Gridavano e piangevano
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Gridavano e piangevano

La tortura in Italia: ciò che ci insegna Bolzaneto

  1. 280 pagine
  2. Italian
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Gridavano e piangevano

La tortura in Italia: ciò che ci insegna Bolzaneto

Informazioni su questo libro

«Ero di fronte a un evento non solo di dimensioni macroscopiche, ma di una particolare qualità: centinaia di cittadini non erano solo stati privati della libertà, non erano solo stati lesi nella loro incolumità fisica e psicologica. Erano stati vittime di comportamenti tesi a far sorgere sentimenti di paura, di angoscia, di inferiorità in grado di umiliarli cosí profondamente da ledere la dignità umana». Roberto Settembre, ex magistrato, conosce bene i fatti drammatici accaduti nella caserma di Bolzaneto di Genova nei giorni del G8 tra il 20 e il 23 luglio 2001. Giudice a latere della Corte d'Appello nel processo a 43 pubblici ufficiali, accusati di aver commesso piú di cento reati contro oltre duecento parti offese, Settembre ripercorre violenze, maltrattamenti, umiliazioni inflitte a centinaia di cittadini italiani e stranieri dai loro aguzzini. Senza enfasi, nell'ottica inconsueta del giudice, lascia che i fatti stessi procurino l'indignazione che meritano. Gran parte di quei reati efferati non sarebbero caduti in prescrizione se li avessimo chiamati con il loro nome: torture. Ventisei anni dopo la Convenzione dell'Onu, la Commissione di giustizia discute tra le polemiche un decreto legge - al ribasso - che introdurrà nel codice penale italiano il reato di tortura. Un ritardo inaudito a fronte di ciò che è accaduto a Genova.

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Capitolo terzo

L’universo concentrazionario

È curioso come la narrazione degli eventi umani si accompagni all’evocazione di una rappresentazione di luogo e di tempo.
Nel mio ricordo, se ripenso all’effetto complessivo della lettura degli atti, ho un’idea di notte, di buio, di antro in cui le vittime vennero fatte precipitare, e all’interno del quale giunsero sbigottite.
Dalle loro parole emerge lo stupore, prima ancora del terrore e della sofferenza. Eppure non fu sempre notte: molti giunsero nel sito al centro della giornata, dopo le 16 del venerdí 20, dopo le 12 del 21 luglio, e ancora durante la domenica, là, nel luogo dal quale erano già partiti per le carceri di destinazione quelli portati a Bolzaneto1 il giorno prima.
La sentenza darà del sito la seguente descrizione:
Quando nel luglio dell’anno 2001 si tenne nella città di Genova il vertice dei Capi di Stato degli otto Paesi piú industrializzati del mondo, conosciuto come «vertice del G8», nella previsione di disordini connessi con le manifestazioni che ad esso si sarebbero accompagnate, venne predisposto, presso la caserma Nino Bixio di Bolzaneto, un carcere provvisorio destinato a ospitare un certo numero di possibili fermati o arrestati, dalla Polizia di Stato e dalla Guardia di Finanza.
La nota n. 2977 Cat. A4/Gab del 5.7.2001 del Questore di Genova, indirizzata al Dipartimento dell’Amministrazione (Dap) metteva a disposizione dell’Amministrazione Penitenziaria dal 5 al 24 luglio 2001 i locali 6 e 7 del fabbricato detto «ex caserma dell’esercito» all’interno della caserma Nino Bixio del VI Reparto Mobile della Polizia di Stato.
Alla Caserma si accedeva attraverso un cancello scorrevole con sbarra, che si apriva su un ampio cortile nel quale erano alcuni corpi di fabbrica, come la mensa e lo spaccio, e la palestra, che venne adoperata come luogo per l’identificazione e il fotosegnalamento da parte della Polizia di Stato.
Lí accanto si trovava appunto l’ex caserma dell’esercito, che divenne il sito penitenziario provvisorio.
A questo si accedeva attraverso tre scalini, che portavano a un androne quadrato, che aveva, sulla sinistra, un locale ampio adibito a ufficio della Digos, e sulla destra due locali, uno per la Digos e uno per la Squadra Mobile.
Dall’androne si passava a un corridoio centrale, lungo, compreso l’androne, circa 50 metri. Si pensi dunque a un corridoio lungo circa 50 metri largo 5 con otto porte sul lato sinistro e nove su quello destro.
Quanto all’androne, si apriva sulla sinistra un grande locale di circa 5 metri per 5, utilizzato dalla Digos per la notificazione dei verbali e la redazione degli atti di arresto e sulla destra altri due locali destinati alla Squadra Mobile e alla Digos.
Oltre l’androne, subito, sulla destra c’era un bagno e di fronte ad esso, sul lato sinistro, un locale docce, usato come deposito per gli oggetti sequestrati.
Avanzando, sul lato sinistro, oltre il locale docce, c’era l’ufficio Matricola e l’ufficio del Personale della Polizia Penitenziaria e di fronte ad essi, sul lato destro del corridoio, subito dopo il bagno, l’infermeria e la cella n. 1 destinata all’attesa degli arrestati in vista della consegna alla Polizia Penitenziaria.
Sempre, sul lato destro, la cella n. 2 con la stessa funzione. Queste due celle, la n. 1 e la n. 2, erano chiuse da una cancellata e avevano le grate alle finestre.
Di fronte alla cella n. 2, sul lato sinistro, c’era un altro ufficio usato dalla Polizia Penitenziaria.
In concreto la Polizia Penitenziaria usò solo la cella n. 1 mentre la n. 2 venne usata dalla Polizia di Stato e messa a disposizione della Polizia Penitenziaria a partire dalla tarda sera della domenica 22 luglio.
Proseguendo per il corridoio, altre tre celle sulla sinistra e altre tre celle sulla destra.
E si giungeva alla fine del corridoio.
Grosso modo, le dimensioni erano riconducibili, per quanto attiene alle tre celle per lato, partendo dal fondo del corridoio, a una lunghezza complessiva di questo tratto di corridoio di circa 15 o 20 metri, che proseguiva, senza soluzione di continuità, per una pari lunghezza di altri 15 o 20 metri, con da un lato le celle n. 1 e 2 e l’infermeria (tre porte) e di fronte ad esse i due uffici della Polizia Penitenziaria e l’ufficio Matricola (altre tre porte dirimpettaie).
I restanti circa 10 metri erano composti da un tratto di corridoio che, come si è detto, su un lato aveva il locale docce usato come deposito, e di fronte ad esso il bagno. Quindi c’era l’androne con gli uffici Digos e della Squadra Mobile.
Pertanto, in definitiva, deve visualizzarsi un corridoio largo circa 5 metri e lungo circa 50, composto da un androne lungo una decina di metri, con uffici, uno Digos sulla sinistra e altri due sulla destra, poi il deposito oggetti sequestrati sulla sinistra e di fronte sulla destra il bagno, quindi per una quarantina di metri lo stesso corridoio, che aveva in successione, partendo da destra, dopo il bagno, l’infermeria, la cella n. 1 e la cella n. 2 e poi le ultime tre celle, e sulla sinistra, di fronte all’infermeria che stava a destra, l’ufficio Matricola, poi l’ufficio del personale della Polizia Penitenziaria e dopo questo ufficio un altro ufficio della Polizia Penitenziaria, e infine le tre ultime celle.
In conclusione, si ripete, s’immagini un corridoio lungo circa 50 metri largo 5 con otto porte sul lato sinistro e nove porte su quello destro2.
Verso le 13.30 del sabato giunse nel sito di Bolzaneto Renzo S., che nella foto segnaletica sembra piú indignato che impaurito: si vedono le mascelle serrate sul mento robusto, nel viso squadrato, forte; lo sguardo appare fermo e diretto cosí come s’intravede il suo corpo vigoroso. È un quarantaseienne pugliese, impiegato civile della Marina militare, ed era del tutto ignaro delle ragioni del suo fermo. Era stato prelevato dalla polizia mentre si trovava in un campeggio dove l’organizzazione delle manifestazioni aveva predisposto la sua permanenza nei giorni del G8, e aveva chiesto spiegazioni ai poliziotti, che lo rassicurarono, dicendogli che si trattava di una mera formalità.
Non è difficile immaginare i pensieri di quest’uomo, venuto a Genova convinto di poter esercitare un diritto costituzionalmente garantito, mentre viaggiava contro la sua volontà verso un luogo ignoto, all’estrema periferia nord della grande città ligure. Forse non aveva nemmeno paura, mentre la camionetta della polizia attraversava il cancello della caserma ed entrava nel cortile, là, dov’era stato apparecchiato il carcere provvisorio, una palazzina di 50 metri per 15 a un solo piano, a cui si accedeva salendo tre scalini. Lí, nel cortile assolato, gli venne ingiunto di scendere di fronte a una schiera di agenti che sembravano attenderlo.
Renzo non era solo: con lui c’era una dozzina di persone, tra le quali il professor Emilio F. G. Vediamolo, nella foto segnaletica che gli scatteranno dopo alcune ore.
Emilio è un docente di filosofia, e ci appare come se la cultura avesse lasciato tracce nel suo volto. È sui cinquant’anni, una corta barba brizzolata, il viso che trasmette un’istintiva simpatia, annidata, forse, nell’esilità fisiognomica di un uomo non prestante, sotto gli zigomi pronunciati, nella selva di rughe profonde attorno agli occhi, o nella piega della bocca sottile, o nello sguardo intelligente filtrato dagli occhiali le cui stanghette affondano in un ciuffo bianco alle tempie. Ne emerge un lievissimo sorriso di complicità, impastato di sofferenza, eppure rassicurante.
Dev’essere stimato dalle persone venute con lui dal Sud dell’Italia, giovani donne e signore non piú giovanissime, casalinghe, finite con lui su quel piazzale, e che ricordano con sconcerto il fatto che lí, con loro, ci fosse «anche il professore», come se la sua presenza desse importanza alla loro.
Erano persone ordinarie, di varie età, di entrambi i sessi, vissute in un mondo di civiltà, dove ciascuno dava per scontata la sicurezza e la certezza che senza motivo, nessuno, e in primo luogo nessuno di coloro che sono istituzionalmente chiamati a difenderle, potesse attentare alla loro integrità fisica.
D’altronde le istituzioni di un Paese democratico (e tra queste occupano posti di primo piano la polizia di Stato e l’Arma dei carabinieri) non incutono paura ai loro cittadini, rispettosi dell’ordinamento.
Renzo, infatti, al processo non parlò di paura, e descrivendo il suo ingresso nella caserma, disse: «Venni fatto mettere di spalle contro una rete metallica del cortile».
C’era un campo da tennis, dietro a quella rete, e un campo da tennis è un luogo ameno, dove la gente va per divertirsi. Ma di fronte a sé Renzo vide «Carabinieri e Polizia».
Anche il professor Emilio ebbe la medesima visione: «Davanti a noi era schierata una fila di Carabinieri» e lí venne costretto con gli altri ad attendere «sotto il sole per un’oretta, in piedi, fissi, rigidi, quasi sull’attenti», e ciò fu per lui, ricordò poi, «con la pelle chiara una mezza tortura».
Ecco, colpisce questa immagine del luogo aperto, sotto il sole estivo, la terra polverosa e l’asfalto screpolato, i colori vividi della mezza estate, torrido, nel quale Renzo venne immerso, e in cui, ha detto:
Stavamo straniti per il caldo […] eccetera […] e poi questi, a un certo punto, hanno cominciato a dirci parole strane: «Comunisti di merda, che siete venuti a fare? Vi faremo vedere i sorci verdi». Qualcuno ha sputato […] e ciò è durato piú di una mezz’ora […] stavamo sotto il sole […] io morivo di caldo […] soffro un po’ […] c’erano anche il professor Emilio e Ada.
Ma prima di procedere oltre nella narrazione, fermiamoci un momento su come il luogo apparve alle persone che vi erano appena giunte.
Ada è una signora sui quarant’anni, con il viso asciutto, austera, i capelli corti sulla nuca, pettinati alti sul capo in modo severo, com’è severo il suo sguardo. Ada dirà, senza commento: «Era pieno di persone, di poliziotti, c’erano vari gruppi, carabinieri dalle divise blu antisommossa, poliziotti, poliziotti in borghese con lo stemma attaccato al collo».
Gaia, che è una bella ragazza sui venticinque anni, con i capelli legati in coda di cavallo, che mostrano la nuca su un collo slanciato, la testa leggermente rivolta verso l’alto, la bocca dischiusa, il mento proteso, provocatorio come lo sguardo, aggiunge alla descrizione di Ada una nota in piú: «Il cortile era affollato di Polizia e Carabinieri molto agitati».
Vito, invece, che seguiremo tra poco nella sua odissea insieme con i due amici Tullio e Rinaldo, al processo dirà: «Nel cortile […] la scena che mi si è rappresentata è stata di appartenenti alle Forze dell’Ordine, piú che altro seduti nel cortile, che al mio arrivo si sono alzati lanciando improperi […] indossanti la divisa blu e nera e in borghese con la pettorina».
Piú tardi, verso le 16, vi giunse Carlo G., un venticinquenne dal viso pulito, virile nel taglio delle labbra, nella forma del mento, nelle rughe di espressione alla fronte, nel taglio militare dei capelli, ma che negli occhi rivela tutta l’ansia, la paura, l’incertezza di chi viene all’improvviso precipitato dentro una realtà aliena. Dirà al processo: «Quando ci hanno visto arrivare ricordo che un tot di quelli che c’erano sono scoppiati in un boato e si sono avvicinati al cellulare facendo segni. “Vi facciamo il culo, vi tagliamo la gola, vi pestiamo, vi facciamo la festa”».
Dev’essere stato come fare un balzo indietro nel tempo di oltre mezzo secolo, che determinò lo sconcerto, l’essere catapultati in uno scenario sinistramente primitivo, che entrò nei loro occhi, al loro scendere dalla camionetta della polizia, indifesi, davanti a un’orda clamante di uomini addestrati all’uso della forza, alcuni dei quali dissero: «Benvenuti ad Auschwitz» e qualche ora dopo: «Benvenuti nella casa del lupo», come ricordò Thorben S., che giunse nel sito verso le 17.
D’altronde lo stupore dovette durare davvero poco, mentre i nostri due ultraquarantenni, l’impiegato della Marina militare e il professore di filosofia, e un’altra dozzina di persone, immobili sotto il sole che infiammava il capo, guardavano, senza poter intervenire, «un ragazzo greco, che stava male, accovacciato che si lamentava e una ragazza di Taranto, a terra, che sembrava accusare dolori addominali molto forti e si lamentava, e però nessuno le dava assistenza, anzi, questi giovani carabinieri schernivano».
Cosí raccontò al processo il 28 aprile 2006 Ovidio N., che, nella foto segnaletica, mostra un’enorme criniera di ciocche scure, che sembrano avvitarsi nell’aria, ergendosi sul colmo della testa, sul lato, o scendendo verso le spalle, la barba rada, il viso triangolare nel mento appuntito. Il suo sguardo è in difesa, esprime un interrogativo, un «non capisco».
La casa del lupo, Auschwitz: parole incongrue per l’Europa occidentale del 2001, per l’Unione europea, per la Carta di Nizza, le Costituzioni dei Paesi che la compongono, forse parole inaudite anche per Agnese, una giovane donna, bionda, emaciata, il volto segnato da pesanti occhiaie giunta nel sito verso le 15 di quel 21 luglio, che vide all’arrivo,
[…] un sacco di ragazzi fuori ad aspettare e si sentiva gridare dalla caserma, i poliziotti ci insultavano e noi in piedi contro una rete nel piazzale, sotto il sole per una mezz’ora, tre quarti d’ora e questi in divisa nera, non so dei carabinieri e blu della polizia, che dicevano: «Sono arrivati quei bastardi del G8» e che eravamo degli ebrei […] e a noi donne troie
e cosí ricorderà all’udienza del 15 maggio 2006.
Incredulità, vane speranze, dunque, proprio come al processo il 17 ottobre 2006 riferí Luigi C., che sta a occhi chiusi davanti alla macchina fotografica della polizia, i capelli lunghi e lisci fin sulle spalle. Ignoriamo cosa lo indusse a non guardare davanti a sé, mentre le sopracciglia sembrano pennellate sulle ciglia abbassate, nel viso il cui profilo rimanda a un ritratto del Rinascimento toscano. Luigi giunge sul piazzale della caserma verso le 18, dirà:
C’era tanta gente e varie divise e dei ragazzi contro i muri e della gente è venuta contro il furgone e ha cominciato a battere sui finestrini, a insultarci: «Comunisti, zecche, merde», e ricordo […] il poliziotto in borghese che aveva arrestato il mio amico Piero, è venuto e ha fatto il gesto del taglio della gola […] e io nella mia stupidità ero convinto che fosse intimidazione, cioè speravo che lo fosse.
Cosí come una giovane donna, Aurora O., che davanti alla macchina fotografica della polizia reagisce come può: l’hanno costretta contro una parete bianca, uno stick alla nuca, per tenerle ferma la testa. Fa un mezzo sogghigno all’angolo della bocca e sposta lo sguardo all’insú, di lato, come a significare: «Non m’importa di quel che fate, sto pensando ad altro». Eppure, appena scesa dal veicolo vide:
Confusione molto rumorosa, ordini lanciati, gente spaventata e diverse uniformi, e persone con semplicemente scritto «polizia» o in camicia perché faceva caldissimo, a maniche corte. Blu azzurre, pantaloni tipici di carabinieri e polizia, e arrestati messi a gruppo con poliziotti che li controllavano.
Insomma, uno spettacolo surreale, come precisò ulteriormente Ovidio:
È una cosa che non scorderò mai nella mia vita: è stata una cosa surreale, dopo essere entrati nel cancello, ci siamo fermati davanti all’entrata della caserma e lí c’erano 10 o 20 persone (mi ricordo le divise dei carabinieri in nero o blu scuro e il blu della polizia) poi si accumularono sempre di piú, e il camioncino si è fermato e sono rimasto dentro per quaranta minuti, un’ora e loro stavano intorno a dire: «Bastardi, puzzate, merde, comunisti bastardi ora non c’è Bertinotti a salvarvi, Manu Chao» […].
In verità credo che sbalordimento e incredulità avessero colpito anche i due cittadini tedeschi giunti nel sito con un italiano, Riccardo I.
L’uno, Norwik S., è un giovane uomo, pare freddo, controllato, corti capelli castani, lunghe basette che scendono verso le guance e un vigore giovanile indomito. Sembra osservare quel che accade con un distacco che non verrà piegato dalla sopraffazione; ricorderà: «Un agente, dopo aver aperto la porta del furgone si è rivolto mi pare a Deniz, e ha chiesto se eravamo tedeschi. Lui ha detto di sí e hanno cominciato a dire: “Heil Hitler!”». L’amico, Deniz T., è diverso: il suo viso pulito, con i lunghi capelli che scendono fino al collo, e lo sguardo infinitamente triste della vittima che non reagisce di fronte a qualcosa di troppo grande per essere compreso. D’altronde che può pensare un giovane tedesco, cresciuto in una società che ha bandito anche il ricordo del tiranno, vietandone ogni memoria, di fronte a uomini in divisa, di cui è in balia, che inneggiano al mostro?
Ma soffermiamoci su un altro aspe...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Gridavano e piangevano
  3. Premessa e antefatti
  4. Gridavano e piangevano
  5. I. Il processo
  6. II. Dubbio ragionevole e dubbio irragionevole
  7. III. L’universo concentrazionario
  8. IV. Dare senso al non senso
  9. Conclusione
  10. Condanne e proscioglimenti
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Copyright