlava e gemeva. Dovemmo massaggiarlo a lungo, e poi smuovergli cautamente le membra, come si sblocca un meccanismo rugginoso.
Era stata per tutti una notte terribile, forse la peggiore dell’intero nostro esilio. Ne parlai col greco: ci trovammo d’accordo nella decisione di stringere sodalizio allo scopo di evitare con ogni mezzo un’altra notte di gelo, a cui sentivamo che non avremmo sopravvissuto.
Penso che il greco, grazie alla mia sortita notturna, abbia in qualche modo sopravvalutato le mie qualità di «débrouillard et démerdard», come elegantemente allora si soleva dire. Quanto a me, confesso di aver tenuto conto principalmente del suo grosso sacco, e della sua qualità di salonichiota, che, come ognuno ad Auschwitz sapeva, equivaleva ad una garanzia di raffinate abilità mercantili, e di sapersela cavare in tutte le circostanze. La simpatia, bilaterale, e la stima, unilaterale, vennero dopo.
Il treno ripartí, e con tragitto tortuoso e vago ci condusse in un luogo chiamato Szczakowa. Qui la Croce Rossa polacca aveva istituito un meraviglioso servizio di cucina calda: si distribuiva una zuppa abbastanza sostanziosa, a tutte le ore del giorno e della notte, e a chiunque indistintamente si presentasse. Un miracolo che nessuno di noi avrebbe osato sognare nei suoi sogni piú audaci: in certo modo, il Lager a rovescio. Non ricordo il comportamento dei miei compagni: io mi dimostrai talmente vorace che le sorelle polacche, pure avvezze alla famelica clientela del luogo, si facevano il segno della croce.
Ripartimmo nel pomeriggio. C’era il sole. Il nostro povero treno si fermò al tramonto, in avaria: rosseggiavano lontani i campanili di Cracovia. Il greco ed io scendemmo dal vagone, e andammo a interrogare il macchinista, che stava in mezzo alla neve tutto indaffarato e sporco, combattendo con lunghi getti di vapore che scaturivano da non so che tubo spaccato. – Maschína kaputt, – ci rispose lapidariamente. Non eravamo piú servi, non eravamo piú protetti, eravamo usciti di tutela. Per noi suonava l’ora della prova.
Il greco, ristorato dalla zuppa calda di Szczakowa, si sentiva abbastanza in forze. – On y va? – On y va –. Cosí lasciammo il treno e i compagni perplessi, che non avremmo piú dovuto rivedere, e ce ne partimmo a piedi alla ricerca problematica del Consorzio civile.
Dietro sua perentoria richiesta, io mi ero caricato il famoso fardello. – Ma è roba tua! – avevo cercato invano di protestare. – Appunto perché è mia. Io la ho organizzata e tu la porti. È la divisione del lavoro. Piú tardi ne profitterai anche tu –. Cosí ci incamminammo, lui primo ed io secondo, sulla neve compatta di una strada di periferia; il sole era tramontato.
Ho già detto delle scarpe del greco; quanto a me, calzavo un paio di curiose calzature quali in Italia ho visto portare solo dai preti: di cuoio delicatissimo, alte fin sopra il malleolo, senza legacci, con due grosse fibbie, e due pezze laterali di tessuto elastico che avrebbero dovuto assicurare la chiusura e l’aderenza. Indossavo inoltre ben quattro paia sovrapposte di pantaloni di tela da Häftling, una camicia di cotone, una giacca pure a righe, e basta. Il mio bagaglio consisteva di una coperta e di una scatola di cartone in cui avevo prima conservato qualche pezzo di pane, ma ormai vuota: tutte cose che il greco sogguardava con non celato disprezzo e dispetto.
Ci eravamo ingannati grossolanamente sulla distanza da Cracovia: avremmo dovuto percorrere almeno sette chilometri. Dopo venti minuti di cammino, le mie scarpe erano andate: la suola di una si era staccata, e l’altra stava scucendosi. Il greco aveva conservato fino allora un silenzio pregnante: quando mi vide deporre il fardello, e sedere su di un paracarro per constatare il disastro, mi domandò:
– Quanti anni hai?
– Venticinque, – risposi.
– Qual è il tuo mestiere?
– Sono chimico.
– Allora sei uno sciocco, – mi disse tranquillamente. – Chi non ha scarpe è uno sciocco.
Era un grande greco. Poche volte nella mia vita, prima e dopo, mi sono sentito incombere sul capo una saggezza cosí concreta. C’era ben poco da replicare. La validità dell’argomento era palpabile, evidente: i due rottami informi ai miei piedi, e le due meraviglie lucenti ai suoi. Non c’era giustificazione. Non ero piú uno schiavo: ma dopo i primi passi sulla via della libertà, eccomi seduto su un paracarro, coi piedi in mano, goffo e inutile come la locomotiva in avaria che da poco avevamo lasciata. Meritavo dunque la libertà? il greco sembrava dubitarne.
– … ma avevo la scarlattina, la febbre, stavo all’infermeria: il magazzino delle scarpe era molto lontano, era proibito avvicinarsi, e poi si diceva che fosse stato saccheggiato dai polacchi. E non avevo il diritto di credere che i russi avrebbero provveduto?
– Parole, – disse il greco. – Parole tutti sanno dirne. Io avevo la febbre a quaranta, e non capivo se era giorno o notte: ma una cosa capivo, che mi occorrevano scarpe e altro; allora mi sono alzato, e sono andato fino al magazzino per studiare la situazione. E c’era un russo col mitra davanti alla porta: ma io volevo le scarpe, e ho girato dietro, ho sfondato una finestrella e sono entrato. Cosí ho avuto le scarpe, e anche il sacco e tutto quello che sta nel sacco, che verrà utile piú avanti. Questa è previdenz...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La tregua
  4. Il disgelo
  5. Il Campo Grande
  6. Il greco
  7. Katowice
  8. Cesare
  9. Victory Day
  10. I sognatori
  11. Verso sud
  12. Verso nord
  13. Una curizetta
  14. Vecchie strade
  15. Il bosco e la via
  16. Vacanza
  17. Teatro
  18. Da Staryje Doroghi a Iasi
  19. Da Iasi alla Linea
  20. Il risveglio
  21. Nota biografica e fortuna critica, a cura di Ernesto Ferrero
  22. Cronologia della vita e delle opere di Primo Levi
  23. Il libro
  24. L’autore
  25. Dello stesso autore
  26. Copyright